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venerdì, Maggio 17, 2024

Le nuove rotte italiane del gas non rispettano i diritti umani e ambientali

Per risolvere la dipendenza dal gas russo il nostro Paese ha sancito una serie di accordi per diversificare gli approvvigionamenti. Per Amnesty “le alternative individuate dal governo garantiranno introiti ad altri Stati autoritari per reprimere le proteste interne”

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

A guardare le pagine social di Luigi Di Maio, si nota che è in una sorta di tour energetico: in pochi giorni il ministro degli esteri, accompagnato dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, ha sancito una serie di accordi per tracciare “nuove” rotte del gas che possano rimpiazzare il gas russo, dal quale il nostro Paese dipende per il 40% dei propri consumi. Algeria, Qatar, Congo e Angola: in pochissimi giorni l’Italia, grazie soprattutto al ruolo di cerniera di Descalzi che vanta un’esperienza ultradecennale nel settore oil&gas nonché consolidati legami con i Paesi africani e il Medioriente, è riuscita a stabilire alcuni accordi per affrancarsi dal regime autoritario di Putin. Legandosi però a Paesi che però non sembrano molto dissimili da quello da cui ci si intende emancipare. Ecco perché abbiamo chiesto un parere ad Amnesty International, la più nota ong sul tema dei diritti umani.

“Va ricordato innanzitutto che la Russia sta muovendo una guerra di aggressione – afferma il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury – E già questo rende la sua situazione non paragonabile a quella di altri Stati. Dopo di che è vero che le alternative che si stanno individuando sono Stati in cui la situazione dei diritti umani nel migliore dei casi non è buona e in quella peggiore è pessima. Questo conferma che quando si tratta di questioni energetiche vengono tenuti in conto gli aspetti economici e non si tiene conto della politica interna dei Paesi da cui ci si rifornisce”.

D’altra parte le connessioni con tali Paesi riguardano al momento soltanto forniture di altro gas, alimentando ulteriormente la dipendenza italiana da una fonte fossile. Lo ha ribadito anche il ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani nell’informativa del 16 marzo al Parlamento sull’ulteriore aumento dei costi dell’energia – la crisi cominciata a fine 2021 è stata poi aggravata dal conflitto bellico in Ucraina. “Al momento l’Italia dipende dal punto di vista energetico al 95% dal gas naturale – ha affermato il ministro – Le importazioni dalla Russia sono aumentate dai 20 miliardi di metri cubi del 2011, che costituivano il 25% dei consumi, ai 29 miliardi del 2021, che costituisce più del 39%. Dal punto di vista della diversificazione abbiamo un sistema di approviggionamento che è abbastanza resiliente, soprattutto gas proveniente dall’estero”.

Insomma: le strutture in buona parte già ci sono ma vanno rafforzate, secondo il governo. In che modo?

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Egitto e Libia i prossimi interlocutori?

Al tavolo delle trattative tra l’Italia e i “nuovi” partner, in realtà quasi sempre fornitori già esistenti ai quali si chiede di aumentare le forniture, non si è minimamente discusso di diritti umani. “Questa è una realtà, e vale sia per gli scenari attuali che per quelli passati – afferma Noury – Penso per esempio all’Egitto, il Paese con cui le relazioni italiane sono dominate dal petrolio e dal gas e dalle armi nonostante l’omicidio di Giulio Regeni. Oppure pensiamo alla Libia dove, dopo la deposizione di Gheddafi, l’unico tema sollevato dall’Italia, oltre alla richiesta di frenare i flussi di migranti, è stato quello della tutela della presenza petrolifera italiana. Invece di ricostruire lo Stato di diritto, si è preferito mettere sotto scorta i giacimenti”.

Sia in Libia che in Egitto Eni vanta una storica e consolidata presenza. Basti pensare che dalla costa libica di Mellitah parte il gasdotto GreenStream che poi approda a Gela, in Sicilia: sin dalla sua costruzione nel 2004 il gasdotto non ha mai marciato a pieno regime e, secondo gli ultimi dati del MiTE, a fronte di una capacità di 10 miliardi di metri cubi di gas nel 2021 ne ha fornito appena un terzo. In Egitto, invece, il solo giacimento di Zhor ha un potenziale di 850 miliardi di metri cubi di gas. Ecco perché è facile supporre che, seppur al momento esclusi dalle visite di Di Maio e Descalzi, l’Italia potrebbe tornare a bussare a breve in questi due Paesi.

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Più gas e meno diritti umani

Per il portavoce di Amnesty International Italia, tuttavia, i due casi nordafricani “sono due esempi gravi tra tanti, perché potremmo parlare allo stesso modo dell’Algeria, dell’area del Golfo, dell’Azerbaigian. Sono tutti Stati che anzi beneficiano delle loro risorse in campo energetico per legittimarsi come interlocutori e, attraverso gli introiti che ne ricavano, mettono a tacere il dissenso interno e le critiche internazionali. Paradossalmente questi Stati autoritari magari riescono pure a essere affidabili dal punto di vista della continuità delle forniture, mentre dal punto di vista etico e morale si preferisce chiudere un occhio”. È uno dei motivi per cui fino a febbraio l’Europa si è legata in maniera così netta alla Russia: l’autoritarismo di Putin, al potere dalla fine degli anni ’90, era comunque garanzia di stabilità.

L’esperienza russa insegna però che dipendere eccessivamente dal volere di despoti e sultani non è neppure conveniente dal punto di vista economico. E allora si può trarre qualche insegnamento dalla guerra in Ucraina, magari a partire dalle trattative in corso? “Se a un livello macro l’Italia ha scelto di abbandonare la Russia, e dunque di non finanziare indirettamente la guerra pagando le forniture di gas, a livello micro si pone lo stesso problema perché le alternative individuate dal governo garantiranno introiti ad altri Stati autoritari per reprimere le proteste interne. Proprio per questo motivo come Amnesty da tempo chiediamo che nelle relazioni economiche vengano inseriti vincoli precisi sulla tutela dei diritti umani, anzi che sia una precondizione. Ma questa richiesta finora non ha incontrato molto consenso all’interno degli Stati”.

In ogni caso, attraverso i nuovi accordi già stabiliti e quelli ancora da concludere, secondo il ministro Cingolani è plausibile “colmare le forniture russe tra i 24 e i 36 mesi”. Ma è davvero un obiettivo alla portata?

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“Né ottimisti né ingenui”

“Dovremo sostituire 30 miliardi di metri cubi di gas prima possibile, ma è uno scenario che non voglio nemmeno considerare perché ha a che fare con una guerra”. Quando il ministro alla Transizione Ecologica si presenta in Senato lo scorso 10 marzo, in teoria il tema dell’audizione è il Pnrr. Al posto della verifica degli obiettivi del MiTE, il dibattito tra governo e parlamento si focalizza però inevitabilmente dalla guerra in Ucraina. Da poco meno di un mese l’Italia sta ridisegnando infatti la propria strategia energetica. Al momento il presidente Vladimir Putin continua a rifornire l’Europa ma, afferma Cingolani, “noi dobbiamo rimpiazzare il gas russo il prima possibile e ci stiamo lavorando”.

Si tratta di una questione complessa, che mette insieme politica ambientale ed estera. Secondo il ministro, “circa 15 miliardi di metri cubi di gas sono già assicurati entro il primo semestre, attraverso una serie di accordi preliminari che sono stati stipulati”. Cifre importanti ma che, come ribadito, sono al di là dell’essere raggiunte. “Non siamo né ottimisti né ingenui, come ci ha dipinto certa stampa, stiamo lavorando con fornitori internazionali e ci basiamo sulle stime di questi Paesi” ha affermato Cingolani. Resta il fatto però, che a detta di parecchie analisi, i tempi descritti dal ministro difficilmente verranno rispettati.

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Se il gas finanzia la guerra in Ucraina

Il perno centrale di ogni strategia energetica non può non partire dal fatto che il nostro Paese ogni anno consuma circa 75 miliardi di metri cubi di gas. Ad oggi l’Italia ha già quasi esaurito le riserve per affrontare un inverno particolarmente rigido. Con i prezzi del gas alle stelle – le quotazioni al mercato internazionale di Amsterdam sono attualmente 10 volte superiori rispetto al prezzo di estrazione – il timore è che in questi mesi non potremo permetterci di colmare le riserve o che comunque questo processo comporterà salassi esorbitanti.

“Con tutta onestà dobbiamo risolvere la questione degli stoccaggi: attualmente sono semivuoti e, in vista del prossimo inverno, dovremo riempirli al 90%”, ha aggiunto ancora Cingolani, così come stabilito dall’Europa con RePower Eu, il piano energetico reso pubblico dalla Commissione lo scorso 8 marzo. D’altra parte “con gli attuali prezzi del gas circa un miliardo di euro al giorno sta entrando nelle casse della Russia. E se consideriamo che la guerra in Ucraina ne sta costando circa la metà, in pratica è come se l’Europa stesse finanziando questo conflitto” … Insomma: da qualunque parte lo si guardi, l’utilizzo del gas è nemico dei diritti umani. Ma anche di quelli ambientali.

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Le conseguenze ambientali del fracking Usa

Oltre al rafforzamento dei gasdotti già esistenti, il nostro Paese punta molto sul GNL, il Gas Naturale Liquefatto, soprattutto di provenienza statunitense. Lo ha ribadito qualche settimana direttamente il premier Mario Draghi, in un’informativa alla Camera, quando ha riferito di essersi confrontato direttamente con il presidente Usa Joe Biden. Se dal punto di vista dei diritti umani gli Stati Uniti danno qualche garanzia in più – anche se secondo l’ultima edizione dell’Index Democracy, redatto dal settimanale The Economist, sono al 26esimo posto e classificati come “democrazia imperfetta” – non avviene lo stesso con gli impatti ambientali. Negli ultimi anni gli Stati Uniti sono diventati autosufficienti dal punto di vista energetico soprattutto grazie al fracking, la discussa tecnica di fratturazione idraulica che ricava gli idrocarburi dalle rocce.

Nel rapporto Fracking by the Numbers l’Environment America Research & Policy Center evidenzia l’inquinamento a danno delle falde acquifere. Ciò avviene soprattutto per via delle infiltrazioni che a causa della trivellazione orizzontale (che consente di arrivare in profondità mai raggiunge prima) possono comportare una contaminazione diretta. In una recente inchiesta del programma Rai Presa Diretta si è evidenziato che il boom del fracking negli Stati Uniti comporta comunque una notevole dispersione di metano che, vale la pena ricordarlo, secondo l’Onu è fino a 70 volte più climalterante dell’anidride carbonica.

E da noi? Come riporta Geopop, “in Italia la Commissione Ambiente della Camera dei Deputati ha approvato nel 2014 una risoluzione che esclude ogni tipo di attività legata al fracking. La scelta è stata fatta seguendo un principio di precauzione ed è stata adottata anche da altri Paesi europei”. Ancora una volta, dunque, vale il principio: quel che accade a casa tua non mi riguarda, purché mi convenga.

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