Le ragioni tecniche a favore del coincenerimento (che EconomiaCircolare.com ha Illustrato in un altro articolo) non sono condivise, però, da tutti. Il deputato Alberto Zolezzi (M5S, Commissione Ambiente), ad esempio, sostiene che “gli impianti di coincenerimento emettono ossidi di azoto e polveri sottili in quantità molto superiore rispetto ai normali inceneritori, fino a sei volte di più, oltre che inquinanti più impegnativi come diossine, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili, sostanze interferenti endocrine capaci di causare malattie all’apparato respiratorio, cardiovascolare e persino malformazioni natali e morte del feto”. Zolezzi, in particolare, cita una serie di studi condotti dai medici per l’ambiente di Isde.
Conclusioni, tuttavia, non confermate da chi le verifiche le deve fare per legge, come Arpa Piemonte. “Abbiamo esperienza diretta nel controllo sia di impianti di incenerimento di rifiuto solido urbano che di coincenerimento di CSS in cementificio e non emergono criticità di questo genere”, risponde l’Agenzia interpellata sul tema. Inoltre, “in base ai dati disponibili non si evidenziano emissioni specifiche di metalli pesanti superiori per il coincenerimento rispetto all’incenerimento”.
Le emissioni dei cementifici e il timore di rischi per la salute dei cittadini
Questo non vuol dire che i forni dei cementifici non producano emissioni e non inquinino, precisa Arpa: “Abbiamo a disposizione i dati emissivi rendicontati (a posteriori) dai gestori, i dati dei controlli a camino direttamente effettuati dai tecnici Arpa nonché le emissioni dei macro-inquinanti (CO, NOx, SOx, Polveri, HCl, HF, COT) misurati e leggibili in continuo da sistemi di monitoraggio delle emissioni, la cui tecnologia, manutenzione, calibrazione e affidabilità è controllata da Arpa”.
Mentre per quanto riguarda le ricadute mediche sulla salute, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente piemontese afferma: “Le attività di coincenerimento condotte sul territorio di competenza di Arpa Piemonte, ormai perduranti da decenni, non hanno evidenziato criticità correlate alle patologie citate”.
In maniera ancora più “risolutiva”, è intervenuto il Tar del Lazio con la sentenza n. 217 del 7 gennaio 2021. “Le fasi di produzione ed utilizzo di CSS-Combustibile – scrivono i giudici amministrativi – si svolgono senza pericolo per la salute dell’uomo e la tutela dell’ambiente. Il principio di precauzione postula la sussistenza di un’effettiva incertezza scientifica. L’osservanza di tale principio non può spingersi fino ad impedire l’ammodernamento tecnologico di impianti produttivi per la presenza di meri ‘timori’ e a fronte dell’espletamento di un’istruttoria aperta al confronto con l’intero territorio”.
Il presidente di Medicina Democratica, Marco Caldiroli, non è, però, del tutto convinto. “Le patologie di cui parla Isde sono state riscontrare nel caso dei cementifici con l’impiego di combustibili fossili tradizionali, quindi non potranno che essere ancora riscontrate con i rifiuti. L’unica possibilità per ridurre (almeno in parte) questi aspetti – conclude Caldiroli, di professione tecnico della prevenzione – è intervenire per migliorare le prestazioni ambientali degli impianti ovvero imporre limiti sempre più stringenti (come prevedono le BAT – migliori tecnologie disponibili, e le relative decisioni della Ue in proposito, non recepite appieno dalle autorità locali)”.
Leggi anche: Cementifici e centrali elettriche: quando i rifiuti non sono bruciati nei termovalorizzatori
Il confronto con i limiti di emissione degli inceneritori
Invece, secondo Isde e Zolezzi, è proprio a causa dei limiti sulle emissioni stabiliti dalla legge che i forni industriali dei cementifici inquinano di più degli inceneritori. Isde, in particolare, negli studi condotti, ha fatto notare come per gli inquinanti gassosi i tetti di emissione dei cementifici in regime di cocombustione sono da 2 a 9 volte più alti rispetto a quelli degli inceneritori classici.
Nel caso, invece, dei “limiti di emissione associati a microinquinanti come diossine e furani, PCB e metalli pesanti – chiarisce Arpa Piemonte – in base al Testo Unico Ambientale sono gli stessi per i termovalorizzatori e i cementifici che effettuano il coincenerimento dei rifiuti”.
La ragione dell’anomalia normativa è da cercare nella differenza dei processi che avvengono all’interno degli inceneritori e dei cementifici. Spiega Antonio Buzzi, Direttore operativo della Buzzi Unicem e vicepresidente di Federbeton Confindustria: “La legge prevede limiti emissivi diversi per alcuni limitati parametri, legati alle alte temperature di combustione (ad esempio NOx) che si raggiungono nei forni da cemento, decisamente superiori a quelle riscontrabili nei termovalorizzatori, ed alla natura delle materie prime (ad esempio COT e SO2)”.
Peraltro la legge prevede per “gli impianti di coincenerimento il rispetto di valori limite di emissione più restrittivi, per il carbonio organico totale e per il monossido di carbonio, quando i suddetti impianti sono autorizzati a modificare le condizioni di esercizio”.
È complicato quindi affermare con sicurezza assoluta che gli impianti di cocombustione inquinino più degli inceneritori. Resta il fatto che il volume delle emissioni gassose nei forni di coincenerimento delle cementerie (in media 550.000 Nm3/ora), è notevolmente maggiore rispetto al volume di emissioni gassose degli inceneritori (in media 90.000 Nm3/ora).
Anche in questo caso, si difende Federbeton, il motivo è la differenza tra i due impianti: “Un inceneritore tratta 150/200 tonnellate di rifiuti all’anno. Noi trattiamo un milione e mezzo di materia all’anno. Di questa solo una minima parte è combustibile fossile o CSS, il resto è materia prima. Quindi – sostiene Buzzi – anche i volumi di gas sono superiori, ma commisurati alla produzione di un bene, piuttosto che alla combustione di un rifiuto fine a se stessa”.
“Il fatto che si tratti di un aspetto pacifico e ammesso dagli stessi gestori – replica Caldiroli – non toglie l’aggravio di impatto (anche a concentrazioni costanti) che riguarda l’area di interesse e pertanto non può essere accettato che tali attività siano avviate con semplici comunicazioni e senza una preventiva valutazione di impatto ambientale”.
Il Decreto semplificazioni del 31 maggio 2021, infatti, ha permesso il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale ai cementifici che vogliono operare in regime di cocombustione con una semplice comunicazione. “Una situazione paradossale” la definisce Zolezzi: “Non si può comunicare una cosa del genere con una Pec. La Provincia e le Arpa hanno un mese di tempo per fare controdeduzione – fa notare il deputato – dopodiché gli impianti sono autorizzati, senza la necessaria analisi dei costi e benefici ambientali e una riflessione adeguata sulle caratteristiche e le necessità specifiche del territorio”.
Leggi anche: Nuovi inceneritori? “L’Italia piuttosto deve iniziare a disfarsi di quelli vecchi”
I limiti delle emissioni sono adeguati?
“D’altro canto – rassicura Arpa – le normative europee sulle emissioni industriali, sull’incenerimento e sull’applicazione delle migliori tecniche disponibili in tale ambito sono del tutto adeguate a garantire la compatibilità ambientale delle soluzioni prospettate”.
E l’innovazione tecnologica, ammette Marco Caldiroli, “ha migliorato le performance ambientali dei cementifici, con o senza rifiuti. In particolare – sottolinea – quasi tutti i cementifici sono della categoria ‘con precalcinatori’ e molti hanno adottato sistemi di abbattimento aggiuntivi di tipo DeNox catalitico”.
Massimiliano Varriale, del WWF, ricorda però come “i limiti di emissione sono valori di compromesso assegnati in base alle migliori tecnologie disponibili e non sono del tutto cautelativi per la salute umana”. Per questo Isde ritiene necessaria una revisione della normativa sulle emissioni. Mentre per il presidente di Medicina Democratica è proprio il principio delle migliori tecnologie disponibili “a ricordarci che non esiste un inquinamento autorizzato eterno”.
Tanto che negli anni, i limiti sono stati di volta in volta abbassati e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) recentemente ha modificato i valori di soglia per tutti i principali inquinanti. L’obiettivo, infatti, conclude Caldiroli, “non deve essere solo il rispetto di limiti generalizzati ma una valutazione su ogni impianto per garantire la ‘riduzione e la prevenzione integrata dell’inquinamento’: in altri termini i cementifici (e gli altri impianti ad elevato impatto ambientale) devono ridurre l’inquinamento in modo costante”.
In un’interpellanza alla Camera, Zolezzi ha sollevato poi la questione dei limiti a seconda delle fasi in cui si trova l’impianto: “Le concentrazioni in regime transitorio, se pur coinvolgono poche ore di esercizio – scrive il deputato della Commissione Ambiente – possono risultare, in base al tipo di inquinante considerato, da uno a tre ordini di grandezza superiori alle concentrazioni in regime stazionario”.
Infatti, i limiti di emissione si applicano alle fasi di normale funzionamento degli impianti, escludendo pertanto le fasi di avvio e arresto e i guasti o manutenzioni. Tuttavia, spiega Arpa Piemonte, “la legge impone che le emissioni in tali fasi siano minimizzate e non sia ammessa l’alimentazione dei rifiuti”.
Leggi anche: Termovalorizzatori, l’Unione europea è d’accordo o no sulla costruzione di nuovi impianti?
Come vengono fatte le misurazioni
Secondo l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, alla base degli studi che attribuiscono una maggiore pericolosità alla cocombustione potrebbe esserci in realtà un fraintendimento: “Ad esempio se si tiene in conto solo la portata di fumi emessa nell’incenerimento e nel coincenerimento. Il rapporto tra i due sistemi di recupero energetico dei rifiuti o dei materiali derivati dai rifiuti andrebbe fatto sulla base di emissioni di inquinanti specifici, vale a dire quantità di inquinanti emesse normalizzate rispetto alle quantità di materiale combusto”.
“E non è semplice perché il coincenerimento è integrato in un processo produttivo e dunque non è possibile stabilire in misura esatta se le emissioni sono determinate dal CSS o da altri materiali”, fa notare Varriale del WWF.
Attualmente, spiega Arpa Piemonte, “le misurazioni e i campionamenti delle emissioni vengono effettuati in una sezione adeguata del camino di espulsione, quindi non sono possibili interferenze da altre fonti. Diverso è il caso dei monitoraggi dell’aria ambiente che possono risentire delle immissioni di diverse fonti”.
Starebbe qui, per il vicepresidente di Federbeton Antonio Buzzi, il problema degli studi di Isde (che riguardano anche cementifici della Buzzi Unicem ndr). “È importante ricordare che la maggior parte delle emissioni di NOx, PM10, PM2,5 non sono tutte causate dal singolo stabilimento, ma prevalentemente da fonti terze, quali il traffico veicolare, il riscaldamento civile e l’agricoltura”, si difende.
Infine, nota l’Arpa, “nei bilanci ambientali, andrebbero anche conteggiate le emissioni evitate per via della sostituzione calorica operata dal CSS nei confronti di combustibili normalmente molto inquinanti quali il carbone o il pet-coke, anche sotto il profilo dei composti clima alteranti”.
La riduzione delle emissioni di CO2, tuttavia, non è così rilevante come si potrebbe pensare e secondo Caldiroli “c’è solo con l’ammodernamento degli impianti se sono stati compensati gli incrementi attesi in relazione alla differente composizione dei rifiuti rispetto ai fossili. Per i microinquinanti i risultati sono controversi come pure per il carbonio organico totale”.
Accuse di inattendibilità anche per i cementifici
Lo stesso discorso sull’attendibilità, però, secondo molti ambientalisti, vale per i cementifici. Ad esempio Caldiroli fa notare come “molta letteratura è parziale e di parte: parziale perché le osservazioni fatte sono saltuarie e per parametri ridotti, di parte perché non sono quasi mai state svolte da organi indipendenti dal gestore dell’impianto”.
E per Zolezzi resta il dato empirico: “È vero, sono studi complessi in cui si misurano zone dove non c’è un unico fattore di rischio o un solo impianto inquinante e non è facile individuare le cause. Però se guardiamo i parametri, sono sempre più elevati rispetto al normale incenerimento”.
Il motivo del presunto minor impatto, secondo il deputato M5S della Commissione Ambiente, è legato al modo in cui viene fatta la rilevazione: “Le emissioni da combustione rifiuti sono considerate minime perché sono misurate separatamente. Non si tiene mai conto degli impatti cumulativi: nei cementifici bruciando rifiuti si emettono insieme diossine, IPA, NOx, metalli pesanti e si contribuisce al particolato secondario in maniera importante. NOx e interferenti endocrini messi insieme – conclude il deputato pentastellato – sono un cocktail velenoso di cui non è semplice stimare l’impatto”.
E questo vale finché restiamo nell’ambito della legalità. Ma non sempre, afferma Zolezzi, siamo di fronte a comportamenti irreprensibili: “Il grosso problema è che spesso dalle aziende non arrivano i dati reali di quell’impianto, sia sulla portata dei fumi, sia sulla concentrazione degli inquinanti. E diventa difficile capire il reale impatto sulla salute”.
Anche perché, come ricorda Ganapini, “le agenzie di controllo in Italia sono state massacrate da anni di tagli di fondi e di risorse umane e tecniche e questo ha determinato un impoverimento costante della capacità di esercitare le verifiche da parte di validatori terzi e indipendenti, mentre modalità di controllo ancora più rigorose devono essere assicurate per un’efficace tracciabilità dei flussi di materia conferiti”.
Federbeton, dal canto suo, assicura sull’accuratezza e veridicità delle rilevazioni. “I gas – spiega Buzzi – sono monitorati in tempo reale e certificati da tecnici accreditati con il compito di fare verifiche e tarature da inviare alle Arpa per tutti i gas misurabili in tempo reale. Nel caso di altri inquinanti, la misurazione avviene almeno tre volte l’anno con campionamenti delle polveri prolungati in più giorni. Campioni che verranno poi analizzati dagli enti di controllo o dei laboratori accreditati”, conclude il vicepresidente di Federbeton.
Leggi anche: Termovalorizzatori, la guerra dei dati: ce n’è davvero bisogno in Italia?
Quali sono i problemi del coincenerimento nella pratica
Al termine di questa analisi, non emergono perciò elementi particolari sulla maggior pericolosità del coincenerimento rispetto all’incenerimento. Certo, si tratta di una soluzione integrata con processi produttivi energivori e di per sé inquinanti, come la produzione di cemento o la siderurgia.
Per Ganapini, in ogni caso, “l’attenzione riservata fino a vent’anni fa alla cocombustione era giustificata perché si tratta di una soluzione intelligente dal punto di vista tecnico e una mediazione ragionevole con le esigenze produttive”. Il contesto attuale, come abbiamo visto, non è esattamente quello che si sarebbe potuto immaginare negli anni in cui si studiava la cementeria di Aalborg.
“Ciò che è emerso dopo venti anni è che siamo in presenza, anche nel nostro Paese, di una sovracapicità di produzione di cemento rispetto alle richieste del mercato”, fa notare per prima cosa Ganapini. “E la conseguente crisi del settore edilizio – continua l’esperto ambientale – ha portato molti cementifici alla chiusura, tanto che l’UE ha accordato sussidi a impianti che risultino funzionanti. Ciò ha spinto molti gestori ad aprire i propri impianti, pur di mantenerli attivi, al CSS (e a pneumatici a fine vita). Qui si innestano interessi criminali, che cercano di immettere nei flussi di CSS rifiuti pericolosi con relativo impatto pesante sulle emissioni”.
Il deputato Alberto Zolezzi cita casi che fanno presumere situazioni opache: “Continuano ad arrivare richieste di autorizzazione, in particolare in Veneto e in Emilia-Romagna, tali da far pensare che il business principale sia lo smaltimento dei rifiuti e solo secondariamente la produzione di un bene”. Secondo Zolezzi rimane inspiegabile come i cementifici non abbiano bruciato nel 2020, secondo i dati della stessa Federbeton, circa 300.000 tonnellate di capacità residua autorizzata.
Tornando nell’ambito della legalità, la cocombustione è una soluzione incoraggiata dallo Stato italiano e comporta dei vantaggi rispetto all’utilizzo di combustibili fossili, permettendo, come ha ricordato il Tar del Lazio e riconosce l’Unione europea, il recupero dei rifiuti attraverso il CSS-Comcustibile. Non si può affermare sia in contrasto con l’economia circolare, ma si tratta di una soluzione meno lungimirante rispetto al riciclo e al riutilizzo e già oggi è praticata residualmente.
Conclude Ganapini: “La cocombustione in forni industriali come quelli rotativi delle cementerie, pur essendo preferibile all’incenerimento, è anch’essa pratica destinata ad esaurimento, perché la moderna gestione dei rifiuti secondo l’approccio di economia circolare, dalla prevenzione alla raccolta differenziata ‘porta a porta’ fino al recupero e riciclaggio, riduce sempre più la quantità di rifiuto urbano residuo, base per la produzione di CSS”.
© Riproduzione riservata