Quando si parla di crisi climatica – e relative soluzioni – gli allevamenti intensivi sono un po’ “l’elefante nella stanza” ( in occasione della COP26 c’è chi parafrasando ha parlato di “mucca nella stanza”). Fuor di metafora, nonostante i tentativi di occultamento o di greenwashing da parte dell’industria della carne, negli ultimi anni l’attenzione ai cambiamenti in atto nel settore è aumentata.
Quello di cui si parla e si sa ancora troppo poco è invece di quanti sussidi godano gli allevamenti intensivi: miliardi di euro, finanziamenti sia pubblici (quindi con le nostre tasse) sia privati, da parte di banche e fondi d’investimento.
Ma allora, quanti sono i soldi che ricevono gli allevamenti intensivi?
Banche che finanziano gli allevamenti intensivi: miliardi per alimentare la crisi climatica
134 miliardi di dollari è il valore che tra il 2016 e il 2023 ben 58 banche statunitensi hanno erogato ad aziende che producono carne, derivati animali e mangimi. Secondo il report Bull in the Climate Shop elaborato dall’ONG Friends of the Earth (ne abbiamo parlato dettagliatamente in questo articolo) questi finanziamenti rappresentano solo lo 0,25% del portafoglio complessivo delle banche – apparentemente cifre “basse” – peccato che solo questi siano responsabili dell’11% delle emissioni di gas a effetto serra dei finanziamenti di queste banche.
63,1 milioni di tonnellate di CO2 equivalente sono le emissioni che, solo nel 2022, hanno finanziato queste 58 banche – equivalenti alle emissioni di tutta l’Austria nel 2020.
74 miliardi di dollari (dei 134 miliardi sopramenzionati) provengono da tre delle banche più importanti degli USA, conosciute come le “Big Three” – parliamo di JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup. Soldi che sono andati a sostenere i giganti dell’agroindustria come Nestlé, ADM, Cargill, Bunge e JBS. Questi miliardi sono responsabili del 32% delle emissioni globali di metano.
Ricordiamo che il metano è un gas serra con un impatto climatico circa 25 volte superiore a quello della CO2. Il metano rappresenta quasi la metà delle emissioni legate ai finanziamenti delle 58 banche, ma spesso viene escluso dalle promesse di riduzione delle emissioni fatte da questi istituti proprio perché, come accennavamo, quando si parla di clima e allevamenti c’è sempre una “mucca nella stanza”.
Queste emissioni potrebbero però essere 4 volte superiori ai dati. Molte aziende del settore della carne e dei latticini non dichiarano infatti correttamente le proprie emissioni. Ciò significa che l’impatto ambientale reale dei finanziamenti bancari è probabilmente molto più alto di quanto indicato nei rapporti ufficiali. Delle 56 aziende finanziante, infatti, solo il 22% rende note le proprie emissioni indirette (conosciute come Scope 3) mentre il 56% non segnala alcune emissione.
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Tornando ai soldi, sono 19,2 miliardi di dollari che solo Nestlé ha ricevuto dalle Big Three tra il 2016 e il 2023. Fondi ingenti che hanno permesso di finanziare la produzione intensiva di carne, derivati e mangimi, dando un ulteriore contributo ad aggravare la crisi climatica.
Altre cifre interessanti arrivano dal report Still Butchering the Planet di Feedback International, sempre elaborato su un’analisi dei finanziamenti privati che finiscono alle più grandi aziende dell’industria della carne.
615 miliardi di dollari in crediti, dal 2015 al 2023 sono stati dati da banche e istituti finanziari ai 55 maggiori produttori intensivi al mondo di carne e latticini. Fondi che hanno portato a una crescita globale pari al 9% nella produzione intensiva di carne e 13% nella produzione del latte, uno sviluppo reso possibile proprio dai finanziamenti delle banche, che hanno permesso una crescita di queste aziende.
Parliamo di circa 76,9 miliardi all’anno.
Andiamo nei dettagli dei principali finanziatori analizzati da questo rapporto e vediamo tornare le stesse Big Three, che hanno dato: 29 miliardi di dollari per Bank of America, 28 miliardi di dollari per Barclays e 27 miliardi di dollari per JPMorgan Chase – per un totale di 84 miliardi di dollari.
Fondi che sono andati principalmente a JBS, il più grande produttore di carne al mondo, che è stato il principale beneficiario, ricevendo oltre 20 miliardi di dollari in finanziamenti, seguito da Tyson Foods (18 miliardi di dollari) e Cargill (19 miliardi di dollari).
Finanziamenti pubblici in pasto agli allevamenti: il caso dell’Unione Europea
Le attività agricole, infatti, ricevono delle sovvenzioni pubbliche in tutto il mondo e il caso dell’Unione Europea è particolarmente importante per vedere quanti soldi finiscono agli allevamenti intensivi.
386,6 miliardi di euro dal 2021 al 2027 è il valore della Politica Agricola Comune (PAC), il cui scopo è sostenere la produzione agricola in UE così da garantire la sicurezza alimentare e – almeno in teoria – un sostegno all’agricoltura sostenibile. Piccola notazione molto importante: la PAC copre oltre il 30% del bilancio dell’UE e dunque è una parte cospicua del bilancio – e anche delle tasse che ognuno di noi versa. Uno dei punti fondamentali della PAC sono i finanziamenti diretti, che consistono in una buona parte in distribuzioni di fondi pubblici ad attività e imprese agricole. Peccato che con il tempo questo sistema ha finito per agevolare non tanto la transizione ecologica, ma solo le aziende che producono di più. Secondo uno studio presentato dalla Commissione Europea oltre l’80% dei soldi della PAC sono finite solo al 20% delle aziende, spesso le più grandi (e questo per diverse ragioni, legate anche alla maggiore dimestichezza con le complesse procedure per accedere ai fondi). E come rivela un rapporto del WWF, circa il 60% dei finanziamenti PAC sono considerati dannosi per la biodiversità.
Ogni anno quindi 32,1 miliardi di euro sono usati per sostenere pratiche agricole che hanno un impatto negativo sulla biodiversità, come l’espansione degli allevamenti intensivi.
Più dell’80% dei fondi PAC è andato ai prodotti di origine animale, secondo un recente studio di Nature Food. Un esempio: per ogni chilo di carne bovina, i sussidi sarebbero pari a circa 1,42 euro. Le proteine animali ricevono infatti 4 volte più sussidi che quelle vegetali — che sono più efficienti e sostenibili.
Ciò significa che dai 28,5 ai 32,6 miliardi di euro all’anno finiscono a sostenere gli allevamenti, la maggior parte dei quali sono strutture intensive, che si basano sulla sofferenza degli animali e che creano inquinamento ambientale . Bisogna chiarire che quando parliamo dell’industria della carne ci riferiamo anche a chi coltiva cereali per la produzione di mangime. Nel momento in cui i soldi della PAC finiscono a sostenere gli allevamenti potrebbe sorgere il dubbio che questi vadano a favore di allevamenti estensivi. La realtà però è diversa. Come prima cosa perché, come rileva Eurostat, il 72% degli animali allevati nell’UE proviene da aziende intensive – ciò significa che 7 allevamenti su 10 sono intensivi. Inoltre, sempre secondo Eurostat, il trend europeo per quanto riguarda gli allevamenti mostra come negli anni siano aumentate quelle aziende con una maggiore densità di animali allevati e che erano aziende più grandi.
Ad esempio solo nel nostro paese, il numero delle aziende molto grandi è aumentato di oltre il 20% – mentre il 38% delle aziende piccole ha chiuso. Per capire quanto questo dato è importante sottolineare su cosa si basa la differenzia tra le aziende – grandi e piccole. Per fare questa valutazione l’UE usa un valore conosciuto come (S.O.), che rispecchia il valore monetario medio della produzione agricola o per singolo animale (allevamenti) o per ettaro (agricoltura). Le aziende molto grandi sono quelle con uno S.O del valore di 500 mila euro, mentre le piccole sono invece inferiori a 2000 euro.
Guardando poi al suolo necessario a sfamare i capi allevati, oltre il 71% della superficie agricola dell’UE (coltivazioni, seminativi, prati per foraggio e pascoli) è destinata all’alimentazione del bestiame, invece che a coltivare cibo per le persone.
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Facciamo un salto in Italia ora.
Dal 2023 al 2027 ben l’80% dei fondi della PAC (36,54 miliardi) finirà al 20% delle aziende agricole, e come spiega un recente rapporto del WWF, questo 20% di fatto rappresenta le aziende più grandi e tra le più inquinanti del nostro Paese.
Peraltro i due terzi delle aziende zootecniche (cioè legate alla produzione di carne e derivati) si trovano in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Queste tre Regioni sono quelle che hanno la maggiore concentrazione degli allevamenti intensivi del nostro Paese. In primis la Lombardia nella quale sono allevati circa il 50% dei maiali e delle mucche per la produzione di latte di tutto il Paese.
Ammontano a 120 milioni di euro i fondi PAC destinati nel 2018 agli allevamenti in più di 150 comuni lombardi, nonostante l’elevato rischio ambientale dovuto all’eccessivo carico di azoto. Il report di Greenpeace “Fondi pubblici in pasto ai maiali” mostra come questi comuni hanno superato i limiti legali di azoto per ettaro stabiliti dalla Direttiva Nitrati dell’UE, il che comporta gravi rischi per la salute umana e l’ambiente, tra cui la contaminazione delle acque potabili. Nonostante questi rischi, i fondi continuano a essere assegnati a queste attività in queste zone.
Gli allevamenti intensivi italiani hanno prodotto quasi 21 mila tonnellate di ammoniaca nel 2020, una sostanza altamente inquinante derivante dai reflui animali. L’ammoniaca contribuisce alla formazione di particolato fine, che è responsabile di gravi problemi di salute pubblica, inclusi malattie respiratorie e cardiovascolari. La Pianura Padana, dove si concentra la maggior parte degli allevamenti intensivi, è una delle aree più colpite, con livelli di inquinamento dell’aria tra i più alti d’Europa. Nonostante l’impatto negativo sulla salute e sull’ambiente, questi allevamenti continuano a ricevere ingenti finanziamenti pubblici attraverso la PAC.
Come denuncia uno studio di Greenpeace, in base alla normativa vigente, gran parte delle aziende del settore zootecnico non èobbligata a comunicare le proprie emissioni, pur contribuendo largamente a essere.
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Un’ultima cifra per capire bene cosa ci costa davvero finanziare gli allevamenti
9,8 trilioni di dollari. Ecco il valore di quanto il consumo di prodotti animali costa alla società ogni anno in termini di impatto ambientale e salute pubblica. Su un totale di circa 14 trilioni di dollari, circa il 70% dei costi nascosti in media a livello globale dipende dai prodotti animali – una percentuale che nei paesi più ricchi, dove questi alimenti sono più consumati, arriva all’84%. A rivelare questi dati è stato un recente studio di Nature Food, uno dei più esaustivi sull’argomento, che ha calcolato il “costo nascosto” del cibo che consumiamo a partire dai parametri dell’impatto ambientale e dai costi sanitari a cui sono associati.
Due parole sui costi nascosti: quando produciamo qualcosa, come ad esempio della carne, esistono dei costi di produzione (quindi costi materiali) e dei costi che rappresentano le conseguenze negative di questa produzione, come l’impatto ambientale o sulla salute pubblica. Questi costi non vengono messi in listino né sono pagati in etichetta, ma vanno a ricadere sull’intera collettività.
Per restare sull’esempio, il consumo di carne (soprattutto carne rossa) porta allo sviluppo di malattie croniche come malattie cardiache, ictus, diabete di tipo 2 e alcuni tipi di cancro. Problemi di salute che generano enormi costi sanitari. Passando sul lato ambientale, la produzione di carne ha un enorme impatto ambientale: è responsabile della deforestazione in molte aree del Pianeta ed è direttamente collegata con la crisi climatica. Anche in questo caso, tutte problematiche che hanno ricadute economiche, che però non finisco nel costo dei prodotti animali.
Avremmo una riduzione di 7,3 trilioni di dollari di costi nascosti legati al cibo se adottassimo un’alimentazione 100% vegetale. Ciò che mette in luce questo studio è che più riduciamo il consumo di prodotti animali e più riduciamo i costi ambientali e sanitari che grava su tutta la società.
Di fronte a questi dati viene spontanea la domanda: ma allora perché continuiamo a finanziare con soldi pubblici e privati un modello alimentare che è crudele verso gli animali, che sta aumentando le conseguenze della crisi climatica e che ha un impatto notevole sulla salute pubblica? Stiamo destinando risorse economiche enormi che permettono il fiorire e la crescita degli allevamenti intensivi, attività che sono in netta contrapposizione con il bene comune. Anzi, proprio continuare a finanziare queste realtà impedisce di usare i nostri soldi per una transizione alimentare davvero sostenibile.
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