Il mito dei giovani, quali “esseri incomprensibili” così distanti da chi ormai giovane non è più, sembra essere amplificato oggi dalle nuove tecnologie: si fatica a star dietro a nuovi media e linguaggi, così come a trend e a rinnovate consapevolezze che a volte interessano anche il cibo.
Se da una parte la precarietà economica spinge le nuove generazioni a far i conti con uno stile di vita spesso lontano da quello dei loro stessi genitori, a ben guardare la sostenibilità sembra essere un fattore non trascurabile nelle loro scelte alimentari. Le azioni di protesta, che in molti ragazze e ragazzi cercano di portare avanti prendendo parte a movimenti che tentano di accendere i riflettori sul futuro del Pianeta, iniziano insomma anche dal piatto.
In vista del 16 ottobre, Giornata mondiale dell’alimentazione, cerchiamo di tracciare un quadro – senza la pretesa di essere esaustivo, si intende – sulle scelte alimentari di chi si troverà nel prossimo futuro a far fronte agli effetti sempre più pressanti della crisi climatica, che coinvolgeranno anche qualità e disponibilità di cibo.
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Una spesa consapevole e meno sprechi
Secondo un’indagine condotta da Too Good To Go e ISIC Italia – effettuata in Italia, Francia, Spagna e Portogallo, su un campione di 5200 studenti con un’età media compresa tra i 20 e i 24 anni – gli studenti prestano più attenzione alla riduzione degli sprechi (63%) e fanno più affidamento a promozioni e sconti per fare la spesa (83%), dichiarando di aver bisogno di almeno 100 euro in più al mese per una dieta equilibrata (47%).
Un approccio diverso alla spesa, evidenziato anche da un altro studio di Too Good To Go e YouGov, secondo il quale oltre il 91% degli intervistati ha modificato le proprie abitudini alimentari. Una decisione dettata da motivazioni economiche, ma non solo: per un intervistato su due (49%) si tratta di una scelta legata a doppio filo con la volontà di adottare nella propria quotidianità delle nuove pratiche più sostenibili, utili a ridurre lo spreco alimentare.
D’altronde, in un’intervista rilasciata al Gambero Rosso, Daniela Fabbi, direttrice Comunicazione e Marketing CIRFOOD, commentando una report dell’Osservatorio CIRFOOD District e Ipsos sul rapporto tra Gen Z e cibo, ha detto: “Loro – la generazione Z, ndr – sono ambasciatori di tematiche green. Si informano, guardano l’intero aspetto del sistema alimentare, controllano l’origine dei prodotti e cercano di essere consumatori consapevoli per salvaguardare l’ambiente. Questo è il vero trend, per il momento, i vegani sono ancora una piccola parte, ma in generale si consuma meno carne e pesce in favore di fonti proteiche”.
La tendenza che ha coinvolto le giovani generazioni nel 2024, come confermato dal sito statunitense Eater, sembra essere stata quella dei dinner party, cioè delle cene a casa con amici al posto delle più costose e impegnative cene fuori. Come spiegato in un articolo del New York times da Andrew Freeman, presidente di AF&Co. – società di consulenza di San Francisco che da 16 anni pubblica un popolare report sulle tendenze del cibo – : “Le persone vogliono ingredienti di alta qualità, ma vogliono anche un valore, soprattutto i membri della generazione Z, che stanno emergendo come cuochi e commensali sensibili e scettici“.
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Le mense universitarie poco green
Quando però a scegliere non sono ragazze e ragazzi, le cose si fanno più complicate. Per questo nasce il report Mense per il Clima – Ranking della ristorazione universitaria: si tratta di un’analisi dei menù delle mense universitarie italiane volta a mappare le realtà con una maggiore offerta vegetale. Il sondaggio è stato condotto da Essere Animali ETS nell’ambito del progetto MenoPerPiù e l’Analisi LCA, in particolare l’impatto di ogni piatto sul clima, è stata fornita dalla società Demetra.
Seppur con alcune lacune date da difficoltà oggettive di tracciamento dei dati – degli 88 istituti universitari italiani, è stato possibile analizzare un massimo di 58 menù riferiti a 49 atenei, poiché 39 realtà o non hanno risposto o sono risultate sprovviste di una mensa dedicata – lo studio offre interessanti punti di vista non solo in chiave di indagine, ma anche suggerendo possibili azioni da mettere in campo.
In media, oltre una mensa su due, il 55% del totale, non contempla secondi a base di proteine vegetali, mentre il 22% delle strutture li propone solo 1-2 volte a settimana: complessivamente dunque il 77% delle realtà analizzate ha ancora molto lavoro da fare per promuovere un’alimentazione bilanciata a minore impatto ambientale.
Va meglio per quanto riguarda i primi piatti, che per loro natura sono più semplici da formulare senza derivati animali: nel 62% delle strutture si trova sempre o quasi almeno un primo vegetale, mentre solo il 6% delle mense non ne offre nemmeno una volta alla settimana.
Sono state inoltre analizzate 16 pietanze presenti nella maggior parte delle mense, valutando cinque parametri relativi all’analisi del ciclo di vita (LCA – Life Cycle Assessment). Dai risultati emerge come le portate a base di carne sono quelle che emettono più gas climalteranti.
In particolare, “osservando i primi piatti, – scrivono nel report – è interessante notare come alla carne sia associato il 62-75% dell’impatto complessivo della portata, pur rappresentando solo l’11-30% del peso a crudo. I costi ambientali di un secondo di carne o pesce sono tra le quattro e le 10 volte superiori a quelli di un secondo a base di legumi, motivo per cui è urgente una transizione della ristorazione collettiva universitaria in chiave vegetale e sostenibile”.
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