Tutto è cominciato col Veneto e lo scandalo della Miteni. Fino a quel momento in Italia nessuno aveva sentito parlare di Pfas, molecole diffusissime nell’industria per le loro proprietà di resistenza, impermeabilità all’acqua e ai grassi, chiamati “forever chemicals”, inquinanti eterni, per la caratteristica di non degradarsi e restare per sempre nell’ambiente dove sono dispersi o negli esseri viventi se vengono contaminati.
Il problema è che nella famiglia dei Pfas ci sono alcuni, come il Pfoa, classificato dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) come cancerogeno per l’uomo e il Pfos, possibile cancerogeno. Più altre migliaia di molecole simili, di cui ancora non si sanno gli effetti, ma si può sospettare che difficilmente saranno diversi dagli altri, di cui condividono struttura chimica e funzione. Con rischi elevati per la salute, visto che gli studi stanno dimostrando una correlazione tra esposizione ai Pfas e alcune tipologie di tumore.
In Veneto i Pfas prodotti dall’azienda Miteni hanno contaminato la falda acquifera di un territorio compreso tra le province di Vicenza, Verona e Padova e 350.000 cittadini hanno bevuto acqua con elevate dosi di questi pericolosi inquinanti. Dopo che lo scandalo è diventato di dominio pubblico, con un maxi processo in corso, dopo che è stata istituita una zona rossa, sono state fatte analisi in altre parti d’Italia. E quello che si è scoperto è che i Pfas sono ovunque: dal Piemonte alla Toscana, dalle fonti d’acqua a 1.600 metri fino alle foci dei fiumi.
Leggi anche lo SPECIALE | PFAS
Lo studio di Greenpeace: i Pfas sono un’emergenza nazionale
Comincia con una carrellata di dati la conferenza organizzata da Greenpeace alla Camera dei deputati per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza ambientale e sanitaria rappresentata dai Pfas. E chiedere alle istituzioni di intervenire, come stanno facendo già altre nazioni, dagli Stati Uniti alla Francia, per regolare con maggiore severità gli inquinanti eterni fino a bandirli definitivamente. Perché come racconteranno i comitati dei cittadini delle “zone sacrificate” all’inquinamento da Pfas, ci sono persone che muoiono e si ammalano ogni giorno per colpa di queste sostanze.
L’ultima inchiesta di Greenpeace, presentata a margine dell’evento, basata su dati Ispra raccolti tra il 2019 e il 2022, dimostra che la contaminazione da Pfas è presente in tutte le regioni italiane in cui sono state effettuate le indagini nei corpi idrici (fiumi, laghi e acque sotterranee). “I dati relativi alla presenza di Pfas in Italia confermano un’emergenza sanitaria nazionale diffusa e fuori controllo” afferma Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia: “Si tratta di un quadro grave e per di più incompleto a causa della mancanza di uniformità nei controlli a livello nazionale e dell’inefficacia dei monitoraggi in numerose regioni”, mette in guardia.
Malgrado l’ampia diffusione di questo inquinamento, nella maggior parte d’Italia, infatti, i controlli sono ancora pochi, frammentari o addirittura assenti, tanto che la reale portata del fenomeno è sconosciuta: quasi il 70% delle analisi è stato eseguito in quattro regioni del nord Italia (Veneto, Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia), mentre il restante 30% è distribuito nelle altre dodici, tra cui in Puglia, Sardegna, Molise e Calabria non risulta alcuna indagine sui Pfas. Il problema è che più le regioni fanno controlli, e più emergono contaminazioni: queste pericolose sostanze chimiche erano presenti nel 17% dei risultati delle analisi tra il 2019 e il 2022, per un totale di quasi 18.000 misurazioni positive, fa notare Greenpeace.
Il Piemonte: uno nuovo scandalo Miteni troppo sottaciuto
Dove l’emergenza è altissima e l’attenzione è poca è il Piemonte e in particolare la provincia di Alessandria. Si trova qui l’azienda chimica Solvay (oggi Syensqo), unica produttrice attiva di Pfas in Italia. E, infatti, concentrazioni particolarmente elevate di Pfoa e Pfos sono state trovate nei corpi idrici (torrente Bormida di Spingo e fiume Tanaro) nell’area contigua alle attività di Solvay. Cosa voglia dire per gli abitanti della zona lo hanno spiegato i comitati dei cittadini.
Mirella Benazzo, dell’associazione Anemos Piemonte, ha elencato gli allarmanti dati sulla mortalità dei cittadini che vivono intorno allo stabilimento di Alessandria: “Più 159% melanomi, più 1142% tumore della mammella, più 92% mortalità per ipertensione arteriosa, più 217% tumore alla vescica e più 145% tumore al rene”. Eppure, come ha fatto notare Eugenio Spineto, del comitato stop Solvay, “mentre i cittadini chiedevano alle istituzioni il biomonitoraggio, Solvay otteneva dalla provincia il permesso di aumentare la produzione di cC6O4”, il Pfas col quale ha sostituito il Pfoa nella linea di produzione.
Una volta raggiunti i fiumi e la falda acquifera, le sostanze non si fermano: e concentrazioni di Pfas elevate sono state trovate più a nord, nei pozzi della Val di Susa. “In una fonte a 1.200 metri dove i cittadini raccolgono l’acqua, nel marzo 2023 sono stati misurati 96 nanogrammi per litro di Pfas e nessuno si sta muovendo per scoprire quale sia la fonte di contaminazione”, ha denunciato Silvio Tonda, del comitato Acqua sicura Piemonte. Mentre il Pfoa è stato rilevato anche nel fiume Dora Baltea a Vercelli.
Leggi anche: PFAS, la sigla tossica che avvelena l’Europa
Lombardia e Toscana sono altre due regioni a rischio
Oltre alle province del Veneto e nell’alessandrino in Piemonte, le più alte concentrazioni di Pfoa sono state riscontrate in Lombardia. Nel dettaglio torrente Molgora, comuni di Lavagna e Cavaione (Milano) e comune di Ottobiano (Pavia). Alte concentrazioni di Pfos, sempre in Lombardia, si trovano in una zona agricola e industriale in provincia di Pavia, nel Lago di Como (all’altezza di Dervio e Cernobbio) e in un comune in provincia di Monza e Brianza. Mentre in provincia di Brescia, come ha spiegato Ivana Fabris, del comitato Acqua e salute di Capriolo Lombardo, l’azienda Caffaro ha contaminato l’intero territorio e ci sono Pfas persino nei pozzi che servono le scuole.
La situazione non è diversa in Toscana. Tommaso Panigada, dell’associazione Senza confini Toscana, invitato alla conferenza, ha ricordato come gli impatti dell’industria conciaria, tessile, florovivaistica e del cuoio erano già stati evidenziati dallo studio del 2013 del Cnr-Irsa e dai rilievi annuali di Arpat. A questi si sono aggiunte le più recenti analisi condotte da Greenpeace, che hanno provato la diffusione di inquinamento da Pfas nel distretto cartario lucchese. Le rilevazioni hanno sempre confermato un dato: l’inquinamento è massimo a valle degli scarichi delle aziende e scompare a monte, se qualcuno avesse dubbi su quali siano le fonti della presenza di Pfas nell’ambiente.
L’unico modo per difendersi dai Pfas è prevenirne la diffusione
Quali siano le conseguenze per la salute lo hanno già denunciato le associazioni dei cittadini. Supportati da una lunga serie di relatori autorevoli, invitati da Greenpeace alla conferenza per dimostrare come, a livello di comunità scientifica, non ci siano gli stessi dubbi che fermano la politica. Lo dicono i medici, come Edoardo Bortolotto di Medicina democratica e Francesco Bertola di Isde (Associazione medici per l’ambiente). Isde ha annunciato a breve la diffusione di uno studio sulla correlazione tra Pfas e salute riproduttiva, fatto su mille ragazzi che vivono nella zona rossa in Veneto. Il risultato lascia presagire, tuttavia, poche sorprese in senso positivo: in uno dei paesi più esposti all’inquinamento dei Pfas, sono già state riscontrate il doppio di asportazioni di testicoli per causa tumore rispetto alla media nazionale.
Preoccupazioni condivise dai ricercatori del Cnr-Irsa Sara Valsecchi e Stefano Polesello. Fanno parte della squadra che nel 2013 ha portato alla luce il caso Miteni e l’inquinamento delle acque potabili in Veneto e da quindici anni studiano i Pfas. “Correre dietro alle azioni di mitigazione non è sufficiente”, è la conclusione di Polesello. Da un lato perché le aziende creano continuamente nuovi Pfas, proprio per sfuggire alla possibilità di studiarne gli effetti e aggirare le eventuali limitazioni, dall’altro “perché non proteggono dalle esposizioni future”. Sì, perché a causa della loro capacità di accumularsi il pericolo maggiore non è una questione di quantità immediata ma di esposizione prolungata nel tempo: “L’unica soluzione perciò è bandirli”, taglia corto.
Leggi anche: “PFAS, nessuno è immune”. Intervista a Giuseppe Ungherese
Greenpeace: una legge per mettere al bando l’utilizzo dei Pfas
È l’obiettivo per cui Greenpeace sta facendo campagna da anni, con l’obiettivo di spingere le istituzioni ad approvare una legge che limiti l’uso e la produzione di queste sostanze pericolose, fino a una moratoria su tutti i Pfas, indipendentemente dall’utilizzo, dalla categoria e dalle caratteristiche. Del resto negli Stati Uniti l’Epa (Agenzia per la protezione ambientale) ha fissato limiti molto bassi per la presenza nelle acque potabili di sei Pfas e per Pfoa e Pfos i valori di sicurezza sono lo zero tecnico. Mentre in Francia dal 2026 sarà vietata la produzione e la vendita di prodotti non essenziali contenenti Pfas, come cosmetici e abiti. Divieti simili sono stati inseriti dalla Danimarca.
Cinque nazioni europee (Germania, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Norvegia) hanno chiesto di vietare l’uso e la produzione dei Pfas nell’ambito del regolamento europeo Reach. Per il momento, infatti, gli unici a essere vietati sono Pfos e Pfoa, ma i Pfas sono oltre 10.000. Né può essere sufficiente l’obbligo dal 2026 della direttiva europea 2020/2184 che fissa i limiti dei Pfas per le acque potabili, perché la comunità scientifica non ritiene questi valori cautelativi per la salute umana.
Purtroppo in Italia, oltre alla mancanza di controlli e di analisi, non sembra però esserci la volontà politica di intraprendere un percorso simile. Così le sostanze continuino ad essere sversate impunemente. Insomma, l’inazione politico-amministrativa rende tutto ancora più difficile. Il quadro emerso dalla conferenza organizzata da Greenpeace è grave e la situazione potrebbe essere peggiore, perché si fonda su dati e indagini parziali.
“Cosa aspetta il governo Meloni a promuovere un provvedimento che limiti, a livello nazionale, l’uso e la produzione di queste pericolose sostanze, a tutela dell’ambiente e della salute di tutte e tutti noi?”, ha concluso Ungherese commentando i dati dell’inchiesta di Greenpeace. Sicuramente ci sarà molto da aspettare. E intanto alcune zone d’Italia e gli abitanti che ci vivono sono sacrificati per non interferire con le esigenze economiche e produttive delle aziende, nonostante ci sarebbero alternative più sicure.
© Riproduzione riservata