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mercoledì, Dicembre 11, 2024

I sistemi alimentari alla Cop29: com’è andata?

Un bilancio della Cop sul clima di Baku, in vista della Cop30 in Brasile, uno dei maggiori produttori ed esportatori di carne al mondo: “L’industria zootecnica è un importante motore di inquinamento climatico, ma ha volato sotto il radar”

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG scrivendo come ufficio stampa e occupandosi della gestione dei social, ma da tre anni è fisso a Essere Animali. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

La Cop29 sul clima di Baku si è conclusa con un accordo relativo a quella che possiamo definire “finanza climatica” che – come abbiamo raccontato – ha lasciato molta insoddisfazione generale – in particolare è importante menzionare che mancano riferimenti chiari e vincolanti relativamente alla necessità di ridurre le emissioni provenienti dai combustibili fossili. Ma in fondo, cosa potevamo aspettarci da una Cop che ha luogo in uno dei “petrostati”?

Ma cosa è uscito fuori da questa Cop sui sistemi alimentari? Ricordiamo infatti che il nostro sistema alimentare e l’agricoltura in generale contribuisce in modo determinante alle emissioni globali di gas serra nel mondo – di cui almeno il 14% solo la produzione di carne e derivati animali.

Partiamo subito dicendo una cosa: nei documenti finali non viene nominata esplicitamente e in modo vincolante la riduzione del consumo di carne per gli stati più ricchi come strategia di riduzione delle emissioni. Non ci aspettavamo una cosa del genere, ma comunque rimane un’occasione persa per mettere alla luce il ruolo dell’industria più inquinante in tema di agricoltura.

Cop29: non proprio la Cop del cibo

Era prevedibile che non ci sarebbe stata molta attenzione ai sistemi alimentari – quanto più ai finanziamenti. E questa previsione di fatto non è stata per niente delusa. Effettivamente i sistemi alimentari avevano trovato molta attenzione alla Cop28, che era stata definita una Cop sul cibo. Non è infatti un caso che il numero di lobbisti e rappresentanti delle grandi industrie agroalimentari sono stati così tanti nella Cop28. Anche nella COP29 il loro numero era molto interessante – più di 200 in totale, con circa una 50 di persone legate all’industria della carne e dei derivati. E proprio per avere più trasparenza e indipendenza nelle decisioni dei consessi in cui si  delinea l’azione globale contro la crisi climatica, il nostro magazine, insieme all’associazione ecologista A Sud e da Fondazione Openpolis, ha avvito la campagna Clean the Cop: per chiedere al governo italiano di lavorare per ripulire le negoziazioni climatiche internazionali dagli interessi delle industrie dell’Oil&gas. 

Inoltre sappiamo già che la Cop30 in Brasile sarà importante per cibo e deforestazione, per cui questa Cop29 era sentita come un momento quasi di passaggio.

Ma non sono mancate le novità. Vorrei partire da una che mi ha dato speranza. La Danimarca è stato il Paese che più sembra aver preso seriamente l’importanza di intervenire sui sistemi alimentari. E dopo che ha imposto una tassa per gli allevatori, così da ridurre le emissioni, ha proposto di convertire il 15% delle sue terre agricole in foreste e habitat naturali così da intervenire ancora più seriamente sulla riduzione dei gas climalteranti.

La cosa più corposa in tema di agricoltura è invece l’iniziativa Baku Harmoniya Climate Initiative for Farmers, lanciata dalla FAO in collaborazione con la presidenza della Cop29. È una piattaforma che faciliterà la collaborazione e lo scambio di conoscenze tra le varie iniziative legate ai sistemi agroalimentari. Inoltre punta a incentivare investimenti pubblici e privati per trasformare questi sistemi, collaborando con istituzioni finanziarie internazionali. Infine si concentra sull’empowerment di donne e giovani agricoltori, promuovendo comunità rurali resilienti al clima.

Questa iniziativa non ha comunque soddisfatto molti: la Pesticide Action Network Asia Pacific (PANAP), ad esempio, l’ha definita un progetto che favorisce le grandi multinazionali a scapito delle soluzioni climatiche reali e del benessere degli agricoltori.
Insomma, un altro strumento per arricchire i giganti dell’agribusiness, a discapito di tutto il resto.

Leggi anche: Leggi anche: Cop29, a Baku un accordo debole e troppi nodi irrisolti

Ancora troppo pochi finanziamenti all’agricoltura

Durante la Cop29 la FAO ha presentato un quadro completo della situazione dei sistemi agroalimentari nel contesto della crisi climatica, mostrando come i sistemi alimentari ricevano ancora troppi pochi finanziamenti. Questi fondi sono diminuiti drasticamente negli ultimi due decenni, passando da un 37% del totale dei finanziamenti per lo sviluppo legati al clima a un 23%. Per la FAO sono necessari 1150 miliardi di dollari all’anno per trasformare i sistemi agroalimentari in chiave sostenibile – ma quelli resi disponibili proprio durante la Cop sono stati 29 miliardi.

Ma c’è un aspetto ancora più preoccupante: che solo l’1% di questi fondi finisce ai piccoli produttori – nonostante producano circa un terzo del cibo nel mondo. Piccoli produttori che sono appunto più esposti agli effetti della crisi climatica (alluvioni, incendi, siccità).

Lo abbiamo già detto: i sistemi agroalimentari contribuiscono a circa un terzo delle emissioni globali di gas serra – secondo la FAO. Allo stesso tempo, l’agricoltura è uno dei settori più vulnerabili all’impatto della crisi climatica: basti pensare a come anche solo in Italia come la siccità abbia messo in ginocchio la produzione agricola. Sempre la FAO ha stimato che negli ultimi 30 anni gli eventi estremi hanno provocato danni all’agricoltura per centinaia di miliardi di dollari ogni anno.

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un paradosso – che riflette curiosamente (o no?) anche quello che succede con la Politica agricola comunitaria (PAC)  – e cioè che sono i grandi produttori a prendersi la maggior parte dei finanziamenti, nonostante abbiano una forma di produzione più insostenibile. Basti pensare che JBS, uno dei giganti dell’agribusiness mondiale e numero uno in produzione di carne in Brasile, chieda soldi pubblici per combattere la crisi climatica.

Misure insufficienti per la riduzione delle emissioni dagli allevamenti

Sempre la FAO ha fatto un’interessante analisi degli NDC (Nationally Determined Contributions), cioè i piani climatici dei diversi Paesi, in cui viene spiegato come intendano ridurre le emissioni di gas climalteranti e attuare le misure di adattamento alla crisi climatica. Questi, per intenderci, vengono usati anche per capire se gli Stati si stanno avvicinando agli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Nel campo agricolo, purtroppo, non siamo messi bene: come mostra sempre la FAO nello stesso documento, solo il 40% delle emissioni agroalimentari viene effettivamente considerato affrontato nei piani di riduzione delle nazioni – nonostante il 94% dei paesi riconosca l’agricoltura come prioritaria. Indovinate quale ambito è quello meno preso in considerazione? Bingo, la produzione di metano da parte degli allevamenti: nel mondo il 66% di tutte le emissioni proveniente dagli animali allevati non viene di fatto considerato.

La cosa che fa arrabbiare è che la presa di coscienza sul ruolo del metano nel causare la crisi climatica c’è: alla Cop27 era stato creato il global methane pledge, ma non veniva menzionato il ruolo degli allevamenti. E alla Cop29 i passi avanti sul tema del metano non sono mancati: oltre 30 paesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano derivanti da sprechi alimentari e rifiuti organici, responsabili di una quota significativa delle emissioni globali.

carne allevamenti greenwashing
Foto: Canva

Leggi anche: Regolamento deforestazione, approvato il rinvio di (almeno) un anno

L’elefante nella stanza – ancora una volta

Ancora una volta, sembra che l’industria della carne – e il suo impatto ambientale – sia riuscita a sfuggire ai riflettori. Il caso del metano appena citato è emblematico.

Una delle ragioni per la continua assenza di posizioni forti e decise sugli allevamenti ha a che fare con la presenza di lobbisti che, anche in questa Cop, riescono a portare gli interessi di queste industrie nei consessi in cui si decide. L’analisi di DeSmog, fatta direttamente sul campo della Cop29, ha rilevato oltre 204 lobbisti dell’agribusiness – di cui il 40% accreditati come membri di una delle delegazioni nazionali (avevo spiegato cosa significa in questo articolo).

Qesto significa che alla Cop29 hanno partecipato aziende come JBS, Elanco (che si occupa di farmaceutica per animali) e Nestlé, che hanno presentato diverse soluzioni tecnologiche – e quindi, spesso, di greenwashing – con l’obiettivo di distogliere l’attenzione sulla necessità di ridurre il numero di animali allevati. Un esempio? Gli additivi nel cibo per ridurre il metano nei ruminanti.

Una presenza che ha destato molta preoccupazioni, e vorrei citare la portavoce di Greenpeace Aotearoa che ha dichiarato “L’industria zootecnica è un importante motore di inquinamento climatico, ma ha volato sotto il radar in gran parte delle precedenti conferenze ONU sul clima.

E queste preoccupazioni sono ben fondate. Come hanno dimostrato alcuni recenti report dell’organizzazione Changing Markets Foundation (l’ultimo dei quali è The New Merchants of Doubt: How Big Meat and Dairy Avoid Climate Action) le grandi aziende che producono carne e latticini usano specifiche tattiche mirate a ritardare, distrarre e ostacolare le azioni necessarie per trasformare il sistema alimentare globale.

Secondo il rapporto infatti sono tre le principali tattiche che vengono usate per continuare business as usual:

1) Distrazione: grazie a tecniche di greenwashing, le aziende cercano di mascherare la loro mancanza di azioni concrete presentando obiettivi climatici deboli e prodotti apparentemente sostenibili;

2) Ritardo: l’industria promuove soluzioni tecniche limitate per evitare regolamentazioni più severe, ma investe poco in vere soluzioni a basse emissioni.

3) Sabotaggio: grazie a forti attività di lobby, donazioni politiche e conflitti di interesse, l’industria influenza le politiche pubbliche, bloccando iniziative come la regolamentazione del metano.

Leggi anche: Crisi climatica e metano: le grandi aziende della carne inquinano come i giganti del fossile

Cosa aspettarsi dalla Cop30?

Un’altra cosa molto preoccupante è che ben 35 lobbisti che rappresentano gli interessi dell’agribusiness – rappresentanti anche di JBS – erano all’interno della delegazione nazionale del Brasile. È il Paese con il numero maggiore di lobbisti di questo settore sia alla Cop28 che alla Cop29 (ma va anche detto che, in quanto ospite della prossima Conferenza sul clima, è stato uno dei tre Paesi col maggior numero di persone accreditate).

Questo getta un’inquietante luce appunto sulla Cop30 che si svolgerà proprio in quel paese, a Belém. Ricordiamo infatti che il Brasile è uno dei maggiori produttori ed esportatori di carne al mondo, oltre che di esportatori di piantagioni di soia (spesso frutto di deforestazione, come spieghiamo qui) usata appunto per i mangimi che finiscono negli allevamenti intensivi di tutto il mondo.

allevamenti soia

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