Per cogliere tutte le potenzialità dell’economia circolare è bene farla dialogare criticamente con prospettive d’innovazione economica e sociale affini, così da ampliare lo spettro della trasformazione che accompagna questa economia, in un momento di profonda crisi ecologica e umana. Le interviste che propongo su questa rivista mirano a potenziare la comprensione delle opportunità dell’economia circolare, intesa come nuovo paradigma produttivo generale. Di seguito l’intervista a Guido Zaccarelli, docente di informatica, giornalista per “Il Resto del Carlino”, saggista e consulente aziendale.
In questi anni ha pubblicato un paio di libri (La conoscenza condivisa. Verso un nuovo modello di conoscenza aziendale – Franco Angeli 2013 e Dalla piramide al cerchio. La persona al centro dell’azienda – Franco Angeli 2017) dove propone una forma d’organizzazione aziendale di tipo circolare, ma non si è ancora espresso pubblicamente sull’economia circolare.
Il valore aggiunto dell’economia circolare è di porre attenzione sullo spreco, di considerarlo nel processo economico. Nella nostra economia consumista, infatti, non solo è anti-economico ma ha degli impatti sul nostro pianeta. L’economia circolare considera tutti gli alimenti di base e nutrizionali con i quali ci manteniamo in vita, ed ha una sensibilità etica nei confronti del problema della fame nel mondo. Vuole dare un valore allo spreco, per permettere a chi soffre di poter soddisfare un bisogno primario.
Qual è la relazione tra questa idea di economia circolare e il modello di organizzazione circolare che propone?
Prima di tutto esiste sul piano della “conoscenza condivisa”, che si riferisce al comportamento di quelle imprese che mettono la persona al centro dell’ecosistema organizzativo. Ogni azione del management all’interno del modello organizzativo è finalizzata a fare stare bene la persona che lavora. Suo principio fondamentale è il “dono della conoscenza”, che si sostiene sulla reciprocità, che sintetizzo con questo assunto di partenza: un dare senza perdere e un prendere senza togliere. Questo modello condiviso si può realizzare solo se superiamo il modello piramidale aziendale e facciamo dell’organizzazione una realtà circolare: abbandoniamo i paradigmi di riferimento organizzativi che hanno ormai dimenticato il modello della comunità, per aiutare a ricreare un senso di appartenenza comunitario all’interno dell’azienda. Il problema generale a cui risponde è il fatto che le persone non riescono ad avere un’idea di qual è il modello organizzativo in cui lavorano. Senza comprendere in che tipo di organizzazione si lavora, non si riesce neanche a capire chi siamo all’interno della nostra vita lavorativa. Il primo passo per definire l’organizzazione circolare di un’azienda, ma anche per sviluppare un’economia circolare, è il sapersi rappresentare il contesto lavorativo nel quale si vive. Solo in questo modo chi entra in un’azienda che sposa l’organizzazione circolare può condividere e rispettare lo spazio di lavoro come un “luogo felicitante”. Questo luogo è necessario per donare la propria conoscenza agli altri. Senza tale clima ambientale in azienda, che favorisce questa predisposizione dell’anima, si lavora solo in funzione della retribuzione mensile. Dobbiamo essere predisposti a incontrare l’altro, così da innescare relazioni di reciprocità grazie a cui scambiare la conoscenza utile per tutti.
La sua proposta si inserisce, però, in un contesto non certo favorevole. Il modello economico dominante, infatti, non fa altro che difendere, affermare e rafforzare la cultura consumista, ossia il consumo per il consumo, e la produzione illimitata.
La società ci impone di produrre in quantità enormi, e le ciclicità economiche non sono altro che la rappresentazione puntuale di modelli di business orientati a creare una ricchezza sempre più concentrata nelle mani di poche persone e in determinate aree del mercato. Ed è la finanza che gestisce il potere e orienta queste tendenze. Come mai dobbiamo produrre in eccesso ed avere i magazzini pieni? Perché i capitani d’impresa e i capitali finanziari, devono dimostrare nel breve periodo le loro capacità di generare profitto. Perché oggi nelle aziende si è ridotta la prospettiva a medio e lungo termine: si fanno bilanci mensili. A nessuno dei dirigenti interessa il fatto che stiamo saturando il mondo con oggetti inutili, a loro importa l’hic et nunc, per conservare la loro posizione lavorativa. Ormai il sistema è arrivato ad un punto di non ritorno. C’è bisogno di un bastone che blocchi la macchina impazzita. La conoscenza condivisa aiuta a mettere il bastone in questa ruota. L’intangibile in bilancio, che è al centro di questa conoscenza, è in grado di far ridistribuire la ricchezza (non solo quella economica, anche quella che ci permette di avere più tempo a disposizione per vivere, per esempio).
Benessere e comunicazione
Mi pare che Lei stia tracciando la strada per creare una vera e propria “filosofia del lavoro” dove la circolarità è l’asse portante non solo per gestire l’azienda al suo interno ma anche per organizzare il mondo del lavoro in generale. Il suo insistere sull’ecosistema dell’organizzazione fa riferimento ad una specie di ecologia relazionale, ed è una novità importante nell’attuale panorama dell’organizzazione del lavoro. Lei fa riferimento al dialogo, all’ascolto, alla cooperazione, al mutuo coinvolgimento di tutti coloro che lavorano in azienda, dal vertice alla base. Tuttavia, nella sua teorizzazione l’azienda mira ancora ad aumentare il proprio fatturato: tutti i comportamenti virtuosi sono subordinati ad obiettivi di tipo competitivo, prima di tutto la sopravvivenza dell’azienda e l’aumento del profitto. Non trova che sia una contraddizione in termini continuare a considerare la competizione un principio organizzativo?
Non parlo di cooperazione ma di condivisione. Collaborare non è condividere, che, infatti, ha bisogno di una “buona volontà” psichica. Lo spirito che tu impieghi quando realizzi qualcosa lo trovi nella condivisione: non mi metto nelle condizioni di trattenere qualcosa per me. Metto tutto a tua disposizione. Non creo delle pareti. Non mi pongo dei limiti nelle informazioni che ti devo dare. Se mi chiedi qualcosa in più, non ho paura di dirti cosa penso, perché mi metto nella predisposizione e nelle condizioni di darti tutto quello che so. Ciò crea in te la stessa predisposizione, e un giorno mi darai tutto quello che sai. In cosa resta la competizione? Nella meritocrazia e nella valorizzazione del talento. Tutto è orientato a tre principi: sapere, saper essere e saper fare. Conoscenza e competenza (che è una conoscenza vissuta). Quando entri in un’azienda di tipo circolare, dove si condivide la conoscenza con gli altri e dove la crescita a livello organizzativo è fondata sulle conoscenze e sulla disponibilità da parte delle persone a fare in modo che il lavoro vada nella direzione del bene comune, allora si realizza l’ascolto, la disponibilità del sentire. Quando nell’azienda la persona è valorizzata, ascoltata, e può aprirsi anche un contraddittorio, allora è possibile sviluppare una riflessività che ci permette di stare bene con noi stessi. Insomma, quanto costa ad un’impresa “il fare” senza pensare?
Tuttavia, se seguiamo l’analisi critica di Jurgen Habermas, la comunicazione orientata all’intesa nell’azienda circolare è ancora subordinata alla comunicazione strategica del miglioramento dell’efficienza produttiva. Si chiede fiducia e stima negli obiettivi dell’organizzazione e si vuole mettere al centro il benessere del lavoratore, ma sempre in funzione del reddito di impresa, dell’aumento del capitale economico e degli obiettivi di tipo strategico e strumentale. Non per rispettare la persona, la libertà e la creatività. Come legittimare l’orientamento strategico una volta che l’azienda si organizza seguendo principi collaborativi non strumentali?
Chi riesce a generare ricchezza seguendo lo schema che sto proponendo, alla fine dell’anno, ridistribuisce la ricchezza che ha ottenuto, così da ripartire gli oneri grazie a cui ha costruito questa ricchezza in modo equo. C’è una differenza sostanziale tra un imprenditore che fa impresa e un imprenditore che utilizza l’impresa per fare finanza. Nella società attuale molte persone lavorano ad un ritmo forsennato, non tanto per il bisogno di produrre, ma perché il manager di prima linea deve dimostrare a uno di seconda che lui è in grado di fare produrre 110 pezzi piuttosto che i 100 previsti. C’è una corsa a spremere le persone che lavorano che è ancora peggiore di quanto avveniva nel medioevo. Oggi si chiede a chi lavora di dare anche l’anima. Come mai dobbiamo creare un modello organizzativo come l’economia circolare? Perché quando spremo continuamente qualcuno gli creo un disagio personale importante, che porta a casa il suo malessere, che poi si allarga creando un disagio ulteriore, che spinge la persona a rimanere a casa invece di andare a lavorare. L’azienda, attraverso il proprio modello organizzativo, sta scaricando il peso dei costi sociali sull’intera collettività. È davvero elevato il numero di persone che restano a casa per via di disagi vari (sono in burnout, non hanno più le mestruazioni, etc). Ecco anche perché, se le persone stanno bene, aiutano a creare il reddito di impresa. Quello che propongo, in questo senso, è un welfare aziendale della conoscenza condivisa, che ha tre pilastri: l’istruzione (nell’azienda), la formazione (sulla cultura organizzativa dell’azienda, sui suoi valori e sul clima organizzativo) e infine l’educazione (sulla buona volontà e sull’intesa).
Lei vorrebbe trasformare l’ambiente invivibile di molte aziende contemporanee in un luogo di rispetto e comunicazione orizzontale (qui si darebbe la relazione paritetica per lei). Non pensa che un’eguaglianza salariale o una gestione comune dell’azienda sarebbero due strumenti decisivi per trasformare il contesto lavorativo in un luogo di benessere? Temo che svestirsi dei propri ruoli per arrivare a mettere in condivisione la propria conoscenza, sia un’operazione impossibile là dove la gerarchia di potere e di salario segnino ancora l’organizzazione dell’azienda. Perché rimane una diseguaglianza effettiva, sia nel potere decisionale sia in quello economico-salariale, che genera una competizione nociva per tutti. Più in generale, non pensa che senza aver superato lo sfruttamento e la logica del profitto sia impossibile arrivare a un cambiamento di paradigma che vede nell’azienda un posto vivibile, di benessere e di crescita non solo lavorativa ma anche umana?
Quando sono a un tavolo di brainstorming aziendale, siamo tutti orizzontali, con l’attenzione rivolta all’obiettivo di portare i nostri contributi al centro del tavolo. Ognuno porta il proprio contributo e ha un ruolo ben preciso. Quello che propongo è un cambio di mentalità e di rappresentazione logica del modello organizzativo. Al centro c’è l’azienda, intorno dei cerchi concentrici, ognuno con un proprio ruolo, ma connessi in funzione di uno scambio reciproco. Chi ha un ruolo decide, certo, ma sempre in relazione ad un contesto assegnato, agli altri. Chi ha una responsabilità deve essere messo nelle condizioni di decidere. Ecco perché cambiano anche le parole con cui identifico una gerarchia. Rispetto al salario: sicuramente non sto proponendo una redistribuzione orizzontale della ricchezza, perché non siamo uguali. In base ai talenti che uno mette a disposizione, quello che uno è in grado di dire, di fare e di pensare, bisogna pensare a un diverso riconoscimento in denaro. La conoscenza condivisa è impensabile se tutti siamo uguali. Parlo di dono, che è legato alla felicità. Il dono valorizza la relazione in quanto tale, al contrario del regalo che valorizza l’oggetto, e non è legato all’aspettativa. Ti dono quello che so.
Tempo di vita e tempo di lavoro
Il poeta Silvano Agosti sostiene che noi dedichiamo troppo tempo all’attività produttiva, e che c’è una specie di nuova schiavitù in cui il nostro tempo di vita è vampirizzato dal lavoro produttivo. Lei propone di fatto che l’azienda diventi una specie di nuova e più ampia famiglia. Si migliorano le relazioni umane e lavorative interne, ma l’azienda diventa onnipervasiva, una nuova comunità, un nuovo villaggio dove ognuno è disposto e predisposto a difenderla a denti stretti, e, a limite, a sacrificarsi per il benessere generale. Anche questo tipo di azienda, come accade anche oggi, diventerebbe il centro ingombrante della vita del singolo. Visto che ci sarà un legame più profondo tra il lavoratore e la comunità di lavoro, più profondo sarà il legame e la dipendenza tra il primo e la seconda. La sua proposta potrebbe approfondire il problema.
Ciò che propongo non serve a “salvare il mondo”, ma a fare in modo che le persone che lavorano si ritrovino con se stesse e stiano bene. Abbiamo ereditato un modello di organizzazione del lavoro difficilmente eliminabile. Non riusciremo mai a tornare indietro completamente. La conoscenza condivisa è un progetto che può essere pensato e implementato nelle piccole realtà. A meno che non venga assunto da grandi realtà che trainino il modello, e si giunga così, insieme, ad un punto di massa critica capace di apportare un cambiamento sociale più complessivo. Propongo un metodo per le piccole e medie imprese, visto che alle multinazionali non gliene frega assolutamente nulla, perché fanno finanza e non economia. Serve per le microimprese di meno di 15 dipendenti, e per le PMI di 15-250 dipendenti. Come mai lavoriamo troppo? Perché c’è un sistema che assorbe continuamente la nostra capacità di generare ricchezza. C’è una volontà di tenere basso lo stipendio affinché le persone siano incurvate sul lavoro e non pensino ad altro. Con tutte le spese che si hanno, si fanno continuamente ore di straordinario. Se tu pensi solo a lavorare, per far quadrare i conti, gli altri pensano per te. Non ti fanno mai crescere o alzare la cresta. La scomparsa della classe media va in questa direzione: si genera sistematicamente un’accresciuta povertà, perché si vuole fare in modo che il nostro tempo, le nostre energie, siano indirizzate a quello. Così un piccolo gruppo di persone può continuare a gestire il potere.
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