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sabato, Dicembre 14, 2024

Termovalorizzatori e impatto ambientale: cosa dicono i numeri e gli studi

I termovalorizzatori inquinano – meno di altri impianti – e producono CO2. Aspetti da tenere in considerazione in vista del piano “Fit for 55”. E in tanti si domandano: non sarebbe meglio puntare sulle fonti rinnovabili?

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Termovalorizzatori e inceneritori sono la stessa cosa? Le definizioni sono importanti, soprattutto sui temi ambientali, dove per sfumature di significato talvolta si giustificano decisioni: ad esempio l’utilizzo della parola “gas naturale” rispetto a “gas fossile” ha un valore semantico sicuramente differente, pur riferendosi alla solita fonte di energia. Partiamo allora dal funzionamento tecnico.

In entrambi i casi, si tratta di impianti industriali di incenerimento per combustione dei rifiuti ad alte temperature. Nel caso dei termovalorizzatori, il calore sviluppato durante la combustione è recuperato e utilizzato per produrre vapore, che poi è impiegato direttamente o per generare energia elettrica. Come stabilito dalla legge, tutti gli impianti attualmente in funzione in Italia prevedono il recupero del calore e sono quindi, più propriamente, “termovalorizzatori”.

L’intervento dell’Accademia della Crusca

Sulla distinzione è intervenuta nel 2018 anche l’Accademia della Crusca, nella direzione di utilizzare inceneritore e termovalorizzatore come sinonimi: “Si tratta – spiegano gli esperti della Crusca – di impianti di incenerimento in cui i rifiuti vengono smaltiti mediante un processo di combustione ad alta temperatura che produce ceneri, polveri e gas come quelli [gli impianti, ndr] preesistenti, con la differenza che il calore prodotto viene recuperato e utilizzato per produrre vapore e quindi energia elettrica”.

Al massimo “termovalorizzatore” è una parola più specifica, tuttavia, notano sempre dalla Crusca, “questo spostamento semantico” viene “appoggiato dall’intenzione, da parte di produttori degli impianti e di amministratori, di allontanare nell’opinione pubblica l’idea della pericolosità ambientale e sottolineare il richiamo al valore dell’energia prodotta”.

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I termovalorizzatori inquinano?

Da quanto si deduce dall’intervento della Crusca, l’utilizzo di due termini ha lo scopo di distinguere l’accezione negativa e inquinante degli inceneritori da quella positiva di recupero energetico dei termovalorizzatori, nascondendo però i danni ambientali comuni ai due impianti.

Sicuramente le cose sono cambiate negli ultimi anni e le scarse performance della prima generazione di inceneritori non sono paragonabili a quelle attuali degli impianti di ultima generazione, che recuperano sotto forma di energia elettrica l’85 per cento del calore prodotto dalla combustione dei rifiuti (i cosiddetti impianti ad elevata efficienza energetica, ormai il 90 per cento del totale in Europa).

Inoltre, come fa notare Francesco Di Maria, docente di ingegneria all’Università di Perugia, il rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) sulle emissioni in aria Informative inventory report – Italy 2021 evidenzia come “nel trentennio 1990-2019 a fronte di un incremento del quantitativo di rifiuti inceneriti, che è passato da circa 1,8 milioni di tonnellate del 1990 a circa 6 milioni nel 2021, si è avuto un forte calo del totale delle emissioni del settore incenerimento. Alcuni inquinanti, come le diossine, di fatto sono scomparsi”.

Per restare all’interno dei limiti emissivi e rispettare le norme più stringenti che prevedono il controllo semi-orario, orario e giornaliero di parametri che vanno monitorati regolarmente, col passare del tempo la tecnologia è avanzata e sono stati sviluppati impianti che permettono una migliore gestione del processo, nonostante garantiscano prestazioni più elevate.

Lo spiega l’ingegnere ambientale e docente del Sant’Anna di Pisa Paolo Ghezzi: “Prendiamo ad esempio il recente termovalorizzatore di Copenaghen: dispone di due caldaie a grata per complessive 70 t/h ed un carico termico nominale di oltre 110 MW. Depura i fumi ad umido, condensa il vapore e dispone di una turbina da 67 MWe garantendo la massimizzazione del recupero energetico sia elettrico che termico”.

Tuttavia, spiega Ghezzi, “si tratta di un impianto industriale e gli effetti emissivi sono quelli tipici di un processo di combustione sia in termini di microinquinanti (tra cui IPA, diossine e furani, idrocarburi aromatici) e macroinquinanti (tra cui NOx, SOx, NH3, PM2,5 e Pm10)”. E il particolato (Pm10), come rileva uno studio condotto sempre dall’ISPRA, “soprattutto nella sua frazione fine, si rende portatore delle altre sostanze tossiche, come i metalli pesanti”.

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Aspetti positivi da tenere in considerazione

Per risolvere il problema, i moderni termovalorizzatori hanno quattro livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e riciclo delle ceneri molto avanzati. E le analisi epidemiologiche condotte sugli abitanti che vivono vicino ai termovalorizzatori, come sostiene uno studio realizzato dall’Imperial College di Londra, non hanno evidenziato aumenti di patologie. Anche se molti altri scienziati contestano la ristretta quantità di dati a disposizione per patologie che si sviluppano dopo un certo lasso di tempo.

Sicuramente, tra gli aspetti positivi dell’utilizzo dei termovalorizzatori, fa notare Di Maria, rientra il fatto che l’energia sviluppata da questi impianti va a sostituire altre forme di produzione di calore più impattanti come le fonti fossili. “In Emilia Romagna – aggiunge Antonio Pergolizzi, analista ambientale e saggista – ci sono esempi virtuosi di termovalorizzatori che hanno ridotto l’utilizzo di piccole caldaie molto più inquinanti”.

Per questo motivo, “il timore ricollegabile alle emissioni degli impianti, dovrebbe essere paragonato alle emissioni e agli impatti ricollegabili alle necessità di gestione del ciclo che derivano dal non averli realizzati”, aggiunge Paolo Ghezzi. Ad esempio, se per mancanza di un termovalorizzatore in zona, i rifiuti devono fare un lungo e inquinante viaggio in camion verso un altro impianto.

Le discariche, inoltre, contribuiscono alle emissioni di gas serra. Secondo le stime del governo australiano, nel 2020 le discariche hanno rappresentato il 2,5 per cento delle emissioni nazionali. La maggior parte di quelle legate alle discariche derivano dalla decomposizione di materiali organici che libera metano, un gas serra che ha un forte impatto sul riscaldamento globale. “Da questo punto di vista l’inceneritore è sicuramente più sostenibile di una discarica”, conclude il professor Di Maria.

Leggi anche: Termovalorizzatori, l’Unione europea è d’accordo o no sulla costruzione di nuovi impianti?

 L’impronta di carbonio dei termovalorizzatori

Tuttavia, sebbene l’Imperial College parli di un impatto “modesto, se non infinitesimale” per quanto riguarda i termovalorizzatori di ultima generazione, c’è un aspetto condiviso: la combustione produce CO2. Dunque l’utilizzo dei termovalorizzatori meno impattanti è una buona soluzione rispetto allo smaltimento in discarica, ma solo nel breve periodo, perché contribuisce ugualmente all’effetto serra.

Enzo Favoino, un esperto ambientale e membro dell’associazione Zero Waste Europe per questo motivo ritiene che gli inceneritori siano “incoerenti” e un “fardello” per l’ambizioso programma di diminuzione delle emissioni del 55 per cento contenuto nel pacchetto “Fit for 55” recentemente adottato dall’Unione europea.

“L’impronta di carbonio dell’incenerimento – spiega Favoino – sta tra i 650 e gli 800 grammi di anidride carbonica fossile per ogni kWh prodotto, quello medio di produzione energetica europea è di circa 250. Senza contare che gran parte del carbonio emesso viene dall’incenerimento di rifiuti urbani di natura fossile come plastica e tessuti artificiali”.

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L’importanza di una visione strategica che non danneggi le rinnovabili

Insomma, sostiene Ghezzi, “un bilancio complesso, soprattutto se sul piatto della bilancia si mette la capacità di produrre altrettanta energia termica ed elettrica con fonti alternative e rinnovabili. Per questo – conclude la sua analisi l’ingegnere ambientale – più che un problema tecnico è un problema di visione e di impostazione strategica della filiera che deve basarsi sui principi comunitari in cui, non a caso, gli impianti di trattamento con recupero energetico vengono in seconda battuta rispetto a strategie ritenute più virtuose”.

Perché il mix energetico si sta modificando ovunque: “Se nel 1975 l’energia prodotta dagli inceneritori sostituiva carbone e petrolio, oggi sostituisce la quota proveniente dalle fonti rinnovabili come il solare”, fa notare Favoino. La tentazione, per opportunità economica, potrebbe essere quella di non investire in energia pulita e, anzi, proseguire con il “business as usual”, senza politiche per ridurre il fabbisogno di plastica, che diventa una risorsa per alimentare i termovalorizzatori.

Per questi motivi l’Unione europea non sembra entusiasta a incoraggiare l’aumento dell’utilizzo di inceneritori. Anzi, ritiene che “se un’attività economica comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili”, non risponde al principio “Dnsh”, ovvero “non arrecare danno significativo” all’ambiente. Un principio sul quale a Bruxelles stanno fondando tutta l’impalcatura delle norme ambientali europee dei prossimi anni.

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