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sabato, Dicembre 14, 2024

Inquinanti alla carta: il vero prezzo dei nostri menù quotidiani

Dalle ubiquitarie microplastiche ai forever chemicals, la chimica è ormai entrata a far parte della nostra alimentazione

Elisa Del Gobbo
Elisa Del Gobbo
Dopo una formazione prettamente linguistica, che porta avanti come traduttrice per il terzo settore, e varie esperienze nel campo della comunicazione, approda al mondo dell’ufficio stampa, interessandosi prima alla promozione di eventi culturali e prestando poi la sua voce a cause umanitarie e ambientali

Chissà se il filoso tedesco Feuerbach poteva immaginare che la sua frase, pronunciata a metà dell’Ottocento, avrebbe assunto risvolti così preoccupanti a distanza di tempo. Noi siamo quello che mangiamo, diceva, per sottolineare come l’alimentazione possa influire in modo profondo sulla nostra salute.

Il problema è che oggi l’equivalenza non riguarda più soltanto le nostre abitudini alimentari, ma tutto ciò che gira intorno (e dentro) al cibo che mangiamo e all’acqua che beviamo.

La contaminazione dei beni di consumo è, infatti, non soltanto uno dei problemi più gravi e su larga scala della nostra contemporaneità, a livello nazionale e globale, ma anche una delle forme più invadenti e preoccupanti di inquinamento che si manifesta principalmente sottoforma di micro e nanoplastiche – entrate ormai nella catena alimentare – e di PFAS, sostanze chimiche di sintesi utilizzate comunemente per le loro proprietà antiaderenti e idrorepellenti.

Micro e nanoplastiche: lontano dagli occhi, lontano dal cuore

Negli ultimi anni, il rinvenimento di microplastiche nel sangue umano, nei polmoni e perfino nella placenta delle donne ha scosso l’opinione pubblica, portando ancor più alla luce il problema dell’inquinamento da plastica e le sue implicazioni sulla nostra salute.

Molti studi hanno segnalato neurotossicità, stress ossidativo e immunotossicità tra le principali conseguenze dell’esposizione a micro e nanoplastiche, particelle invisibili a occhio nudo a causa delle loro dimensioni inferiori ai 5mm, che sono ormai entrate nella catena alimentare a tutti gli effetti. Le prove scientifiche esistono: si tratta di studi condotti in vitro mediante i quali si è accertata la tossicità esplicitata dalle microplastiche ma anche studi di esposizione animale che hanno verificato esiti di patologia o di promozione di patologia in cavie esposte a microplastiche.

Il consumo di cibo è considerato uno dei veicoli più importanti di esposizione umana a micro e nanoplastiche e, come ricorda l’ultimo rapporto FAO sul tema (“Microplastics in food commodities – A food safety review on human exosure through dietary sources”), la contaminazione può avvenire a diversi livelli: direttamente dal suolo, nel caso di frutta e verdura in cui le microparticelle inquinanti si accumulano nelle radici, attraverso l’irrigazione, magari a causa di inefficienze nei sistemi di trattamento delle acque reflue, tramite contatto con macchinari e tecnologie con parti in plastica durante il processo di produzione, e addirittura dal nostro ambiente domestico.

Il documento racchiude, tra le pubblicazioni citate in bibliografia, un recente studio che ha aperto uno scenario prima d’ora mai ipotizzato, concentrando la ricerca sui livelli di microplastiche contenute nella parte edibile di frutta e verdura, grazie alle analisi del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania, guidato dalla professoressa Margherita Ferrante.

«L’idea dello studio è nata nel 2017, dopo aver ritrovato nel sangue di soggetti con artroprotesi in polietilene particelle di plastica dovute all’usura delle protesi. Questo ci ha spinto a voler indagare se anche l’usura dei materiali plastici, ormai di largo consumo, rilasciasse micro e nanoparticelle nell’ambiente e se le matrici ambientali potessero fungere da tramite veicolando le particelle nell’uomo. – dichiara Ferrante a EconomiaCircolare.com – Una volta messo a punto il metodo di estrazione, che ad oggi è l’unico in grado di vedere tutte le particelle plastiche, comprese le nanoparticelle (e che per questo è stato già accettato come brevetto internazionale in moltissimi Paesi europei ed extraeuropei), ci è venuto in mente di partire dai prodotti agricoli che non erano mai stati indagati in tal senso.»

I dati mostrano una contaminazione variabile con dimensioni medie delle microplastiche da 1,51 a 2,52 micron e un range quantitativo medio da 97.800 a 223.000 particelle per grammo di vegetale rispettivamente in frutta e verdura.

«Sicuramente l’ipotesi di trovare un contenuto considerevole di microplastiche non ci ha sorpresi più di tanto, perché avevamo già dimostrato con diversi studi che le particelle con dimensioni inferiori ai 3 micron sono assorbibili e traslocabili in vari distretti dell’organismo, per cui abbiamo dimostrato per i vegetali ciò che avevamo già da tempo dimostrato per gli organismi animali. Certamente queste evidenze, però, devono imporre all’Europa la necessità di approfondire il problema e valutare l’emanazione di regolamenti o direttive che riducano la circolazione dei rifiuti plastici e che contemplino il parametro microplastiche alla stregua degli altri contaminanti già soggetti a limiti di legge» conclude Ferrante.

cibo inquinanti

PFAS negli alimenti: once chemicals, “forever chemicals”

Il problema della contaminazione da PFAS è tuttora irrisolto: non esiste legislazione nazionale che preveda provvedimenti efficaci a difesa dell’ambiente e della nostra salute, e che ne vieti l’uso e la produzione.

Queste molecole indistruttibili sono una grande famiglia di oltre 4.700 sostanze chimiche prodotte dall’uomo secondo le definizioni OCSE 2018 che, una volta disperse nell’ambiente, possono rimanerci per decine di migliaia di anni senza decomporsi. Essendo idro e oleorepellenti, i PFAS vengono utilizzati in un’ampia gamma di prodotti di consumo, dagli imballaggi alimentari, alle pentole, all’abbigliamento e ai materiali di costruzione. Proprio questa loro proprietà, però, fa sì che siano molto mobili e che, una volta che si staccano dal prodotto, migrino con facilità nell’acqua, nella pioggia, nel suolo, nell’aria e anche nei tessuti animali. Per questo sono stati rinominati “forever chemicals” ovvero “inquinanti eterni”.

I PFAS sono inoltre soggetti al bioaccumulo: gli organismi viventi li assorbono più velocemente di quanto li possano espellere, e dunque questi composti, nel tempo, si accumulano nei loro tessuti, causando danni irreversibili.

Lo scorso dicembre, un gruppo di lavoro di 30 esperti dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha completato le valutazioni circa la cancerogenicità di due molecole appartenenti al gruppo dei PFAS, confermandone la pericolosità per la nostra salute, classificando il PFOA come «cancerogeno per l’uomo» (Gruppo 1) e il PFOS come «possibile cancerogeno per l’uomo» (Gruppo 2B).

Quest’ultima è la conferma più recente e autorevole del pericolo costituito da questi materiali, già ampiamente documentato e denunciato negli ultimi anni soprattutto nel nord dell’Italia. In Veneto si registrano alcune delle situazioni più critiche dell’intero continente europeo: i PFAS hanno contaminato un’area in cui risiedono oltre 350.000 persone, tra le provincie di Vicenza, Verona e Padova e si sono diffusi ormai ovunque, nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel sangue.

Da alcuni rilievi, portati avanti tra il 2016 e il 2017 dalla Regione Veneto su un campione di oltre 1200 alimenti, in quella che è stata definita la “zona rossa” maggiormente esposta alla contaminazione, sono stati evidenziati PFAS non solo nella falda acquifera ma anche nei prodotti alimentari coltivati o derivanti dal bestiame allevato nell’area. Di recente, le indagini condotte da Greenpeace Italia hanno rivelato la presenza di PFAS anche nelle acque potabili di diversi comuni in Lombardia e in Piemonte. 11 su 31 campioni raccolti in diverse province lombarde sono risultati inquinati oltre ad alcune criticità anche nelle acque di Milano. In 132 dei 462 campioni di acqua destinata al consumo umano, relativi agli anni 2021, 2022 e parte del 2023, è stata rilevata la presenza di PFAS. Inoltre, secondo i dati ufficiali degli enti pubblici piemontesi ottenuti tramite istanze di accesso agli atti, è stato dimostrato che la contaminazione da PFAS nelle acque potabili del Piemonte non interessa solo l’area della provincia di Alessandria, ma anche altre zone della città metropolitana di Torino, con oltre 70 comuni coinvolti, incluso il capoluogo.

Un esempio di menu (di plastica) alla carta

Non è tutto oro quel che luccica: potrebbe essere plastica. Infatti, se al ristorante abbiamo appena ordinato un piatto di crudi di mare, uno tra i cibi più pregiati al mondo, molto probabilmente, insieme alla nostra cena, stiamo assumendo anche una certa quantità di microplastiche.

Uno studio condotto nel 2019, incluso nel capitolo del libro “Plastics in the Aquatic Environment – Current Status and Challenges” pubblicato dalla Springer Nature, a cui ha partecipato anche ISPRA per l’Italia, ha accertato che almeno 116 specie diverse nel Mediterraneo hanno ingerito plastica. Per il 59% si tratta di pesci ossei come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi, che troviamo comunemente sulle nostre tavole.

Per tutto quello che non viene dal mare, invece, i dati scientifici sono meno frequenti. Non ci sono ancora dati certi su carni o legumi, ad esempio, ma sappiamo, grazie a uno studio condotto dall’Università di Incheon (Corea del Sud) in collaborazione con Greenpeace, che anche nel sale sono state trovate minuscole particelle in polietilene, polipropilene e polietilene tereftalato (PET), i polimeri più utilizzati per gli imballaggi usa e getta. Se consideriamo che, in media, un individuo consuma circa 10 grammi di sale al giorno, questo vuol dire che può ingerire migliaia di pezzi di plastica all’anno, soltanto salando i suoi cibi.

“Molto dipende dai cibi consumati e dalle quantità, tuttavia appare già chiaro che il maggior contributo derivi dall’uso delle acque minerali imbottigliate in PET. Inoltre, non tutti i cibi sono ancora dettagliatamente studiati e peraltro anche all’interno della stessa categoria alimentare esiste una variabilità nel contenuto in microplastiche – ci spiega ancora Ferrante – Ciò è in parte dovuto al tipo di produzione che l’alimento subisce e all’area di produzione di origine. Ad esempio, la contaminazione delle acque e dei suoli si riflette sul contenuto di particelle dei prodotti alimentari lì coltivati o trasformati. Creare una sorta di menù è l’obiettivo che ci siamo prefissati, ma ancora i dati non sono sufficienti per poter dare un valore complessivo certo, in questo momento se lo calcolassimo dai dati del report FAO, per esempio, sarebbe certamente un dato sottostimato per le ragioni prima esposte, dato che non abbiamo ancora determinato i tenori in tutte le categorie di alimenti”.

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

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