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venerdì, Maggio 17, 2024

“Le politiche ambientali? Aumentano la competitività”. A colloquio con l’economista Simone Borghesi

Inflazione, deglobalizzazione, spesa pubblica, 'effetto Bruxelles' sulle politiche ambientali globali. Simone Borghesi, economista ambientale da poco eletto Presidente della European Association of Environmental and Resource Economists (EAERE) riflette con noi su alcuni aspetti della relazione tra economia e ambiente

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

La crisi del Mar Rosso, le fiammate inflattive e le risposte delle politiche monetarie, la speculazione finanziaria: EconomiaCircolare.com sta provando a raccontare quanto e come le dinamiche economico-finanziarie influiscano sul cammino verso la sostenibilità ambientale e sulle risposte (per ora molto molto timide) alla crisi climatica.

Simone Borghesi, economista ambientale, è direttore dell’unità di ricerca sui cambiamenti climatici FSR Climate dell’Istituto Universitario Europeo, professore all’Università di Siena dove insegna Economia Ambientale e da qualche mese Presidente della European Association of Environmental and Resource Economists (EAERE).

Professor Borghesi, a volte ce ne dimentichiamo, ma l’andamento dell’economia influisce, e non poco, anche sull’ambiente. Ad esempio: che effetto avrà l’inflazione nella battaglia contro le crisi ambientali, a partire da quella climatica?

Dipenderà dalla dinamica dai prezzi relativi, cioè da quanto alcuni prezzi aumenteranno rispetto agli altri. Mi spiego. Se l’inflazione colpisce maggiormente i fossil fuels, questo aiuterà ad accelerare la transizione verde e anche l’economa circolare. Dove invece colpisce materie prime di cui abbiamo bisogno per la transizione, penso ad esempio a quelle necessarie per l’auto elettrica, potrebbe spingere di nuovo verso forme di consumo maggiormente inquinanti.

L’inflazione poi spinge anche i tassi di interesse, e questo non è una buona cosa per la transizione: perché riduce gli investimenti, e quindi anche quelli nelle tecnologie pulite di cui abbiamo sempre più bisogno. Inoltre l’aumento dei tassi peggiora il debito pubblico e riduce così lo spazio fiscale per gli interventi degli Stati: la spesa pubblica, che è una componente importante per facilitare la transizione verde, ne risente.
Quindi l’Inflazione di per sé, a mio avviso, non ha un effetto univoco sull’ambiente, ma può avere un impatto diverso a seconda di quale di queste tendenze prevale.

Dopo il famoso “whatever it takes” di Draghi, la Banca centrale europea (BCE) ha fatto marcia indietro sull’acquisto debiti sovrani dei Paesi Ue. Che ne pensa?

Certamente la transizione ecologica ha bisogno di misure nuove, è necessario il coraggio di mettere in campo anche qualcosa di innovativo dal punto vita economico: che in certi casi vuol dire avere il coraggio di fare alcune scelte non tradizionali, anche quando queste non sono previste nei libri di testo. E questo non riguarda solo la BCE ma anche le politiche di spesa pubblica. Anche se purtroppo l’Europa non ha una politica fiscale comune, qualche passo in questa direzione è stato fatto col Recovery Fund e con lo European Green Deal: misure eccezionali a fronte di problematiche ambientali eccezionali.

Sarebbe quindi necessaria secondo lei una maggiore spesa pubblica?

Soprattutto in questa fase iniziale. E parallelamente anche sulla politica monetaria: serve un po’ di coraggio per spingere verso la transizione verde.

Da Macron a Scholz, per non dire della politica italiana di governo, si sono alzate voci critiche rispetto a quella che viene additata come l’ipertrofia normativa europea sui temi ambientali. Lei che ne pensa?

In generale sono fautore della semplificazione normativa, per quanto possibile, ma sono anche un fautore della regolamentazione, non a caso dirigo il gruppo di ricerca alla Florence School of Regulation. Credo che l’Europa abbia fatto grandi passi avanti e abbia raggiunto un posizione di leadership nelle politiche ambientali: questo non dobbiamo dimenticarlo e soprattutto non dobbiamo tacerlo.

Esiste quello che viene chiamato “effetto Bruxelles”, un effetto imitativo da parte di altri Paesi nei confronti della politica europea, ad esempio quella climatica. Ne ho fatto esperienza in prima persona anche grazie anche al progetto LIFE COASE dell’Istituto Universitario Europeo (l’acronimo è il nome di un premio Nobel dell’economia, Ronald Coase) che si occupa di creare un osservatorio globale sul carbon pricing, le politiche sul prezzo delle emissioni di CO2. Proprio sul carbon pricing abbiamo verificato questo processo imitativo a seguito delle norme europee: perché nessuno vuole rimanere indietro, e questo ha permesso un innalzamento dell’asticella anche da parte degli altri.

Non posso poi dire che le norme Ue stiano necessariamente danneggiando la competitività delle imprese europee: nella letteratura economica, allo stato attuale, non si trova evidenza ad esempio di un effetto di delocalizzazione, le politiche climatiche non hanno cioè indotto le imprese a lasciare l’Europa (semmai lo hanno fatto altri fattori, come il costo del lavoro, le instabilità politiche ecc..). Insomma, se guardiamo ai dati economici, è un falso mito il fatto che siamo travolti dalle norme europee e che queste regole ci strangolano. In realtà gli economisti sanno che esiste un effetto positivo della regolamentazione sulla competitività. Si chiama Porter Hypothesis: è un fatto ormai assodato che maggiore regolamentazione induce ad innovare, con innovazioni di processo e di prodotto, e questo aumenta la competitività delle imprese. Certo, il numero delle regole non deve essere eccessivo, per questo dobbiamo semplificare. E al tempo stesso è necessaria una reazione da parte delle imprese, la volontà e la capacità di investire, che non sempre abbiamo osservato.

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Qualche tempo fa, in un’intervista sul Corriere della Sera, il premio Nobel Michael Spence ha descritto una nuova fase della globalizzazione in cui, per ragioni geopolitiche, la ricerca del prezzo più basso non avrà più un ruolo assoluto nelle scelte delle imprese e nelle dinamiche economiche. Condivide questa lettura? Questa nuova variante della globalizzazione che effetti avrà sull’ambiente, sul clima, sulle materie prime? Le imprese green avranno una vita più facile?

Condivido l’idea che la geopolitica attuale possa rallentare il processo di globalizzazione. Ma i dati non ce lo dicono, o almeno non ce lo dicono ancora. Se guardiamo al commercio internazionale, durante la pandemia si è ridotto di circa il 10%, ma poi ha ripreso a crescere superando di oltre il 20% i livelli del periodo pandemico. Per ora insomma non c’è un rallentamento.
Anni fa, all’inizio della crisi finanziaria del 2008, ho scritto un libro intitolato Global Sustainability (il titolo giocava sulla parola “global”, per alludere sia alla sostenibilità in tutti i suoi aspetti che alla globalizzazione). In quel libro cercavo di vedere se la globalizzazione fosse sostenibile e sottolineavo già che la globalizzazione è un processo in itinere, che cambia continuamente e sempre più velocemente. Ora siamo in una nuova fase: ci sono forze inattese, come le guerre, come il covid, che lo modificano.

Un ipotetico rallentamento della globalizzazione potrebbe avere effetti sull’ambiente? Difficile dirlo, perché in gioco ci sono forze contrapposte. La globalizzazione tende ad aumentare la crescita economica, e la crescita da un parte danneggia l’ambiente perché aumenta la scala della produzione, dall’altra genera quelle entrate che possiamo investire in ricerca e che ci possono far trovare la soluzione tecnologica ai problemi ambientali. Sulla base dei miei studi mi sento di dire che la deglobalizzazione, cioè la riduzione della globalizzazione, sarà probabilmente negativa per queste imprese, perché porta protezionismo e quindi minori scambi di idee, un rallentamento della crescita e quindi meno soldi per gli investimenti nelle nuove tecnologie green. Credo invece che la globalizzazione abbia potenzialità e favorisca le imprese green.

Non so se ci sarà davvero un rallentamento, sicuramente ci saranno nuove caratteristiche rispetto alle fasi del passato, e nel futuro credo che le imprese green avranno un ruolo sempre più importante.
Ma se si va verso il protezionismo immagino che anche loro ne usciranno con le ossa rotte.

Il Fondo monetario internazionale (FMI) ha previsto che quest’anno la crescita del Pil russo raddoppierà: grazie all’economia bellica. I limiti del Pil sono noti, ma quanto questo indicatore pesa ancora nel pensiero economico? Perché? E che ruolo hanno e possono avere secondo lei altri possibili indicatori?

Direi che il Pil è ancora il deus ex machina dell’economia. Uno strumento senz’altro utile per confrontare nel tempo e nello spazio le performance dei Paesi, ed è nato per quello. Però non può fare tutto, non è un indicatore di benessere, come ci diceva già Robert Kennedy nel famoso discorso del 1968.

Nel 2018, alcuni celebri economisti () hanno scritto un volume intitolato “Beyond GDP”, cioè andare “Oltre il Pil”. Si sta diffondendo anche nella teoria economica la necessità di nuove misure. Ma purtroppo dopo 50 anni ancora non siamo pronti. C’è una pletora di strumenti che riescono a catturare singoli aspetti ma non si sono ancora affermati come un nuovo indicatore aggregato. Mi piacerebbe che un giorno i nostri politici non si vantassero di un aumento del Pil ma di un aumento di un indicatore di benessere. Ma per ora non succede, non siamo pronti.

Nel suo piccolo, l’economia ambientale si occupa di aspetti strettamente legati a questo. È una delle nuove (ormai non più tanto) discipline all’interno della teoria economica che ha posto maggiormente l’accento sulla necessità di correggere i danni della crescita economica e sull’esigenza di andare oltre misure che non sono omnicomprensive.

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Che ruolo hanno oggi le tematiche ambientali nell’elaborazione teorica dell’economia?

Uno spazio che non mi sarei mai immaginato quando ho iniziato ad interessarmi di problematiche ambientali. Ho sempre seguito un percorso di studi economici, accompagnato sempre dall’interesse per le tematiche ambientali, e in questi 30 anni ho visto cambiare atteggiamento in maniera inaspettata sia nella teoria economia che nella politica economica. Quando presentai il mio progetto di dottorato mi dissero: “Perché ti vuoi occupare di questi temi?”.  Al tempo l’ambiente non appariva un argomento interessante per l’economia. Oggi gli economisti ambientali sono passati da pària del settore ad attori centrali, sono chiamati da tutte le istituzioni internazionali – dal FMI, dove ho avuto occasione di lavorare, alle banche centrali – oggi tutti si servono degli economisti ambientali per gli studi sul rischio climatico per il sistema economico e finanziario. C’è stato quindi un cambiamento totale di attenzione e percezione, avvenuto purtroppo solo negli ultimi anni.

Qualche tempo fa un sondaggio condotto tra scienziati del clima (di diverse discipline specifiche) ha messo in luce la mancata fiducia nell’idea capitalistica di una crescita senza limiti dell’economia. E gli economisti che ne pensano? Quanto è vivace la riflessione sulle alternative alla crescita?

A mio avviso la crescita è ancora centrale nelle riflessioni degli economisti, e forse per certi versi in maniera comprensibile. Secondo me la crescita è necessaria: per gli investimenti in primo luogo, in particolare quelli nelle tecnologie pulite; per la salute delle persone, lo abbiamo sperimentato negli ultimi anni, la crescita è ciò che permette di investire in infrastrutture, ospedali, macchinari, personale medico, nell’istruzione…

Penso quindi sia necessaria. Il problema è crescita di cosa. Ci siamo concentrati solo sul dato quantitativo, su quant’è la crescita del Pil. Ma non ci chiediamo in cosa investiamo per crescere. Per la sostenibilità – che è più ampia delle sole politiche ambientali perché riguarda anche gli aspetti sociali – abbiamo bisogno di fare uno shift di investimenti da tutto ciò che cresce a ciò che cresce tutelando la salute, l’ambiente, il capitale sociale, che fa crescere l’istruzione. Per questo il discorso di Kennedy è ancora di un’attualità eccezionale.

La crescita non deve tenere conto del fatto che viviamo di fatto in un sistema chiuso nel perimetro dei planetary boundaries?

A proposito di planetary boundaries, alla COP27 di Sharm el-Sheikh ho partecipato ad un panel proprio con Johan Rockström, il padre di questo concetto, persona di grandissimo spessore e visione. Personalmente credo che la crescita non possa essere infinta in un mondo finito, con risorse limitate, ma credo anche che se cambiamo il modo in cu cresciamo, probabilmente la crescita può continuare. Se diamo qualità alla crescita, se diventa crescita delle conoscenze, se la tutela dell’ambiente diventa fattore di questa crescita, allora può diventare compatibile con i planetary boundaries. Quello che non è compatibile è la crescita come la pensiamo oggi: consumistica, fatta di produzione di beni materiali a prescindere. Dovremmo spostare la crescita dai beni materiali a quelli immateriali, esperienziali ad esempio. Oggi siamo in pochi a sostenere questa tesi per ora, ma ad esempio Rockström mi sembra allineato su questa posizione.

È stato eletto da poco alla presidenza dell’EAERE, quali sono le priorità del suo mandato?

Partiamo dalle più importanti. Vorrei innanzitutto favorire la collaborazione tra associazioni internazionali. EAERE ha 1300 economisti da circa 60 Paesi e diverse associazioni nazionali europee: vorrei rafforzare il dialogo e lo scambio tra queste associazioni ed estenderli oltre l’Europa per arrivare a includere anche Paesi del Mediterraneo. Sto cercando di rafforzare il dialogo con la sponda sud e quella est: mi piacerebbe nascesse un’associazione del Mediterraneo che coinvolgesse non solo i Paesi europei, che sono già nella mia associazione, ma anche tutti gli altri del nord Africa e del Medio Oriente, perché il Mediterraneo è uno, i problemi ecosistemici sono in larga parte gli stessi, e sono legati anche ai problemi sociali, come l’immigrazione, che spesso dipende proprio dai problemi ambientali. Sarebbe il modo di dare un’opportunità a studiosi di altri Paesi, soprattutto giovani, che non hanno un’associazione e non sono in nessuna rete.

Il secondo punto sono proprio i giovani, quella che chiamo la Next Generation EAERE. Vorrei che la nuova generazione avesse un ruolo maggiore e fosse maggiormente coinvolta.

Poi vorrei anche provare a rafforzare l’influenza della nostra associazione nei contesti istituzionali internazionali. È stato creato un comitato per questo, di cui sono stato segretario, che ha raggiunto qualche obiettivo rilevante per la nostra associazione, come essere presente in qualità di osservatore alle COP. Sarebbe bello riuscire ad avere una piccola influenza anche nell’IPCC.

Infine mi piacerebbe rafforzare il dialogo con altre associazioni di economisti. Non mi convince, ad esempio, la divisione tra economisti ambientali (che, semplificando, si dice mettono l’economia al centro e l’ambiente come contesto) ed economisti ecologici (che farebbero il contrario). È una visione semplificatrice della realtà ed un’eredità del passato in cui personalmente non credo, anche se vedo che ci sono ancora forti legami con quel passato e opinioni diverse su come affrontare alcune tematiche ambientali.  Ma quando sei spinto da un unico obiettivo, che è poi risolvere i problemi ambientali, non ci possono certo essere divisioni disciplinari: dobbiamo unire le forze verso l’obiettivo comune.

Leggi anche lo SPECIALE | Finanza sostenibile

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