Docente di Management della Scuola Sant’Anna di Pisa e direttore del Green Economy Observatory all’Università Bocconi, da anni il professor Fabio Iraldo analizza le caratteristiche del tessuto industriale italiano e porta avanti studi e ricerche per favorire la transizione all’economia circolare delle pmi, le piccole e medie imprese spina dorsale del tessuto produttive nel nostro Paese. Lo scorso anno ha partecipato ad alcuni dei tavoli di discussione ministeriale sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr, ma oggi si dice “deluso dai risultati” e ammette che sul piano dell’economia circolare non si può ancora parlare di un vero cambio di rotta rispetto al passato.
Professor Iraldo, all’interno del Pnrr le risorse dedicate all’economia circolare sono state ridotte rispetto alla prima bozza del governo Conte, si poteva fare di più?
Sono rimasto deluso dal testo del Pnrr ma probabilmente le mie aspettative erano troppo alte. Io sono stato coinvolto in qualche tavolo del ministero l’estate scorsa quando si stava ragionando del Piano e allora erano emerse idee innovative rispetto alle policy e agli incentivi a favore dell’economia circolare. Mi sarei aspettato una serie di misure volte a cambiare il modo di produrre e di consumare e invece ci si è focalizzati soprattutto sul settore dell’energia e dei rifiuti. Questo Pnrr purtroppo guarda al breve periodo e la mia paura è che si stiano affrontando i problemi in maniera emergenziale. Si andrà ad investire sulla creazione di nuovi impianti di smaltimento dei rifiuti, che ad oggi sono indubbiamente carenti ma che non possono rappresentare una soluzione a lungo termine, se non riusciamo a ridurre la produzione di immondizia.
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Lei è co-autore del libro “Management dell’Economia circolare”, può spiegarci in che modo il management dovrebbe cambiare la propria strategia aziendale per essere più “circolare”?
Il management tradizionale è legato a una strategia aziendale che in fase di approvvigionamento guarda molto all’ottimizzazione dei costi, all’efficienza logistica, alla rapidità, alla continuità e qualità di fornitura dei materiali. Questo modo di pensare deve essere in qualche modo trasformato e reso più adatto alla prospettiva dell’economia circolare, in cui si privilegia la filiera corta, la capacità di riutilizzo delle materie prime e la fase di progettazione e design del prodotto. Qui il cliente non rappresenta più il fattore decisivo e l’azienda deve essere in grado di relazionarsi a tutti i soggetti che coinvolgono il ciclo di vita del prodotto in una logica di sistema.
La logica di massimizzazione del profitto e ottimizzazione dei costi è molto difficile da scardinare, forse il modello circolare diventa “accettabile” per il management esclusivamente in un’ottica più “lineare”?
Capisco cosa intende, sì in parte è innegabile che uno dei driver principali per l’impresa sia quello della diminuzione dei costi, ma esistono anche altri fattori che possono spingere un’azienda ad essere più circolare come la competitività, la credibilità e il driver etico. Per rispondere a tutte queste esigenze serve un sistema di incentivazione che “induca” le imprese a percorrere la giusta strada e c’è bisogno di un’azione decisa da parte delle istituzioni pubbliche, che devono saper accompagnare le imprese nella fase di transizione al nuovo modello circolare.
Stando ai dati presenti nei suoi studi le piccole imprese fanno più fatica ad investire in innovazione e sostenibilità rispetto alle grandi. Osserva una debolezza strutturale delle pmi?
Le grandi teorizzazioni relative all’economia circolare prevedono l’applicazione di business model che richiedono un cambiamento radicale all’interno dell’azienda, mi riferisco alla trasformazione di un prodotto in servizio, al totale ripensamento del design o a decisioni di forte impatto sul sistema produttivo come la scelta di trasformare una rete di vendita. Su questo le pmi sono indubbiamente più svantaggiate perché non hanno una forte capacità d’innovazione e possono investire poco. Tuttavia esiste un modello di innovazione incrementale che procede per gradi e in cui le pmi possono essere incluse. Anche attraverso piccole innovazioni come la scelta di un materiale più ecologico è possibile fare la differenza.
Come si concilia con l’economia circolare il modo di operare delle grandi multinazionali che spesso hanno processi produttivi dislocati in molti Paesi?
La strategia aziendale di una multinazionale spesso fa più fatica a conciliarsi con le esigenze del territorio e con una logica di filiera corta. Sul fronte dell’economia circolare, però, si può fare molto in relazione al consumatore con un’azione sul prodotto che va a generare risparmi in termini di impatto ambientale. Penso ad alcuni grandi brand della cosmetica che hanno lanciato prodotti come lo shampoo secco per ridurre il consumo di acqua o dei flaconi innovativi che garantiscono il risparmio di materiali inquinanti. Sostanzialmente le grandi aziende agiscono in gran parte con azioni legate al mercato di sbocco e di approvvigionamento.
Qual è il modello più conciliabile con il sistema complesso dell’economia circolare?
Per quello che abbiamo osservato finora, funziona molto la logica del consorzio, se le aziende si mettono insieme l’impatto positivo in termini ambientali aumenta notevolmente. Per far questo servono però istituzioni in grado di innescare il processo di aggregazione anche col contributo delle parti sociali. Un tempo un ruolo importante in tal senso lo avevano le province, che riuscivano a unificare sul territorio le esigenze comuni delle singole imprese. Oggi abbiamo le Regioni che spesso, salvo qualche rara eccezione, prediligono i settori dell’energia e dei rifiuti e ancora non ragionano in un’ottica di economia circolare. Nelle amministrazioni pubbliche non è ancora penetrata la consapevolezza dell’importanza dell’economia circolare e questo costituisce indubbiamente un freno al suo avanzamento.
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