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sabato, Dicembre 14, 2024

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“Tutti i motivi per cui il Pil è una misura imperfetta”. Intervista a Jean-Paul Fitoussi

Secondo l’economista francese il Prodotto Interno Lordo non solo non riesce a misurare il benessere o le disuguaglianze all’interno di una società ma addirittura, nel calcolarlo, sono gli aspetti negativi di un sistema economico che contribuiscono a farlo crescere. È il caso di cercare altri indicatori?

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Verrebbe da dire, parafrasando George Orwell: “Tutte le misurazioni sono imperfette, ma qualcuna è più imperfetta di altre”. Jean-Paul Fitoussi, noto economista francese e docente dell’Istituto di studi politici di Parigi Sciences Po e alla Luiss di Roma, da più di dieci anni mette in dubbio il Prodotto interno lordo come strumento per misurare la ricchezza delle nazioni.

E questo, semplicemente, perché il Pil non è in grado di Misurare ciò che conta, come sostengono nel libro dall’omonimo titolo l’economista francese, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz e il capo statistico dell’Ocse, Martine Durand. Il progresso e il benessere di una società sono altra cosa rispetto al Pil, e avere attraversato più di un decennio di crisi economica l’ha dimostrato con lampante chiarezza.

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Professor Fitoussi, cominciamo dall’inizio: perché il Pil è uno strumento di misurazione incompleto?

Ci sono molte ragioni. Uno dei principali problemi del Pil è che alla sua crescita contribuiscono anche aspetti negativi di un’economia. Le faccio un esempio: se le automobili sono bloccate in un ingorgo, c’è maggior consumo di benzina e questo influisce positivamente sul Pil, mentre lo spreco di tempo delle persone, che danneggia l’economia, non viene contato.

Oppure pensiamo al caso delle spese fatte per la sicurezza delle proprie abitazioni, come i sistemi di allarme, le assicurazioni, i vigilanti privati o l’acquisto di armi da fuoco come avviene negli Stati Uniti. Tutto questo fa crescere il Pil, eppure se i cittadini percepiscono una mancanza di sicurezza nella società in cui vivono, non è certo un segnale di benessere.

L’altra grande imperfezione del Pil sta nella sua stessa definizione, poiché è una misurazione lorda, senza detrazioni. Non tiene cioè in considerazione la perdita di capitale. Al termine di una crisi economica, ci sono imprese e istituti di credito che falliscono e dunque c’è una parte di capitale che sparisce. La logica suggerirebbe di sottrarre questa perdita di capitale dal Pil di quell’anno, ma così non avviene. Allo stesso modo, la disoccupazione distrugge capitale umano, eppure non influisce negativamente nel calcolo del Prodotto interno lordo, che considera solo il capitale fisico.

In ogni caso c’è qualcuno che lavora per produrre quelle automobili e quei sistemi di allarme, che li vende e così via. Il Pil fotografa almeno la ricchezza di una nazione?

Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80 per cento della ricchezza va all’1 per cento della popolazione: ma quella non è una nazione ricca, perché un’economia può essere definita in espansione solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione.

Altrimenti resta una media senza alcun significato per le persone. Mi ricorda i polli del poeta romano Trilussa: un ricco mangia un pollo intero, un povero nulla, ma per la media tutti e due hanno mangiato mezzo pollo. E parliamo di una delle tante misurazioni imperfette della contabilità nazionale che non sono tarate sull’appartenenza a una determinata categoria di reddito. Potrei citare allo stesso modo l’inflazione.

L’inflazione è maggiore per chi ha un reddito basso, perché gran parte di esso è assorbito dall’acquisto di beni alimentari, di benzina e negli affitti. Tutte spese vincolanti e caratterizzate da alta inflazione. Per chi è ricco, invece, queste spese rappresentano una porzione irrilevante del reddito, mentre il prezzo di beni di lusso come computer e smartphone sta diminuendo, e dunque per lui l’inflazione potrebbe persino essere di segno negativo.

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Insomma, il Pil non riesce a cogliere la distinzione tra crescita economica e benessere.

Raccontare che la crescita del Pil è la crescita del progresso sociale è un grossolano errore. C’è bisogno di un approccio diverso. Che calcoli le variabili davvero indicative del benessere di una nazione. Abbiamo individuato una serie di indicatori e siamo in grado di misurarli. Non è neppure il caso di rilevare la crescita del Pil se guardiamo a questi fattori.

Vanno dalla salute all’educazione, dall’occupazione di qualità, e non precaria, alla partecipazione alla vita sociale e politica del Paese, dal livello dell’inquinamento alla sicurezza di una società. E, certo, anche il benessere economico diffuso. La crescita economica di per sé non è sbagliata, ma un indicatore più affidabile per misurarla è il reddito pro capite.

Ci sono, inoltre, tanti altri elementi per valutare la ricchezza di una nazione. Durante la crisi economica del 2008 l’approccio classico si basava sull’austerità. L’obiettivo era ridurre il debito pubblico e diminuire così il rapporto Debito/Pil. Ma lo Stato ha tutta una serie di elementi in attivo, come il capitale umano, il capitale pubblico o privato, il capitale naturale. Se per ridurre di un punto percentuale il debito pubblico riduciamo di cinque punti uno dei capitali appena elencati, la ricchezza di una nazione diminuisce senza neppure che ce ne accorgiamo, perché il Pil non misura questi aspetti.

I vari Recovery Plan dell’Unione europea per uscire dalla crisi pandemica puntano solo alla crescita economica o gli investimenti sono indirizzati verso il progresso?

I piani per la ripresa sono una misura necessaria perché abbiamo attraversato una crisi di enormi proporzioni e c’è bisogno di investimenti per salvare posti di lavoro, attività economiche ed imprese. Gli investimenti, però, dovranno andare nella direzione dei settori prima elencati, per troppo tempo relegati in secondo piano dalla politica.

Primo fra tutti la salute. Se non c’è un sistema sanitario ben funzionante, sarà difficile, o quantomeno richiederà molto più tempo, uscire dalla crisi. Penso anche all’educazione e alla cultura, penso all’ambiente, all’uguaglianza tra i cittadini. Quello che, però, ancora manca alle nazioni dell’Unione europea è un serio programma di riforme strutturali che accrescerebbe il benessere della popolazione nel medio-lungo periodo.

Sicuramente, se invece si colpirà la sicurezza sociale eliminando misure di sostegno del reddito perché ritenute troppo costose per i bilanci dello Stato, oppure si favorirà un’eccessiva flessibilità del mondo del lavoro, rendendo più semplici i licenziamenti, tagliando i sussidi di disoccupazione, allora aumenterà l’insicurezza economica delle persone, e con essa diminuirà il benessere della società. Anche se il Pil tornerà a correre.

L’economia circolare potrebbe rientrare tra i fattori del benessere?

Per quanto riguarda l’economia circolare, ho un dubbio legato alla sua definizione. Se con essa intendiamo l’importanza del riciclo, della durata dei materiali, del riutilizzo grazie alla riparazione, sicuramente sono tutti elementi che hanno un effetto positivo sull’ambiente e, quindi, sul benessere di una nazione.

Non capisco, tuttavia, perché si voglia chiamarla “economia circolare”. Il cerchio è una figura perfetta, un’economia circolare sarebbe un’economia che ha risolto ogni problema. Ricicliamo tutti i materiali e dunque la crescita economica può essere costante e il denaro si trova equamente distribuito su tutti i punti del cerchio e tutti i flussi di un sistema economico: spesa pubblica, tassazione, investimenti, consumi, risparmi, importazioni ed esportazioni, sono in equilibrio. È una visione meccanica dell’economia. Nessun sistema economico può essere completamente circolare.

Cosa ne pensa delle teorie dell’economia di stato stazionario  e della decrescita?

L’economia di stato stazionario è una teoria elaborata quarant’anni fa, ma il concetto alla base, individuare un livello massimo di crescita, in realtà proviene dagli economisti classici. David Ricardo sosteneva che nel lungo periodo tutti i sistemi economici avrebbero raggiunto una condizione di stato stazionario in cui la crescita si sarebbe arrestata.

Per quanto riguarda la teoria della decrescita, non penso sia conciliabile con l’inaccettabile povertà dilagante nel mondo. Le nazioni ricche difficilmente potrebbero soddisfare la domanda dei Paesi poveri in un contesto di decrescita. Al contrario sono convinto sia necessaria una crescita qualitativa per aumentare il benessere delle persone. Dovrebbe essere questo l’obiettivo delle ricerche degli economisti nel futuro, non pensare alla decrescita.

Leggi anche: Tutti i contributi della rubrica In Circolo sulla Crescita (in)finita

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