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sabato, Maggio 18, 2024

Herman Daly, un’economia di stato stazionario per salvare l’ambiente

Un’economia in cui la produzione e i consumi sono stabili. Che non cresce, ma non è neppure in recessione. Dove popolazione e occupazione sono costanti. Per Herman Daly è l’unico modo per impedire la distruzione degli ecosistemi. E abbandonare il totem del Pil

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Immaginate una società dove le risorse sono abbondanti, uno sviluppo illimitato offre benessere materiale a tutte le persone e perciò sono assenti conflitti sociali all’interno di essa e tensioni nelle relazioni internazionali. In poche parole, è l’utopia del liberismo, che ha forgiato per secoli i sistemi economici occidentali.

Le risorse naturali, però, sono scarse. E peraltro, più le consumiamo, più precludiamo la possibilità di utilizzarle in futuro, perché danneggiamo l’ambiente circostante e la capacità della Terra di rigenerarle. Finché la loro mancanza si rifletterà in guerre nazionali e conflitti sociali per accaparrarsi ciò che resta.

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Cosa è l’economia di stato stazionario

Ecco perché secondo alcuni economisti la crescita illimitata è un concetto anacronistico, insostenibile e pericoloso. E perciò è necessario cercare un equilibrio differente. Dove non è la crescita dei consumi a innescare l’aumento di produzione, che a sua volta dà alle persone la possibilità di consumare di più, visto che “non c’è limite ai desideri umani”, come sostengono i liberisti.

Lo statunitense Herman Daly, ad esempio, al caotico processo in costante divenire della crescita liberista, preferisce un’economia di stato stazionario che ricerchi la stabilità. Una popolazione e una forza lavoro costante, con minime fluttuazioni nella produzione e nei consumi di energia e materia e nel capitale finanziario. Che non cresce, ma non è neppure in recessione.

Per un breve periodo di tempo economista ambientale della Banca Mondiale, Daly pubblicò il primo libro in cui introduce il concetto di economia di stato stazionario (Steady State Economy) nel 1977, quando a malapena si discuteva di cambiamento climatico. Per capire quanto fosse proiettato verso il futuro, nel libro appare già la distinzione tra fonti di energia rinnovabili e fonti di energia non rinnovabili.

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John Stuart Mill, un precursore delle idee di Daly

 Eppure il concetto di “stato stazionario” è già presente nell’opera di un caposaldo del pensiero liberale ottocentesco come John Stuart Mill, quando afferma che “la crescita del benessere non è senza limiti”. A differenza di Adam Smith, Mill non è convinto che l’unico modo per assicurare un reddito accettabile a tutti i cittadini, compresi i più poveri, sia cercare uno sviluppo economico costante, che ricada sull’intera società, perché “l’alta marea solleva tutte le barche” (la teoria liberista del trickle-down).

Scrive Mill: “La condizione migliore per la natura umana è quella in cui nessuno è povero e nessuno desidera diventare ricco, e non c’è nessuna ragione di temere di essere strattonati indietro da coloro che cercano di passarti avanti”. Se non è la definizione di uno stato stazionario, è solo perché, da teorico dell’individualismo qual era, concentra l’attenzione sui comportamenti delle singole persone più che sugli aspetti di “sistema”.

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Il mentore “pessimista” Georgescu-Roegen

Se Daly prese in prestito dalla lettura di Mill il concetto di “equilibrio”, che è una sorta di armonia nelle aspirazioni degli individui, fu un matematico ed economista romeno, Nicholas Georgescu-Roegen, ad ampliare il suo punto di vista. Perché l’economia è fatta da teorie e numeri, senza dubbio, ma si inserisce nella realtà materiale. E anch’essa, sostiene Georgescu-Roegen, è influenzata dalle leggi della fisica e della biologia.

Secondo Georgescu-Roegen, nello specifico, i processi economici di produzione e consumo soggiacciono ai principi della termodinamica che possono essere così sintetizzati: “La quantità di energia totale dell’universo è costante e l’entropia è in continuo aumento”. Ogni trasformazione energetica comporta una perdita irreversibile, nel senso che una parte dell’energia trasformata non sarà più utilizzabile. Georgescu-Roegen dimostra che lo stesso ineludibile principio di dissipazione vale anche per la materia.

Nella visione bioeconomica del professor Georgescu-Roegen, di cui Daly fu allievo alla Vanderbilt University, le risorse naturali sono un “patrimonio di bassa entropia” disponibile sulla Terra in misura finita, perché anche le fonti rinnovabili, come l’energia solare, non sono controllabili dall’uomo.

Tuttavia, per Georgescu-Roegen, anche la stazionarietà, in una realtà dominata dall’entropia, era un miraggio. Scrive a proposito: “Forse il destino dell’essere umano è di avere una vita breve ma ardente, eccitante e stravagante, piuttosto che una lunga e tranquilla esistenza vegetativa. Lasciamo siano altre specie, come le amebe, che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare una Terra ancora inondata dalla luce del sole”.

L’economia ecologista di Daly

 È dal conflitto tra l’ottimismo liberista e il pessimismo di Georgescu-Roegen che secondo Daly scaturisce il nuovo paradigma economico. La principale replica degli economisti liberali è che Daly non considera la forza dell’innovazione tecnologica e l’efficienza dei mercati che neutralizza la scarsità di risorse, garantendo la crescita economica.

Eppure, nonostante decenni di straordinari passi avanti nella tecnologia e miglioramenti nell’efficienza, la domanda di energia e di risorse continua a crescere. Semplicemente perché, in un sistema capitalistico, i “guadagni” in termini di efficienza abbattono i prezzi delle risorse naturali e sono reinvestiti per aumentare la produzione e di conseguenza il consumo delle stesse risorse, invece di limitare l’impatto delle attività economiche.

Il neo-liberismo, secondo Daly, manca di sostenibilità nel lungo periodo, perché si fonda su un conflitto tra crescita economica illimitata e salvaguardia dell’ambientale. Un conflitto insanabile, visto che in un’economia in costante crescita il capitale naturale, costituito dal suolo, dall’acqua e dalla vegetazione, viene continuamente riallocato dalla natura ad attività umane, con effetti negativi sulla salute degli ecosistemi e, col passare del tempo, anche sul benessere.

È necessario, perciò, che la politica economica e le logiche di mercato soggiacciono a criteri di sostenibilità. L’inquinamento causato dalle attività produttive non può essere rimosso in tempi rapidi, ma vanno subito introdotti dei limiti. “Gli agenti inquinanti – scrive Daly – sono accettabili nella misura in cui non eccedono la capacità di assorbimento di un ecosistema, mentre il loro accumulo tende ad annullarla”.

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Quando è il momento per passare a un’economia di stato stazionario?

Daly è consapevole che nelle nazioni dove è diffusa una povertà impossibile da riassorbire esclusivamente con la redistribuzione non è il caso di adottare un’economia stazionaria, perché prima vanno raggiunti livelli dignitosi di Pil pro capite. Di contro, diventa indispensabile, utilizzando un paragone dalla biologia evoluzionista, quando in un dato ecosistema viene a mancare l’equilibrio tra le specie.

Per semplificare: se mettiamo due volpi in un’isola piena di conigli, avremo un aumento esponenziale della popolazione di volpi fintanto che non ci sarà penuria di conigli. Se nessuno prenderà provvedimenti per controllare la crescita delle volpi, nel giro di alcune generazioni queste si scontreranno tra di loro a causa della mancanza di risorse (i conigli), compromettendo le prospettive stesse di una progenie.

L’unica soluzione è che la popolazione dell’isola si stabilizzi leggermente al di sotto della capacità portante dell’ecosistema, ovvero il numero massimo di individui di una specie che un ambiente può ospitare in funzione della disponibilità di risorse. Lo stesso, per Daly, deve avvenire nei sistemi economici. Del resto, poiché parliamo di società in cui è già stato raggiunto il benessere materiale, i bassi tassi di natalità e di mortalità che le caratterizzano contribuiranno a mantenere la popolazione costante.

Sebbene Daly non indichi con precisione quale sia il momento opportuno per il passaggio a un’economia di stato stazionario e per questo motivo sia stato contestato dai suoi critici, se pensiamo che l’Overshoot Day, cioè il giorno in cui gli esseri umani hanno consumato tutte le risorse biologiche che in un anno offre la Terra, nell’ipotesi in cui l’intero Pianeta adottasse lo stile di vita dei cittadini statunitensi, cadrebbe intorno a metà marzo, un’idea possiamo farcela di quanto si avvicini il punto di non ritorno.

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L’economia di stato stazionario non cerca la crescita ma lo sviluppo

C’è, infine, da sgombrare il campo dall’assunto secondo cui crescita economica e sviluppo siano indissolubilmente legati, fino quasi a confondersi come sinonimi. E pensare che era stato proprio uno dei padri del liberalismo a mettere in guardia da questa sovrapposizione.

Scrive John Stuart Mill: “È ovvio che una condizione stazionaria di capitale e di popolazione non implica l’assenza di sviluppo dell’essere umano: ci sarà sempre spazio per qualsiasi progresso culturale, morale e sociale”. In poche parole, una società in cui la crescita materiale non è più l’obiettivo favorirà miglioramenti politici, etici e spirituali. È la “piramide dei bisogni” dello psicologo Abraham Maslow: una volta soddisfatti i bisogni fisiologici e di sicurezza, l’essere umano tende all’autorealizzazione.

Che la dimensione di un sistema economico resti stabile sul lungo periodo, non esclude, inoltre, un’economia in fase di sviluppo. Se il capitale umano nell’economia di stato stazionario resta costante, non significa che i posti di lavoro debbano essere “cristallizzati” e si vada incontro a un’impennata della disoccupazione.

“Per esempio – sostiene Daly – fattorie biologiche sostituiscono le fattorie su scala industriale, più biciclette rimpiazzano i mezzi militari, la partita di calcio della squadra locale richiama più tifosi di una corsa automobilistica. Il settore petrolifero si contrae e si espande quello delle energie rinnovabili, nella scienza diminuiscono i chimici industriali e aumentano i biologi”.

In poche parole, Daly non accetta il presupposto neo-liberista che il benessere è una funzione del consumo e del denaro, e perciò il prodotto interno lordo è la metrica per valutare il progresso: “Paradossalmente il paradigma della crescita economica è contemporaneamente troppo e troppo poco materialistico. Ignorando quali siano le leggi della fisica e della termodinamica, manca di materialismo. Ignorando quale sia il Fine Ultimo e l’etica, è troppo materialistico”.

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