Da qualche tempo anche i giornali generalisti si stanno occupando di materie prime critiche, vale a dire i minerali e i metalli necessari per la transizione ecologica e digitale (litio, cobalto e terre rare sono gli elementi più noti). Lo fanno però inseguendo spesso il sensazionalismo, parlando di assalto alle miniere, di dipendenza dalla Cina, di mastodontici piani dell’Europa e degli Usa: intendiamoci, i presupposti sono tutti veritieri ma si ha la sensazione, leggendo questi articoli, che manchi la voglia di approfondire i temi e di fornire visioni più ampie. Per testate come EconomiaCircolare.com, che di materie prime critiche scrive sin dalla sua fondazione, il punto di vista resta poi quello del cambio di paradigma: se non cambia il sistema con cui soddisfiamo i nostri bisogni, quelli reali e quelli indotti, la questione delle materie prime critiche sarà solo l’ennesima gattopardesca variazione sul tema.
Questo rischio si comincia a intravedere anche col vecchio/nuovo fenomeno del deep sea mining: con tale espressione si indica l’estrazione di materie prime critiche dai fondali marini. Come si legge in un approfondito articolo di Scienza in rete, “i primi studi per sfruttare le riserve minerarie sottomarine sono iniziati alla fine degli anni ’60. Il culmine è stato tra il 1978 e il 1979, poi si è registrata una perdita d’interesse per il tema a metà degli anni ’80. L’attenzione verso l’idea di estrarre minerali dalle profondità marine torna ciclicamente ogni qualvolta si alzano venti di crisi che minacciano la catena di approvvigionamento. Nonostante vari negoziati, la comunità internazionale non ha mai trovato un accordo per regolamentare questa attività. Quando nel 2021 l’isola di Nauru ha comunicato l’intenzione di voler cominciare a estrarre minerali dai fondali oceanici entro i prossimi due anni, si è riacceso il dibattito sul tema, dovuto anche ai timori per l’impatto ambientale che potrebbe avere”.
Questo processo, aggiungiamo noi, è stato poi accelerato dalla recente congiuntura internazionale: da una parte la crisi climatica ha posto l’esigenza di puntare sulla transizione ecologica e digitale, dall’altra la guerra in Ucraina ha mostrato le debolezze energetiche di un’Europa legata a un grande fornitore di gas, la Russia, e la necessità di una maggiore autonomia sulle risorse. L’idea di governi e industrie è dunque questa: perché non spostare le attività estrattive in alto mare, dove presumibilmente c’è un alto potenziale inesplorato di minerali fondamentali come litio e cobalto e dove (forse) è possibile un minor sfruttamento di persone e territori? Sul tema del deep sea mining una delle prime organizzazioni a mobilitarsi a livello internazionale è stata Greenpeace. La storica ong ambientalista parla di “minaccia da evitare” e propone una moratoria a livello globale. Per saperne di più abbiamo posto qualche domanda a Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia e autore del libro “Non tutto il mare è perduto” (Casti editore).
Leggi anche: Nasce la coalizione della società civile Ue per la circolarità delle materie prime
Il fenomeno del deep sea mining mostra una contraddizione profonda della transizione energetica. In origine fu il carbone, poi lo si sostituì con il petrolio, un po’ meno inquinante, e adesso si sta facendo lo stesso col gas. Prima o poi verrà il tempo delle rinnovabili, ancor meno impattanti, ma anch’esse comportano un problema di approvvigionamento. Come si risolve questa contraddizione?
Quello che rischia di verificarsi nel breve e medio futuro, con l’avvio delle attività minerarie nelle profondità marine ci conferma che, come specie, non abbiamo capito molto dagli errori del passato. Dobbiamo staccarci dalla logica del meno peggio e entrare, finalmente, nell’ottica che viviamo su un Pianeta con risorse limitate e che si regge su delicati equilibri da preservare. È necessario non estendere il nostro comportamento predatorio a uno degli habitat più stabili, e di gran lunga inesplorato, sulla Terra e che, peraltro, gioca un ruolo chiave nel sequestro del carbonio.
Servono interventi a monte che consentano di ridurre progressivamente la nostra crescente dipendenza dall’estrazione di metalli e terre rare, incentivando il riciclo e realizzando una vera economia circolare a livello globale. Ci sono enormi potenzialità da sfruttare. Per una volta, spero, riusciremo a essere lungimiranti.
Su questo tema finora la posizione dell’Italia è, se possiamo dire, di vigile attesa, se non di interesse. Ma quali potrebbero essere gli esiti di questa estrazione in mari pressoché “chiusi” come quelli italiani?
L’Italia è nel Consiglio dell’ISA (International Seabed Authority), l’autorità che secondo la Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS) delle Nazioni Unite governa le attività minerarie. Il nostro Paese si trova in una posizione estremamente rilevante: siamo nel gruppo A, tra le quattro nazioni che siedono nel consiglio insieme a Cina, Giappone e Russia. Nonostante ciò la nostra posizione, a livello internazionale, non è stata finora chiara. Solo di recente, in occasione del Forum Ambrosetti, la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che le risorse sottomarine (minerali e terre rare) possono diventare un motore di crescita e sviluppo per il Paese.
Se tali pericolose aperture saranno confermate durante i futuri meeting dell’ISA, saremmo tra i pochissimi Paesi, insieme alla Norvegia, ad avallare questa nuova attività potenzialmente distruttiva. Secondo le stime dell’EASAC (European Academics Science Advisory Council) un robot cingolato di sedici metri e in grado di prelevare ogni ora 400 noduli polimetallici (sfere ricche di metalli e minerali che giacciono sui fondali), nell’arco di 25-30 anni può rimuovere fino a 100 mila tonnellate di sedimenti in un’area di 10 chilometri quadrati.
Si tratta di sedimenti che si sono depositati in tempi lunghissimi il cui rilascio nell’ambiente marino di profondità e la loro dispersione nella colonna d’acqua può generare conseguenze ecologiche irreparabili, anche in un bacino semichiuso come il Mediterraneo. Tutto ciò è in evidente contraddizione col recente accordo per il Trattato globale per proteggere gli oceani formalmente adottato dalle Nazioni Unite nelle scorse settimane e già firmato da 81 nazioni, inclusa l’Italia. L’accordo prevede di arrivare al famoso obiettivo 30×30: ovvero proteggere il 30 per cento dei mari entro il 2030. Che senso ha impegnarsi a proteggere il mare da una parte e volerlo distruggere dall’altra?
A metà settembre il Parlamento europeo ha votato una “richiesta di moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde poiché l’impatto sugli ecosistemi marini non è stato studiato”. Ciò non va in contraddizione con la richiesta di una maggiore autonomia sulle materie prime critiche, così come formulata dal Critical Raw Materials Act proposto dalla Commissione? È davvero possibile bloccare sul nascere il deep sea mining o è più auspicabile legiferare per un minor impatto, in modo da evitare tali estrazioni minerarie nei Paesi più deboli, come avviene sulla terra?
È evidente che, oggi, per alcune applicazioni abbiamo una penuria di materiali, soprattutto in Europa, che ci porta a dipendere da altre nazioni. Ipotizzo però che l’Europa, che nel frattempo ha legiferato su importanti pacchetti come quello sulle batterie che prevedono il crescente ricorso a metalli e terre rare riciclate, ritenga questa penuria transitoria fintanto che non si realizzerà una vera economia circolare per i materiali critici.
È peraltro evidente che stante un quadro di impatti molto poco noto e misurabile, a cui potrebbero essere associati numerosi rischi, e tenendo conto dell’allarme del mondo accademico e della ricerca, sarebbe auspicabile mettere sul tavolo dei lavori internazionali la possibilità di introdurre una moratoria globale per il deep sea mining. Una posizione che molte nazioni come la Francia hanno già sposato e che speriamo diventi sempre più condivisa nella comunità globale. Con una moratoria, oltre a salvare il più grande ecosistema planetario, riusciremo finalmente a evitare di assistere, anche sul deep sea mining, alle storiche dinamiche di estrattivismo che colpiscono in modo differente il nord e il sud del mondo.
Il fenomeno del deep sea mining è probabilmente la penultima frontiera (poi resta lo spazio siderale) a cui l’industria estrattiva punta: dopo aver saccheggiato la terra, sia in superficie che in profondità, e la superficie del mare, non resta che il fondo del mare. Come Greenpeace non credete che servano nuove alleanze per provare a bloccare sul nascere questo nuovo rischio, come ad esempio quelle con l’industria della pesca? Quali strategie di convergenza state mettendo in campo?
Da tempo lavoriamo a livello globale con numerose organizzazioni e settori produttivi per bloccare sul nascere le attività estrattive negli abissi. Ognuno cerca di fare la propria parte per dare vita a una coalizione sempre più ampia rappresentata non solo dalla società civile. I risultati iniziano a pagare. Di recente ad esempio la casa automobilistica Volvo si è espressa in favore di una moratoria. Ci auguriamo che il fronte che vuole una moratoria si allarghi sempre di più in modo da spingere i decisori politici a far prevalere gli interessi della collettività anziché il profitto di pochi.
Quanto è reale l’esigenza del deep sea mining e quanto forte è il rischio di greenwashing?
Molte aziende interessate all’avvio di queste attività si nascondono dietro la penuria di materie prime che potrebbero mettere in difficoltà le economie globali e la transizione ecologica. In realtà, nella maggior parte dei casi si tratta di semplici schermaglie comunicative per forzare la politica ad aprire le porte a nuove forme di business basate sull’estrattivismo. Anche alcune compagnie italiane come SAIPEM (controllata da ENI) e Fincantieri sono interessate a questo tipo di attività, di fatto riconvertendo parte del loro know-how sulle estrazioni petrolifere offshore verso le attività minerarie. È di pubblico dominio l’interesse delle due italiane verso i depositi di minerali del Tirreno meridionale, a nord delle Isole Eolie.
Abbiamo bisogno di fermare questa follia prima che sia troppo tardi. E’ come vivere sei mesi prima dell’inizio delle estrazioni di petrolio e gas. Oggi con un quadro di impatti noti e sempre più gravi derivanti dall’uso di idrocarburi, concordiamo nel dire che sarebbe stato meglio non iniziare mai a estrarre combustibili fossili. Evitiamo quindi che, anche per il deep sea mining, questo rimorso accompagni il futuro dell’umanità .
Leggi anche: Progetti finanziati dal PNRR poco ambiziosi sulle materie prime critiche
© Riproduzione riservata