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venerdì, Novembre 15, 2024

Ripensare l’economia circolare in chiave globale: l’editoriale di Nature

Secondo la rivista scientifica Nature, ridurre l’impatto ambientale sul Pianeta non richiede solo nuove tecnologie e nuovi materiali, ma di ripensare l’utilizzo delle risorse oltre i confini nazionali. Cambiare, cioè, il modello di business globale secondo una visione circolare

Carlotta Indiano
Carlotta Indiano
Classe ‘93. Giornalista freelance. Laureata in Cooperazione e Sviluppo e diplomata alla Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso a Roma. Si occupa di ambiente ed energia. Il suo lavoro è basato su un approccio intersezionale, femminista e decoloniale. Scrive per IrpiMedia e collabora con altre testate.

“È probabile che l’oggetto da cui stai leggendo questo articolo abbia bisogno di una tonnellata di metallo grezzo, plastica e silicio per essere prodotto. Mentre il maglione che hai deciso di comprare per il pranzo di Natale lo indosserai forse una volta. Tra il 2000 e il 2015, infatti, la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata, ma è sceso al 36% il numero che indica quante volte indossiamo un capo. Tutta colpa della fast fashion“.

Così apre la rivista Nature uno dei suoi ultimi editoriale della raccolta “Nature Outlook on circular economy”, finanziata da Google, che raccoglie opinioni, interviste, studi sull’economia circolare. Ormai è chiaro che l’economia lineare ha un approccio insostenibile per il clima, la natura e la salute umana mentre il grande portato dell’economia circolare sta nell’eliminare quanto più possibile il rifiuto, sfruttando la circolarità del prodotto e dei materiali, considerando il rifiuto stesso una risorsa.

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Il quadro globale delineato da Nature

L’Unione Europea ha annunciato un piano d’azione per l’economia circolare nel 2020 e sta cercando di implementare politiche per verificare le dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende, controllare gli imballaggi e incentivare l’uso di materiali riciclati nella produzione.

In altri paesi del mondo ci si muove nella stessa direzione: il Cile, ad esempio, ha messo in piedi una strategia per un’economia circolare entro il 2040 che prevede obiettivi di riduzione dei rifiuti e la creazione di oltre 100mila posti di lavoro. Per la Ellen McArthur Foundation si tratta di un vero e proprio case-study: pubblicata nel 2021, la roadmap cilena definisce una strategia a lungo termine e un piano d’azione condiviso per una visione dell’economia circolare rigenerativa, equa e partecipata. Oltre alla creazione di posti di lavoro, la strategia prevede la riduzione dei rifiuti, l’aumento del riciclo e della produttività dei materiali e un recupero dei siti di discariche illegali. Il piano d’azione dettagliato comprende attività a monte e a valle per creare un solido sistema di innovazione dell’economia circolare, rendere le pratiche circolari la norma e garantire che il quadro normativo supporti la circolarità e si adatti a tutte le 16 regioni del Cile.

In anticipo la Cina, che aveva cominciato ad adottare politiche di economia circolare già alla fine degli anni 2000. Dal 1 gennaio 2021, inoltre, nel gigante asiatico è entrato in vigore il divieto d’importazione per tutti i rifiuti solidi, arrivando così al culmine di un processo iniziato nel 2017 con un primo divieto a 24 diverse tipologie di rifiuti. Una strategia industriale ben precisa da parte della Cina per alimentare la propria economia circolare con gli scarti prodotti all’interno dei propri confini e che ha costretto gli altri Paesi a ripensare le proprie politiche in materia dei rifiuti. Dopo il divieto di importazione dei rifiuti cinesi del 2017, il quadro legislativo internazionale e dell’Unione Europea Unione Europea (UE), specialmente il quadro normativo sull’esportazione, è stato rivisto.

Le modifiche alla Convenzione di Basilea, il trattato internazionale sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione, si sono fatte più stringenti, soprattutto sulla la possibilità di esportare rifiuti di plastica al di fuori dell’Ue. Eppure l’export non si è mai interrotto del tutto, la rimodulazione dei relativi flussi mostra come gli Stati Membri dell’Ue si siano progressivamente adattati alla nuova situazione ripiegando su Paesi come la Malesia e la Turchia, alimentando traffici sospetti.

Secondo il report “Five Years after China’s Plastic Import Ban” del Centre for Energy and Climate del French Institute of International Relations, nel 2017, Malesia, Vietnam, India e Tailandia sono diventate le prime destinazioni per sostituire la Cina, ma hanno rapidamente stabilito proprie restrizioni all’importazione. Di conseguenza, le esportazioni sono state reindirizzate verso l’Indonesia e la Turchia , che è diventata uno sbocco importante per l’Unione europea, con volumi di importazione di rifiuti plastici 20 volte superiori nel 2020 rispetto al 2016. L’Ue sta comunque cercando di integrare l’emendamento nel regolamento sulle spedizioni di rifiuti e sta valutando ulteriori restrizioni all’esportazione.

Il 1° dicembre 2022 la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (ENVI) del Parlamento Europeo ha adottato una relazione sulla riforma delle procedure e delle misure di controllo dell’UE in materia di spedizioni di rifiuti. Gli eurodeputati sostengono la proposta della Commissione di vietare esplicitamente le spedizioni all’interno dell’Ue di tutti i rifiuti destinati allo smaltimento, tranne se autorizzate in casi limitati e ben giustificati. Secondo il testo adottato, la Commissione svilupperà criteri uniformi per la classificazione dei rifiuti per garantire che le norme non vengano aggirate, distinguendo chiaramente, ad esempio, tra beni usati e rifiuti. Si prevede la digitalizzazione dello scambio di informazioni e documenti nel mercato interno con l’archiviazione delle informazioni in un sistema elettronico centrale per la comunicazione dei dati, l’analisi e la trasparenza.

Sempre in materia di iniziative circolari, esistono poi iniziative settoriali su scala ridotta. Dal 2009, il Giappone ha imposto ai produttori di raccogliere e riciclare i grandi elettrodomestici che producono, anche se i costi sono per lo più a carico dei consumatori. A Kawasaki, il riuso dei rifiuti industriali e municipali per la produzione di cemento ha fatto diminuire le emissioni di gas serra di circa il 15% dal 2009, con un risparmio di 272mila tonnellate di materiale all’anno.

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Ripensare le risorse secondo Nature

Oltre a politiche nazionali e di frontiera, la circolarità richiede un ripensamento completo della nostra percezione delle risorse e del modo in cui costruiamo le nostre attività economiche intorno ad esse. Secondo Nature, la circolarità può funzionare solo se si spezza il legame tra un’azienda che produce più cose e guadagna di più. Le aziende devono essere progettate fin dall’inizio (o riprogettate) per essere circolari.

Per tornare all’oggetto da cui stai leggendo questo articolo, ad esempio, il valore intrinseco delle risorse deve essere riconosciuto smontando e riutilizzando telefoni cellulari o computer portatili per mercati in cui non sono richiesti i modelli più recenti. Le strutture dei prezzi devono cambiare per incentivare la produzione di articoli che possono essere utilmente riutilizzati, in modo che le risorse mantengano il loro valore attraverso più di un ciclo di utilizzo.

I governi e le autorità internazionali devono sostenere tutto attraverso una discussione concreta su come imporre la standardizzazione senza soffocare l’innovazione. Ad esempio, le batterie dei veicoli elettrici non intercambiabili, potrebbero generare un enorme problema nella fase di smontaggio e riutilizzo. L’iniziativa Battery Passport, promossa dal World Economic Forum, mira a risolvere questo problema stabilendo un modello circolare per l’uso delle batterie entro il 2030.

Ma soprattutto, l’economia circolare stessa può essere una fonte di innovazione. Ci sono grandi opportunità per chi vuole sviluppare business innovativi che offrono soluzioni, sia che si tratti di software che aiutino gli altri a passare alla circolarità, sia che si tratti di aziende che offrono servizi per il noleggio e la restituzione, anziché per l’acquisto e lo smaltimento: il car-sharing, ad esempio, anziché l’auto di proprietà. Una transizione non facile se si considerano i costi di rinnovamento e la definizione di prezzi di leasing equi.

C’è ancora molto da fare per far girare davvero gli ingranaggi dell’economia circolare. Il movimento è iniziato, ma deve accelerare.

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