Il mercato della moda, ed in particolare del fast fashion, impattano negativamente su ambiente ed ecosistemi. Sul tema Greenpeace Germania ha pubblicato un interessante report – di cui si è parlato in precedenza su Economia Circolare – mettendo a nudo l’insostenibilità dei problemi legati al greenwashing dei grandi brand della moda e del fast fashion. Etichette presentate come green, la mancanza strutturale e sistemica di controlli e verifiche da parte di soggetti terzi, la non tracciabilità della filiera e l’uso di termini fuorvianti rispetto a pratiche di riciclo, circolarità e sostenibilità sono alcuni dei problemi evidenziati.
Negli ultimi anni si è consumata un’importante battaglia comunicativa. I grandi marchi hanno messo sotto i riflettori le loro scelte “sostenibili” in ambito socio-ambientale, di fatto contribuendo a svuotare questo concetto del suo significato. Dall’altra associazioni ambientaliste e sindacati hanno intensificato le loro azioni di protesta e comunicazione.
Sono anni che diversi soggetti internazionali tra cui sindacati, Greenpeace, Extinction Rebellion e molti altri si battono evidenziando le ricadute di questa industria in termini di inquinamento e condizioni di lavoro misere ed insalubri.
I dati del fashion: produzioni e proiezioni
Dalla prospettiva dell’economia globale, il mercato della moda è un mercato importante e tutt’oggi in espansione, lo evidenziano le proiezioni future proposte da Statista Consumer Market Outlook, pubblicate dal ricercatore Philip Smith nel 2023, esperto di mercato del fashion e trading. Il mercato del fashion che nel 2015 valeva 1,45 trilioni di dollari oggi vale 1,94 trilioni di dollari.
Analogamente all’espansione del mercato del fashion (figura 1) vediamo una crescita nell’uso di fibre chimiche che includono le fibre sintetiche come il poliestere, fibre come la viscosa e il rayon a fronte di un andamento invece costante e mai in crescita dell’uso di fibre non chimiche, come riportato dal report di Industrievereinigung Chemiefaser, azienda tedesca. Nel 2020, le fibre chimiche rappresentano oltre l’70% della produzione globale e ben il 64% del totale delle fibre prodotte al mondo derivano direttamente dal petrolio, secondo il report Preferred Fiber & Materials Market Report 2023. La lettura da una prospettiva globale non si pone l’obiettivo di restituire un’analisi puntuale, ma di ricostruire e rappresentare le macro dinamiche di mercato che si riproducono anche nell’industria del fashion. Inserendo queste considerazioni nel contesto della crisi climatica globale, se mercati notoriamente tanto inquinanti continuano a crescere, conseguentemente continueranno a contaminare territori.
Figura 1: Produzione di fibre chimiche, sopra, (in chilotonnellate) e proiezioni dei ricavi, sotto, (in trilioni di dollari). Fonti: Statista Consumer Market Outlook (P. Smith, 2023). Report di Industrievereinigung Chemiefaser (Statista Research Department, 2023). Elaborazione e grafica: Chiara Braucher per EconomiaCircolare.com
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La filiera della moda: un flow dall’est all’ovest
Tra mercati in crescita e contaminazioni dei territori diventa essenziale capire che percorso compie la filiera del fashion e quindi chi soffre di più e subisce gli impatti socio-ambientali di questa catena di produzione.
Le fibre più usate sono le fibre chimiche, un settore dove la Cina è leader indiscusso con un export 10 volte superiore a quello di chiunque altro al mondo (figura 2). Considerando i dati del 2022 le prime due fasi di produzione e filatura della fibra avvengono quindi principalmente in Cina, per quanto riguarda le fibre di origine chimica. I dati sull’export di abiti confezionati sono invece distribuiti in modo più uniforme anche in Europa, Bangladesh, Vietnam, Turchia, India e non solo (figura 2). Le fasi di produzione e lavorazione degli abiti sono più distribuite di quelle di produzione dei filamenti ed avvengono in diversi territori, seppur in particolare nel Sud-est asiatico. Il globo poi si rovescia quando si guarda alle ultime fasi della filiera. L’import di vestiti riporta nella top 5 Europa, Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Cina (Figura 2) con in testa l’Europa che solo nel 2021 ha importato vestiti per un totale di 195 milioni di dollari.
I ricavi dell’industria della moda, oltre ad essere globalmente in crescita, necessitano di alcune considerazioni fondamentali quando vengono analizzati su base statale. I cinque Stati che guadagnano di più dall’industria del fashion sono nell’ordine Stati Uniti con 359 milioni di dollari solo nel 2022, Cina, India, Giappone e Regno Unito. Questi dati acquisiscono un significato solo se messi in relazione alla dimensione o alla popolazione di un territorio. Ponderando i ricavi del mondo del fashion sul numero di abitanti, ad esempio, otteniamo il valore dei ricavi del fashion pro capite. In quel caso si ribalta completamente la geografia del settore e i cinque Stati che guadagnano di più pro capite dall’industria della moda sono nell’ordine Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Italia e Germania. Questo è un mercato che per il Regno Unito produce un guadagno pro capite 5 volte superiore che in Cina e 20 volte superiore di quello che produce l’India.
L’industria del fashion si inserisce a pieno nelle dinamiche globali di import/export e del classico trasferimento di beni di consumo da territori sacrificati verso il centro dell’economia globale producendo un incremento esponenziale del valore delle merci di fase in fase. I capi vengono quindi etichettati ed entrano nel mercato della moda finendo in tutte le vetrine scintillanti delle più grandi e ricche città al mondo. Esiste quindi un’asimmetria in termini di ricadute positive e negative sui territori. I profitti si concentrano in quei territori che vengono attraversati dalle fasi finali della filiera, mentre i danni socio-ambientali si concentrano maggiormente nelle periferie, nei territori sacrificati al modello di sviluppo contemporaneo. I beni di consumo dell’industria del fast fashion attraversano il globo e vengono prodotti e distribuiti attraverso filiere che per lo più ricalcano lo schema coloniale che estrae valore da territori periferici muovendosi poi verso il centro dell’economia mondiale. Le ricadute di queste filiere si abbattono quindi a cascata su territori che sono stati votati al sacrificio dallo stesso modello che dovrebbe tutelarli.
Figura 2: Filiere e valori su scala globale di: esportazione di fibre chimiche e di abiti e import di vestiti. Fonti: trademap.org (Statista Research Department, 2023), World Trade Statistical Review 2022 (T. Sabanoglu, 2024). Mappa di base: The decolonial Atlas. Elaborazione e grafica: Chiara Braucher per EconomiaCircolare.com
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Gli impatti ambientali: acqua e aria a rischio
Così come è in crescita il mercato del fashion anche i danni che questo procura all’ambiente, se non radicalmente trasformato, sono destinati a crescere. La filiera della moda ha un grosso impatto in termini di consumo di acqua, di emissioni di GHG e di scarto. Secondo i dati pubblicati nel report Measuring Fashion edito nel 2018 le fasi più impattanti sono quelle a monte: le fasi di produzione della fibra, di filatura e tintura (figura 3) che quindi ricadono sulle periferie che, nel caso dell’industria del tessile, sono alcune aree di sacrificio dell’Asia e del Sud Est Asiatico o aree marginali in altri paesi europei. Nel 2016 l’acqua consumata dalle prime due fasi di lavorazione e dalla fase di tintura e finitura dall’industria del fashion conta circa 175 miliardi di metri cubi d’acqua, oltre 4 volte di più delle altre quattro fasi di lavorazione.
Una volta acquistati gli abiti in negozio questi svolgono la loro “vita utile” per poi ritrovarsi a diventare scarto. Questo rappresenta un altro momento delicato della filiera del fashion. Nel 2019 erano oltre 43 milioni di metri cubi i rifiuti di plastica provenienti dal settore del tessile (figura 3 – ourworldindata.org), quasi il 10% del totale della plastica gettata via al mondo. Questo ha un grande impatto ovviamente sulla qualità dell’acqua. Come confermato da diversi studi, tra cui Breaking the Plastic Wave di Pew Charitable Trusts e SYSTEMIQ con il contributo delle università di Oxford e Leeds e della Ellen Macarthur Foundation e di Common Sea, l’industria tessile è anche responsabile almeno del 3% delle microplastiche presenti negli Oceani.
Ci troviamo davanti a numeri critici che ci restituiscono l’impatto, a livello “locale” e globale, del mercato della moda e che raccontano di un possibile futuro in cui ambiente e comunità marginali saranno messe ancor più sotto pressione dall’ampliarsi di un settore “wear and throw” – indossa e butta – studiato per il consumo incessante di quei luoghi al centro dell’economia globale.
Figura 4: Fonti inquinanti dall’industria del fashion: Prelievi d’acqua dolce, emissioni di gas e scarti. Fonti: Measuring Fashion edito nel 2018 (I. Teseo, 2023), ourworldindata.org (B. Alves, 2023), Breaking the Plastic Wave (I. Teseo, 2023). Elaborazione e grafica: Chiara Braucher per EconomiaCircolare.com
A fianco a questi preoccupanti dati troviamo però l’intensificarsi di conflitti che vedono le aziende della moda al centro di una crescente spirale di denunce, attacchi e rivendicazioni che si allineano nella ricerca di una qualche giustizia socio-ambientale (ACLED dataset). Il 23 settembre 2023, attivisti di Fair Fashion hanno organizzato una delle molte proteste di fronte al negozio H&M in Rue Neuve, Bruxelles – Ville de Bruxelles (Bruxelles), per denunciare le pratiche di greenwashing dell’azienda. In uno scenario complesso ed articolato, specie in contesti democraticamente meno solidi, i soggetti che portano avanti queste battaglie hanno la volontà di costruirsi un futuro giusto. Sindacati, grandi organizzazioni ecologiste ed antispeciste globalmente si muovono ovunque per difendere salute e ambiente per ottenere il diritto ad una vita bella e dignitosa.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente.
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