“Siamo un Paese che ha delle carenze istituzionali molto gravi nel coinvolgimento dei i cittadini. E non è solo questione di normativa ma di cultura istituzionale”. Antonio Massarutto è docente di Economia applicata all’università di Udine e research fellow del GREEN della Bocconi, si è occupato di rifiuti e acqua, (come accademico e come divulgatore: Un mondo senza rifiuti?, Privati dell’acqua?) e di conflitti ambientali (Gestione del consenso e conflitti ambientali: oltre la sindrome Nimby). Lo coinvolgiamo nel ragionamento che EconomiaCircolare.com sta facendo attorno alla partecipazione e al dibattito pubblico.
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Partiamo da un fatto di attualità. Approvando il Pnrr italiano, la Commissione europea ha inviato al nostro Paese una raccomandazione: “Coinvolgere tutte le autorità locali e tutti i portatori di interessi, tra cui le parti sociali”. Professor Massarutto, siamo un Paese che non coinvolge i propri cittadini?
Siamo un Paese che ha delle carenze istituzionali molto gravi nel coinvolgimento dei i cittadini. Certo il dibattito pubblico c’è sempre, non siamo un regime sudamericano o una dittatura asiatica, ma ho l’impressione che la partecipazione diventi spesso occasione per una specie di gazzarra a chi urla più forte, e spesso anche i tentativi più virtuosi si trasformano in riedizioni ridicole delle assemblee del ‘68, o peggio in un momento in cui si regolano altri conti. Pensi alla Tav, è stata occasione per togliere il tappo e dare sfogo ad una conflittualità latente, e oggi sembra quasi che in treno non c’entri più niente…
La partecipazione va progettata, costruita, incanalata in processi istituzionali che la rendano possibile secondo modalità civili, altrimenti ogni occasione, dall’inceneritore di turno al gasdotto in Puglia, diventa la scusa per fare da detonatore a conflitti più ampi.
E quando dico coinvolgimento intendo in primo luogo dibattito pubblico informato, da cui poi si può arrivare a forme di empowerment o di partecipazione diretta alle decisioni. Ma prima c’è necessariamente il dibattito pubblico secondo un meccanismo informato, che richiede quindi una diffusione delle informazioni.
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Al nostro Paese mancano strumenti normativi per un serio dibattito pubblico?
Non è solo questione normativa, è un problema di cultura istituzionale, di capacità delle istituzioni di dialogare. Il fatto che non abbiamo un equivalente italiano per la parola inglese accountability la dice lunga.
Quelli che nella letteratura politologica sono noti come “triangolo di ferro”, vale a dire la coalizione tra i beneficiari dell’opera, i realizzatori della stessa e l’apparato statale, oggi pensano ancora che il canale principale da presidiare sia il corridoio del ministero. Più che le norme e le leggi manca l’abitudine e la disponibilità sincera dell’amministrazione e dei proponenti dei progetti a condividerli coi cittadini e il territorio.
Torniamo al “dibattito informato”. Come fornire l’informazione che deve sottendere al dibattito?
Difficile trovare una ricetta che sia adatta sempre e ovunque. Il punto fondamentale è il capitale di fiducia che il cittadino deve avere innanzitutto nei confronti del proponente dell’opera. Non sono particolarmente partigiano delle imprese pubbliche rispetto a quelle private, ma credo che le imprese pubbliche con un forte radicamento nel territorio possono avere una marcia in più da questa punto di vista, perlomeno perché non vengono percepite come l’imperatore nemico che arriva come un conquistatore a calpestare il sacro suolo della patria per poi scappare con i profitti. I cittadini hanno bisogno di garanzie per il futuro, la capacità di garantire che le promesse fatte oggi domani diventeranno fatti, e che domani l’impresa non sparirà come un hedge fund che non sai nemmeno dove stia di casa.
Il sistema delle autorità indipendenti ha funzionato proprio perché in quanto indipendenti sono costrette a costruirsi un capitale di fiducia attraverso la pratica, legittimando le proprie decisioni anche attraverso canali di partecipazione con le forme più diverse, con una costante capacità dialogo. Queste autorità sono anche fonte di informazione, che senza prendere per forza le parti dell’establishment dimostrano la capacità di ascoltare le persone e le loro preoccupazioni, usando anche informazioni seriamente scientifiche.
Scrivendo di rifiuti nel suo “Un mondo senza rifiuti?” afferma che “è solo con la partecipazione pubblica, con un grande e duraturo sforzo di condivisione delle scelte e di costruzione sociale della politica, che la soluzione può emergere”. Nel caso specifico dei rifiuti, cosa intende per partecipazione? Se dovesse realizzare un inceneritore, da cosa partirebbe?
Non partirei certo dall’inceneritore. Partirei da un ragionamento complessivo su cosa voglio fare della gestione dei rifiuti nel mio territorio, al di là dell’esito impiantistico, che sia un inceneritore o meno. Se la partecipazione comincia quando siamo all’inceneritore è troppo tardi. La partecipazione va fatta innanzitutto condividendo i problemi e gli spazi in cui cercare le soluzioni. Quando questo viene fatto il cittadino dimostra di essere molto più maturo e molto meno preda di pulsioni irrazionali di quanto non si pensi. La sindrome Nimby è molto più facile da governare se il processo di partecipazione parte a monte.
La seconda regola importante – se poi si arriva a un inceneritore – è non far finta di niente. I problemi ci sono e non vanno minimizzati né rimossi: al cittadino bisogna parlare con sincerità. Sincerità vuol dire non negare i problemi ma nemmeno cavalcare facili consensi dicendo sempre no.
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Chiudiamo ancora con un brano dal suo libro sull’economia circolare: “Proprio dal conflitto lacerante che i rifiuti rivelano può partire, dal basso, la crescita di una comunità nuova”. Ci spieghi.
Una comunità si costruisce intorno alla percezione di una serie di questioni comuni, che possono essere beni comuni ma anche mali comuni. Il Covid, ad esempio, nel bene e nel male, è qualcosa che ha ricompattato la nazione. A differenza dei casi ordinari nei quali ciascuno guarda il suo orticello, di fronte ad un problema comune che interessa tutti aumenta la capacità dei cittadini di trovare soluzioni eque. Dover affrontare problemi comuni come quelli dei rifiuti forse può essere il modo per tornare a fare politica, ma in modo nuovo, per tornare a confrontarsi al di furi dagli schemi tradizionali.
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