“A meno di due mesi dall’avvio dell’obbligo sulla raccolta differenziata dei rifiuti tessili in Italia c’è sconcerto, perché non ci sembra che il Paese sia pronto. Alla semplice raccolta manca una vera cabina di regia”. Antonio Pergolizzi, analista ambientale e collaboratore di EconomiaCircolare.com, da tempo lancia l’allarme. Ora un rapporto stilato col laboratorio Ref mette in fila le problematicità e le proposte per creare una vera filiera del riciclo.
Il Piano d’Azione per l’Economia Circolare, approvato dal Parlamento europeo lo scorso 10 febbraio, prevede che la strategia per l’economia circolare sia applicata anche al settore tessile da tutti i Paesi europei entro il 2025. Anticipando i tempi però, l’Italia, con il decreto legislativo n.116, ha istituito l’obbligo di raccogliere separatamente questi rifiuti. La domanda è sempre quella: se non siamo pronti, cosa succederà tra un mese e mezzo?
“Personalmente non credo ci saranno grandi cambiamenti in quella data non essendo stato istituito un regime di EPR (responsabilità estesa del produttore) e nemmeno un target di raccolta differenziata – spiega Andrea Fluttero, presidente E.C.O. srl -. Penso che nei Comuni nei quali non sia ancora attiva la raccolta di questa frazione, che si è consolidata negli anni grazie alle tante cooperative sociali che la propongono, saranno installati alcuni cassonetti per ottemperare all’obbligo, peraltro non sanzionato in caso sia disatteso”.
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I rifiuti tessili in Italia
Secondo il report di REF, in Italia nel 2019 sono stati prodotti e intercettati circa 157,7 mila tonnellate di rifiuti urbani, stabilmente intorno allo 0,8/0,9% del totale dei rifiuti differenziati, ma in crescita del 22% rispetto ai volumi raccolti nei 2015 e destinati a crescere ulteriormente dal 2022 con l’introduzione dell’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili di origine urbana.
Alcune realtà – come Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Marche – hanno già superato la soglia dei 3 chilogrammi per abitante di rifiuto tessile raccolto in modo differenziato, mentre regioni come Valle d’Aosta, Basilicata sono vicine alla soglia dei 4 Kg, già superata dal virtuoso Trentino Alto-Adige. I dati dei territori fanalino di coda, come Umbria e Sicilia, che raccolgono in modo differenziato meno di 1 Kg per abitante, lasciano pensare che in quelle regioni le raccolte differenziate del tessile non siano state in massima parte neanche avviate. Secondo le analisi di ISPRA, il 5,7% dei rifiuti indifferenziati è composto da rifiuti tessili. Un dato che, se quantificato, porterebbe a circa 663mila tonnellate/anno di rifiuti tessili non riutilizzati o riciclati.
“Per analizzare il tema della gestione rifiuti e le regole per la loro gestione è necessario dividere in modo chiaro i rifiuti da pre consumo – specifica Fluttero a Economia Circolare.com -, tipicamente omogenei e destinati a riciclo ed a riusi alternativi di ripiego, quali imbottiture o pannelli fonoassorbenti, da quelli da post consumo, tipicamente disomogenei. Infatti si usa dire dei rifiuti post consumo che non tutto il tessile è abbigliamento e non tutto l’abbigliamento è tessile”.
Secondo il think tank Althesys, la ridefinizione della filiera della raccolta e recupero non dovrà però penalizzare il riuso dei beni tessili, da sempre un tassello importante della filiera. Basti pensare che nel 2020 il tasso di riutilizzo dei rifiuti tessili urbani in Italia si attestava intorno al 65%-68% (fonte: Unicircular), contro una media del 50% nell’Unione Europea (fonte: Eurostat).
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La (una) soluzione? La responsabilità estesa del produttore
Uno degli strumenti più efficaci per contrastare l’ingente impatto climatico del settore fashion – 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra secondo i dati della Commissione europea – potrebbe essere l’introduzione di obblighi di Responsabilità estesa del produttore (EPR).
“Il vero salto di qualità a mio giudizio avverrà con l’istituzione di un regime di EPR e la fissazione di target di raccolta differenziata. Qui si giocherà una partita importante – continua Andrea Fluttero – e mi auguro che, alla luce della particolare specificità della filiera, il Ministero della Transizione Ecologica garantirà una adeguata fase di ascolto dei vari anelli della filiera allo scopo di “cucire su misura” un decreto EPR anziché produrlo a colpi di “copia e incolla” mutuandolo da altri settori troppo diversi da questo per essere presi a riferimento”.
Rendendo concreto il principio europeo del “chi inquina paga”, l’EPR potrebbe indirizzare la produzione e il consumo in ottica più sostenibile, penalizzando specialmente il fenomeno della fast fashion di brand come H&M e Zara che non sembrano volere adottare strategie di riduzione della produzione. “I brand devono cambiare logiche e devono essere guidati da policy efficaci come gli EPR – dice Pergolizzi – I capi non riciclabili dovrebbero esser penalizzati e costare di più”. Anche il segnale di prezzo fornito dal contributo ambientale dovrebbe orientare in ultimo anche le scelte. “Si parla tanto di EPR, ma che tipo di responsabilità estesa andiamo a scegliere – si domanda Pergolizzi – È un tema che richiederebbe un dibattito pubblico importante. Significherebbe spostare gli equilibri dalla parte dei produttori che dovrebbero essere incentivati a produrre materiali riciclabili”.
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Fondi dal Pnrr e sinergie
In termini di risorse e di finalità, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienzia, più noto con l’acronimo Pnrr, con la linea di investimento 1.2, guarda alla infrastrutturazione della raccolta delle frazioni di tessili pre-consumo e post consumo, ammodernamento dell’impiantistica e realizzazione di nuovi impianti di riciclo delle frazioni tessili in ottica sistemica.
I “Textile Hubs” rappresentano l’opportunità principale per la filiera dal momento che l’obiettivo dichiarato dal MiTE è quello di raggiungere il 100% di recupero nel settore tessile attraverso questi hub. “Leggere nel Pnrr che l’obiettivo degli investimenti ipotizzati per il tessile è il 100% di recupero è quantomeno bizzarro – commenta Fluttero -, a meno che non si prenda in considerazione la produzione e l’uso di CSS (Combustibile Solido Secondario) per tutte le raccolte post consumo non destinabili alla preparazione per il riuso e agli utilizzi di ripiego”.
L’analisi di Ref spiega che il settore tessile in fatto di sinergie non parte da zero. “Può vantare dalla sua di avere una innata vocazione distrettuale, considerato che più del 60% delle imprese sono situate in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte. Questo vuol dire che nel nostro Paese si continua a produrre in loco, nonostante la delocalizzazione abbia prodotto i suoi effetti”, si legge nel paper.
“Senza una regia, dei target da raggiungere, risorse correnti da utilizzare per ricerca ed innovazione e per integrare i ricavi delle attività di riciclo non economicamente sostenibili, ritengo che le risorse che il PNRR destina al tessile nei progetti faro della misura M2C1 difficilmente saranno utilizzabili in modo razionale”, chiosa Andrea Fluttero.
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