“Le azioni dell’Unione europea in materia di finanza sostenibile erano necessarie, ma non affrontano tutte le questioni fondamentali”. Difficile sintetizzare il recente documento della Corte dei conti europea sulla finanza sostenibile e sul modo in cui viene portata avanti dall’Ue. Ma questa frase, forse, concentra l’ampia analisi e le puntigliose raccomandazioni che accompagnano il documento di 88 pagine prodotto dall’istituzione che dal 1977 esamina i conti di tutte le entrate e le uscite dell’Unione e dei suoi vari organi al fine di accertarne la sana gestione finanziaria.
Questa volta l’attenzione, dicevamo, si è concentrata su un tema particolarmente dibattuto, specie negli ultimi tempi, e cruciale. L’analisi dei giudici comunitari ha affrontato vari temi: dalla tassonomia alle fonti fossili, dalle emissioni di gas serra al principio del danno non significativo. Eccoli uno per uno. Ma prima un po’ di storia.
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Servono più soldi, specie da parte dei privati
Tra i patti stabiliti dall’Accordo di Parigi nel 2015 c’era anche quello di “rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso verso uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente ai cambiamenti climatici”. Per farlo, come è noto, servono ingenti investimenti pubblici e privati – da soli gli Stati non possono farcela. Ecco perché nel 2018 la Commissione “ha istituito un Piano d’azione per la finanza sostenibile che comprendeva misure volte a reindirizzare i finanziamenti privati verso investimenti sostenibili, gestire i rischi finanziari connessi ai cambiamenti climatici e migliorare il governo societario sostenibile nel settore privato. Al contempo, la Commissione e la Banca europea per gli investimenti hanno continuato ad adoperarsi per fornire sostegno finanziario pubblico agli investimenti sostenibili, in particolare in relazione all’azione per il clima”.
Può bastare? “La Commissione – sottolinea il documento – non ha ancora stimato l’entità degli investimenti totali necessari per una transizione socialmente equa ed ecosostenibile verso un’economia climaticamente neutra e resiliente entro il 2050, che comprenda sia la mitigazione dei cambiamenti climatici che l’adattamento ai medesimi (resilienza climatica). Nel 2020 la Commissione ha stimato che il conseguimento dell’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030 richiederebbe investimenti annui aggiuntivi nel solo sistema energetico pari a circa 350 miliardi di euro. Ha inoltre stimato che il fabbisogno complessivo di investimenti ambientali sostenibili sia compreso tra i 100 e i 150 miliardi di euro all’anno, mentre il fabbisogno di investimenti sociali ammonterebbe a 142 miliardi di euro l’anno fino al 2030”.
Di più: per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni al 2050, è stato calcolato che servirebbe “una spesa totale annua in conto capitale di circa mille miliardi di euro all’anno nel periodo 2021-2050”. Un’enormità, a cui non possono contribuire solo i 27 Stati membri dell’Ue. Ecco dunque che la finanza sostenibile dovrà dare un’enorme mano. A patto che l’Europa sappia dare un quadro di regole preciso e lungimirante.
Come sta andando il Piano d’azione della Commissione?
A tre anni di distanza dal Piano d’azione per la finanza sostenibile, varato dalla Commissione europea tre anni fa, la Corte dei conti ha effettuato una serie di audizioni e ha valutato le misure previste e il loro stato di attuazione (fino al 7 luglio 2021). È emerso che “a circa 18 mesi dal termine stabilito, 21 misure erano state completate e sei erano ancora in fase di attuazione (comprese due a carattere ricorrente)”. La Corte ha riscontrato che la Commissione non aveva stabilito indicatori per il monitoraggio e la rendicontazione dei traguardi raggiunti grazie alle misure del piano d’azione.
“L’introduzione della tassonomia dell’UE ha subìto ritardi – sottolineano i giudici europei – e vanno risolte questioni in sospeso prima che sia pienamente applicabile. Prima che la Commissione proponesse la tassonomia dell’UE, alcuni Stati membri avevano cercato di attenuare il rischio di greenwashing sviluppando tassonomie proprie, dando luogo a una serie di marchi e norme. Al di fuori dell’UE, alcuni paesi stanno lavorando a proprie tassonomie di finanza sostenibile, in alcuni casi ispirandosi al lavoro dell’Ue”.
Quanto alle misure di regolamentazione specifiche, la Corte ha rilevato che “le azioni pianificate erano correttamente incentrate su come accrescere la trasparenza, sia in relazione a quali siano gli investimenti sostenibili che al modo in cui il settore finanziario e le imprese riferiscono in merito alla sostenibilità. Molte azioni hanno subìto ritardi e richiedono ulteriori misure per diventare applicabili. In particolare, c’è voluto più tempo del previsto per completare il sistema comune di classificazione delle attività sostenibili (la tassonomia dell’Ue) che costituisce la base per l’assegnazione di marchi ai prodotti finanziari e la standardizzazione dell’informativa sulla sostenibilità per le imprese. A giudizio della Corte, queste misure non saranno pienamente efficaci se non saranno accompagnate da sufficienti misure che consentano di tener conto dei costi ambientali e sociali delle attività non sostenibili”.
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L’ambiguità sulle fonti fossili
Tra le attività non più sostenibili ci sono, nonostante gli enormi sforzi per raccontarsi come tali, le aziende fossili. La Corte ha osservato che “taluni programmi di spesa dell’UE consentono il finanziamento di attività dannose per l’ambiente. Ad esempio, la politica di coesione permette investimenti limitati in infrastrutture per il gas in alcuni Stati membri . Nell’ambito del dispositivo per la ripresa e la resilienza, gli Stati membri possono anche sostenere investimenti in combustibili fossili in via eccezionale e decidendo caso per caso, qualora la transizione da fonti energetiche ad alta intensità di carbonio induca una riduzione importante e rapida delle emissioni di gas a effetto serra”. Sono gli stessi giudici a rilevare che “qualsiasi investimento in combustibili fossili rischia di diventare un attivo non recuperabile” e, d’altra parte, la Banca Europea per gli Investimenti “ha deciso di eliminare gradualmente, a partire dal 2022, il sostegno a progetti riguardanti infrastrutture per combustibili fossili, compreso il gas naturale, e centrali elettriche con questi alimentate”.
Le attività estrattive sono poi, come è noto da tempo, tra le principali responsabili della crisi climatica a causa dell’alto livello di emissioni di gas serra. Come rendere più sostenibili queste aziende? La Corte suggerisce di stabilire un prezzo per le emissioni di gas serra, che “devono essere sufficientemente elevati da fornire i giusti incentivi per conseguire gli obiettivi dell’azione per il clima. Nel 2020 la Commissione ha avviato i lavori di riforma del sistema per lo scambio di quote di emissioni a effetto serra (emissions trading scheme – ETS) dell’UE al fine di conseguire l’obiettivo di una riduzione del 55% per il 2030 e quello di azzeramento delle emissioni nette per il 2050. Nel quadro dell’ETS dell’UE, le imprese attive nell’industria pesante, nella produzione di energia elettrica e termica e nel settore dell’aviazione commerciale devono ottenere quote di emissioni sufficienti a coprire le proprie emissioni di carbonio in eccesso. Il prezzo delle emissioni di carbonio è determinato dalla domanda e dall’offerta di tali quote. Alcuni esperti hanno suggerito di introdurre “corridoi di prezzo” o, quanto meno, un prezzo minimo delle emissioni di gas a effetto serra, per stabilizzare e aumentare gradualmente il loro prezzo di mercato”.
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Le assenze della tassonomia
Si è già accennato alla tassonomia dell’Ue, “concepita come un sistema per classificare la sostenibilità delle attività economiche sulla base delle evidenze scientifiche. Nasce principalmente – scrive la Corte – per essere applicata da emittenti di titoli e obbligazioni, investitori istituzionali, gestori patrimoniali e altri partecipanti ai mercati finanziari che offrono prodotti finanziari nell’UE, nonché dalle banche centrali. Inoltre, le autorità pubbliche possono utilizzarla per classificare la sostenibilità delle proprie attività”. Anche la nostra testata ha raccontato le difficoltà europee a stabilire una tassonomia precisa, con la spinta delle lobby del gas e del nucleare affinché anche queste attività siano considerate sostenibili. Ma c’è di più.
“L’efficacia della tassonomia dell’UE e dei sistemi di assegnazione dei marchi – riflette l’istituzione comunitaria – dipenderà in larga misura dall’accoglienza che riceveranno, essendo di natura facoltativa, nonché dal fatto che la loro credibilità venga corroborata da un’adeguata verifica. Questi aspetti possono risultare problematici, considerati il numero e la complessità dei criteri della tassonomia dell’UE. In aggiunta, l’esposizione del settore privato ai rischi di sostenibilità e l’impatto delle imprese sull’ambiente e sulla società non saranno chiari finché non diventeranno pienamente applicabili i nuovi obblighi di informativa dell’Ue”. Inoltre “molti dei criteri utilizzati per valutare e monitorare il contributo del bilancio dell’UE agli obiettivi climatici non sono così rigorosi e scientificamente fondati come quelli sviluppati per la tassonomia”.
Applicare in maniera estesa il principio DNSH
Una partita fondamentale per la ripresa post-Covid la giocheranno certamente i Piani nazionali per la ripresa e resilienza. Per finanziare questi Piani la Commissione prevede di raccogliere fino a 250 miliardi di euro attraverso l’emissione di obbligazioni verdi, i cosiddetti green bond. Si tratta di un campo in cui l’Europa vuole giocare un ruolo di primo piano. Eppure, fa notare la Corte, “nonostante la crescita delle emissioni, le obbligazioni verdi rimangono un prodotto finanziario marginale nell’Unione europea”.
D’altra parte “la Corte ha constatato che non viene richiesto in modo uniforme e vincolante a tutte le attività che percepiscono finanziamenti UE di applicare il principio “non arrecare un danno significativo”. Si tratta del criterio più noto con l’acronimo inglese DNSH che però, per esempio, non viene richiesto alla politica agricola comune, che da sola impegna circa il 39% del bilancio europeo. I giudici fanno notare che i “legislatori hanno rinviato a dopo il 31 dicembre 2025 eventuali ulteriori cambiamenti al monitoraggio delle azioni a favore del clima nella politica agricola comune”. Un limite enorme se si vuole provare davvero a limitare l’aumento delle temperature.
Le raccomandazioni della Corte
Alle raccomandazioni la Corte dedica quasi un terzo del proprio report. Anche se, sparse qui e là lungo l’intero documento, ci sono altre osservazioni interessanti. Ad esempio i giudici sostengono che “i fondi pensione, spesso enti quasi pubblici, svolgono un ruolo importante nel mercato della finanza sostenibile. Sono particolarmente in grado di investire importi ingenti in attività a lungo termine. In Svezia il fondo Fjärde AP-Fonden (AP4) è un primo esempio di fondo pensione che persegue una strategia di investimento a basse emissioni di carbonio”.
Per ciascuna raccomandazione, in ogni caso, la Corte ne descrive i dettagli e chiede una tempistica certa:
– Completare le misure del piano d’azione e chiarire le disposizioni in materia di conformità e audit (fine 2022)
– Contribuire meglio a una finanza sostenibile stabilendo un prezzo per le emissioni di gas a effetto serra (fine 2022)
– Riferire in merito ai risultati di InvestEU connessi al clima e all’ambiente (dalla fine del 2022)
– Creare una riserva di progetti sostenibili (fine 2023)
– Applicare il principio “non arrecare un danno significativo” e i criteri della tassonomia dell’UE in modo uniforme all’intero bilancio dell’UE (dal 2022)
– Monitorare e riferire in merito all’attuazione del piano d’azione per la finanza sostenibile e di strategie future (fine 2023)
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