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lunedì, Dicembre 16, 2024

Dal net zero alla riforestazione. L’impresa di riconoscere il greenwashing

Molte aziende vedono la sostenibilità come puro business, altre tentano di nascondere gli impatti climatici sotto il tappeto. Le difficoltà nel verificare i green claim e alcuni casi eclatanti di greenwashing 

Simone Fant
Simone Fant
Simone Fant è giornalista professionista. Ha lavorato per Sky Sport, Mediaset e AIPS (Association internationale de la presse sportive). Si occupa di economia circolare e ambiente collaborando con Economia Circolare.com, Materia Rinnovabile e Life Gate.

Fuorviare il consumatore per convincerlo a comprare un prodotto. O tinteggiare di verde il proprio business model per evitare di affrontare le conseguenze dell’impatto climatico del ciclo produttivo. Tra bollini e certificazioni ambientali, spot accattivanti e termini che evocano la sostenibilità, ogni giorno si fa più complicato riconoscere il greenwashing. Tra promesse di un futuro a emissioni zero (Net zero) e impegni a compensare la propria impronta carbonica, sono tanti gli esempi dichiarazioni ambientali che, per incompletezza o mancanza di prove, non corrispondono alla realtà.

Riconoscere il greenwashing nei messaggi pubblicitari

Una recente revisione di 500 siti web commerciali da parte del governo britannico ha rilevato che il 40% dei claim ambientali è in qualche modo fuorviante. L’uso di termini come “sostenibile” e simili non è accompagnato da informazioni pertinenti e complete sui danni ambientali o su come li si riduce. Un’altra espressione poco chiara è carbon neutral, per esempio, che non significa che un’azienda abbia zero emissioni di carbonio.

L’organizzazione tedesca NewClimate Institute ha analizzato i piani climatici di 25 grandi aziende e ha scoperto che molte di loro hanno sopravvalutato la misura in cui le loro azioni avrebbero ridotto le emissioni di carbonio. Dal report emerge che per quanto riguarda gli obiettivi Net zero, le aziende analizzate si impegnano in media a ridurre le emissioni solo del 40%, non del 100% come implicitamente suggerisce Net zero. Solo 3 aziende – Maersk, Vodafone e Deutsche Telekom – si impegnano verso la decarbonizzazione di oltre il 90% delle emissioni dell’intera catena del valore entro gli anni promessi.

L’anno scorso la compagnia Travelers aveva promesso per la Giornata della Terra di diventare carbon neutral entro il 2030, un obiettivo in linea con l’accordo sul clima di Parigi di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5° C. L’azienda ha dichiarato che l’obiettivo includeva le emissioni generate direttamente dalle sue operazioni (Scope 1) e indirettamente dall’energia acquistata (Scope 3), escludendo però tutte le emissioni generate dalle società in cui Travellers investe o fornisce polizze assicurative.

Come fa notare il Washington Post, più di 20 importanti assicuratori che fanno parte della Net-Zero Insurance Alliance delle Nazioni Unite hanno iniziato a monitorare e segnalare le emissioni di Scope 3 e si sono impegnati a includerle nei loro impegni per raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2050.

La classificazione Scope 3 comprende tutte le emissioni connesse all’attività dell’azienda come le emissioni relative alla mobilità dei dipendenti, alla catena di fornitura, all’utilizzo dei beni prodotti. Nonostante costituiscano la maggior parte delle emissioni della quasi totalità delle compagnie, Scope 3 è spesso l’impronta di carbonio più difficile da misurare. Per questi motivi, i governi e i gruppi che definiscono gli standard non sono d’accordo sul fatto che le aziende debbano essere obbligate a includere queste emissioni tra i target climatici.

Leggi anche: Mai dire ‘sostenibile’ senza un’analisi LCA. Dalla Danimarca una guida per il marketing ambientale

Se a riconoscere il greenwashing è un tribunale

In Italia intanto si registra la prima pronuncia della magistratura ordinaria per dirimere una controversia in materia di greenwashing tra due aziende competitor. Il Tribunale di Gorizia, su ricorso d’urgenza dell’azienda tessile Alcantara, ha riconosciuto che la concorrente Miko responsabile di pubblicità ecologica fuorviante rispetto a una sua particolare microfibra. Claim come “La prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “Riduzione del consumo di energia e delle emissioni di CO2 dell’80%”, “Amica dell’ambiente”, “Scelta naturale” e “Microfibra ecologica”, sono stati ritenuti non verificabili ed ingannevoli. Così, oltre a una pena pecuniaria, Miko ha dovuto interrompere qualsiasi campagna promozionale con questi slogan e pubblicare l’ordinanza sul suo sito. L’ordinanza di primo grado del Tribunale di Gorizia ha applicato le linee guida emanate dalla Commissione Europea della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali del 2016. A marzo scorso, lo stesso Tribunale di Gorizia ha emanato una nuova ordinanza cautelare che accoglie il reclamo presentato dall’azienda Miko. Sulle ragioni di questa nuova pronuncia le due imprese in lite hanno punti di vista divergenti: per Miko è il riconoscimento che la sua comunicazione non ha fatto perdere o rischiare di perdere clienti ad Alcantara, per quest’ultima è solo una pronuncia sulla mancanza del requisito dell’urgenza su cui si fondava il provvedimento cautelare.

Se il “controllo climatico” è un impegno a metà

Spostandoci in Danimarca, “Maiale a controllo climatico” è stata l’etichetta alimentare lanciata dal colosso danese della carne suina Danish Crown. In seguito alle proteste da parte di Greeenpeace e altre Ong, la campagna di marketing si è rivelata un vero flop e così lo scorso anno l’azienda è stata costretta a fare marcia indietro.

Sul sito di Danish Crown si legge che il 100% dei maiali sono climate-controlled, ciò significa che i maiali provengono da uno dei 950 allevamenti danesi che hanno aderito al programma di sostenibilità della Danish Crown, il Climate Track. Gli agricoltori che seguono il Climate Track si impegnano a ridurre la loro impronta di carbonio del 50% entro il 2030. Secondo Greenpeace Danimarca però i calcoli della società non includono tutte le emissioni dal campo alla tavola e delle massicce emissioni derivanti dalla deforestazione.

“Danish Crown ‘macella’ le foreste sudamericane” Foto: pagina Facebook Greenpeace Danimarca

Leggi anche: Analisi LCA: cosa è, a cosa serve e come combatte il greenwashing

I progetti di riforestazione non bastano

Un altro caso danese sulla difficoltà di riconoscere il greenwashing, che ha fatto particolarmente scalpore, riguarda l’impegno per la neutralità carbonica di Alra, azienda che commercializza prodotti lattiero-caseari nota in Italia per il suo burro Lurpak. Sulla base di crediti climatici presumibilmente acquistati in progetti di riforestazione in Brasile e Indonesia, l’azienda si vantava di esser cabon neutral. Ma dalle immagini satellitari non ci sono prove che i progetti di riforestazione possano compensare l’emissioni del colosso lattiero-caseario, come ha dichiarato al giornale danese Politiken Jens Friis Lund, professore all’Università di Copenaghen e ricercatore in progetti di riforestazione.

In Svezia, Il difensore civico dei consumatori europeo (Ombudsman) ha citato in giudizio Arla per la stessa campagna. “Spesso – si legge nel comunicato stampa – è difficile per i consumatori ordinari capire quanto sia dannoso per il clima un determinato prodotto. Il Consumer Ombudsman non crede che Arla riesca a dimostrare che la produzione di latte non abbia impatto sul clima”.

Se anche i ceo riconoscono di fare greenwashing

Un recente sondaggio condotto su 1.491 ceo e alti dirigenti di imprese di tutto il mondo con più di 500 dipendenti ha riscontrato che per il 58% la propria azienda ricorre a pratiche di greenwashing (negli Stati Uniti questa percentuale arriva al 68%), mentre due terzi del campione si chiede se gli sforzi di sostenibilità della loro azienda siano autentici.

Queste risultanze del sondaggio anonimo è stato realizzato da Harris Poll per Google Cloud contrastano con le affermazioni riguardanti l’autovalutazione sulla sostenibilità dell’attività d’impresa (l’80% degli intervistati la ritiene “sopra la media”) e la grande disponibilità (93%) a vincolare le attività agli obiettivi ESG (ambientali, sociali e di governance). La differenza tra la percezione e la pratica concreta, però, trova conferma in un dato: soltanto il 36% dei dirigenti afferma di ricorrere a strumenti di monitoraggio e misurazione dei propri sforzi di sostenibilità.

Una sintesi amara di questo fenomeno la dà una canzone satirica che riscuote un certo successo: Stop the Wash. Il video musicale si apre con la frase: “C’è un sacco di eco-branding là fuori e sembra che gli importi, ma sappiamo solo che stanno facendo il greenwashing”.

Leggi anche: Greenwashing nella moda, le certificazioni alimentano la dipendenza dal fossile

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