[ di Marco Maria Capponi e Marialaura Iazzetti]
I rifiuti non esistono. Da Vesti Solidale con il reinserimento lavorativo delle categorie svantaggiate la sostenibilità parte dalle persone e dà una nuova vita a vestiti, computer e cartucce toner
Sinossi
La cooperativa sociale Vesti Solidale di Cinisello Balsamo recupera quelli che altrimenti sarebbero scarti: vestiti usati, cartucce delle stampanti e rifiuti elettronici. Se non riesce a riutilizzarli nella loro funzione principale, li trasforma in materie prime da rivendere ad altre aziende. Ma la sua missione è duplice: una parte dei lavoratori è composta da tossico dipendenti, disabili, detenuti e migranti, che rigenerando quello che le persone non volevano più riescono a reintegrare se stessi nella società. Uno di loro è Giovanni, che ogni mattina parte all’alba dal carcere di Bollate e dopo più di un’ora sui mezzi raggiunge il magazzino di Vesti Solidale, dove trascorre la sua giornata selezionando le cartucce toner e decidendo quali possono essere riusate e quali no. Forse, non riuscirà mai a tornare in libertà. Ma con i suoi gesti ripetitivi e meccanici, senza rendersene conto, Giovanni chiude il cerchio di una sostenibilità dove la cura dell’ambiente va di pari passo con quella delle persone.
Sono le cinque e mezzo del mattino. Che sia inverno o estate, dalla finestra non entra la luce del sole. Suona la sveglia. Giovanni è ancora stanco per la giornata di lavoro del giorno precedente. Si alza senza fare rumore, cercando di non svegliare le persone che dormono a fianco a lui. Fa colazione velocemente e si lava i denti. La doccia non serve: dal lavoro tornerà più sporco di prima. Si affaccia alle sbarre della sua cella e chiama l’agente di custodia. «Michele, devo uscire. Sennò faccio tardi».
Giovanni è uno dei 900 detenuti del carcere di Bollate. Ha perso la libertà venti anni fa e non sa se riuscirà mai a tornare a vivere con sua moglie. «Forse tra qualche anno», spera. Per adesso, ha ottenuto solo la semilibertà, che gli permette di uscire durante la giornata e tornare in carcere per dormire.
Grazie all’assistente che lo segue, da febbraio Giovanni ha trovato lavoro nella cooperativa sociale Vesti Solidale di Cinisello Balsamo, a nord-est di Milano. Esce alle sei e mezzo del mattino e rientra alle undici di sera. Può farlo perché in Italia lo scopo della pena, anche quando non sembra avere una fine, è il reinserimento dell’individuo nella società. «Alcune persone si scocciano di andare a lavorare, ma io sono felicissimo di avere questa opportunità».
Da via Belgioioso alla sede di Vesti Solidale ci vogliono venti minuti in macchina. Giovanni però preferisce mettere da parte il suo stipendio per la famiglia. Per questo ogni mattina passa cinquanta minuti tra metro e autobus e cammina mezz’ora per raggiungere l’azienda. «Almeno mi mantengo in forma», sorride.
Il suo turno inizia alle otto. Grazie a Vesti Solidale, Giovanni ha imparato un nuovo mestiere: selezionare le cartucce toner delle stampanti e decidere quali possono essere riutilizzate e quali devono finire negli inceneritori. «Prima di arrivare qua non sapevo proprio nulla. Quando vivevo in Svizzera facevo il vetriniere e a Bollate curavo il giardino del carcere. Mi occupavo delle rose. Non sapevo nemmeno cosa fosse un toner. Ma grazie a Midos e agli altri ho imparato subito».
Da quando è nata nel 1998 Vesti Solidale ha due missioni: favorire la sostenibilità ambientale grazie al riuso di materiali elettronici e di vestiti (da cui il nome), e aiutare le persone ai margini della società a reintegrarsi. Oltre a Giovanni, ci sono altri due condannati che sono stati ammessi a misure alternative, quattro tossicodipendenti e 22 disabili fisici o psichici. In totale, le persone che rientrano nelle cosiddette “categorie svantaggiate” rappresentano il 38 per cento della forza lavoro dell’azienda.
Nella cooperativa sociale lavorano anche numerosi migranti che, dopo aver ottenuto il diritto d’asilo e terminato la permanenza nei centri di accoglienza, sono alla ricerca di un impiego. Come Mehat, che adesso coordina lo smaltimento delle cartucce toner: «Lavora con noi da tanti anni», spiega il presidente Matteo Lovatti, «è arrivato dalla Palestina e, nonostante potesse avere la cittadinanza, ha deciso di non diventare italiano a tutti gli effetti. Ha sempre voluto mantenere la sua identità». Mehat ti accoglie nel magazzino come se fosse casa sua: parla, ride e scherza in italiano perfetto. Quando si presenta per metterti a tuo agio dice di chiamarsi Midos. Più facile da pronunciare rispetto a Mehat.
Sotto la sua supervisione e davanti agli occhi di Giovanni passano ogni anno più di 400 tonnellate di cartucce toner, che provengono dalle aziende e dai punti di raccolta rivolti alle pubbliche amministrazioni. Di questa quantità, oltre la metà viene recuperata: 155mila cartucce. Mettendole una a fianco all’altra, la loro lunghezza sarebbe equivalente a 186 piscine olimpioniche. Un primo passo, ma la strada da fare è ancora tanta. In Italia 18 milioni di toner non vengono smaltiti. Le cartucce contengono resina, carbone e polveri chimiche sottili e quando stampano producono selenio e ozono. Sostanze pericolose per l’ambiente ma anche per l’uomo. Sono nocive per chi le respira e i loro polimeri, ossia le catene di molecole che le costituiscono, ci mettono fino a mille anni per decomporsi.
Il problema, però, non è solo nello smaltimento, ma anche nella produzione: per fabbricare una cartuccia servono quattro chili di petrolio e per lavorare un chilo del famigerato oro nero 18 litri di acqua. Trattando nella maniera corretta le cartucce toner, Vesti Solidale può rigenerarle fino a cinque volte o recuperare il ferro e il rame che li compongono. «Vedi? Adesso possono essere rivenduti come materie prime», spiega Midos, mostrando dei barili pieni di granelli di rame, che a prima vista ricordano la sabbia rosa dell’isola di Budelli, nell’arcipelago della Maddalena in Sardegna.
La Cooperativa sociale recupera questi metalli anche dallo smaltimento degli scarti elettronici, i cosiddetti “Raee” (Rifiuti di apparecchiature elettriche o elettroniche). Nel 2018, a livello globale, sono state prodotte circa 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici e ne è stato recuperato appena il 20 per cento. La maggior parte dei computer, smartphone e televisioni che buttiamo compulsivamente vengono abbandonati nelle discariche e diventano materia privilegiata per gli export illegali. «Insieme alla raccolta di indumenti usati recuperare questi rifiuti speciali è la nostra principale attività», dice Lovatti. Nel 2017, infatti, Vesti Solidale è riuscita a rimettere a nuovo 1290 pc. E allo stesso tempo a raccogliere quasi 5mila tonnellate di indumenti, il peso di 90 aerei Ryanair. «Attualmente selezioniamo alcuni vestiti che rivendiamo nei nostri negozi al dettaglio Share. Il resto lo diamo ad aziende specializzate che si occupano di stabilire quali possano essere donati in giro per il mondo. L’obiettivo è arrivare a gestire da soli tutto il processo», continua a spiegare il presidente.
Parlare di sostenibilità, in via Gasparotto a Cinisello Balsamo, significa quindi parlare al tempo stesso di recupero, riuso e di reinserimento delle persone nella comunità. Per fare in modo che questi obiettivi coincidano, bisogna rispettare le regole e i tempi dello smaltimento e insegnare ai dipendenti che devono dare il massimo di se stessi in ogni momento. «Se puoi dare cento, devi dare cento. Se le tue condizioni fisiche o psichiche ti consentono di darmi trenta, io voglio trenta, nulla di meno. Qui si riparte tutti da zero», continua Lovatti. Un principio che vale all’interno di un’azienda, ma che più in generale spiega come rapportarsi in qualsiasi contesto sociale alle persone che vengono considerate “categorie svantaggiate”.
Giovanni a Vesti Solidale non è un detenuto ma un lavoratore. Deve rispettare gli orari e i tempi delle consegne. A lui però questo non pesa. «Per me lavorare non è un problema, basta che riceva quello che mi spetta». Quando racconta le sue esperienze passate, inizia a farfugliare. Ricordare non è piacevole. Tuttavia, appena prende coraggio non ha paura di dire che nei primi anni di semilibertà faceva il fruttivendolo per un’altra cooperativa sociale che spesso non lo pagava. Proprio per questo ha deciso di andarsene. «Qui invece sono tranquillo: ogni mese mi danno quello a cui ho diritto».
Dopo aver preso i toner dal rullo, averli guardati e selezionati per più di cinque ore, Giovanni va in pausa pranzo. Prima di entrare nel solito bar accanto all’azienda si lava le mani e si sciacqua il viso, per scrollarsi via la polvere dopo tante ore in magazzino. Mangiando, come sempre, chiacchiera con Giuseppe. Anche lui è arrivato da poco a Vesti Solidale, appena due mesi fa. Prima è stato disoccupato per sette anni. Ha perso il lavoro quando l’azienda di suo fratello è fallita a causa della crisi che ha messo in ginocchio l’intero sistema produttivo italiano. «Ho fatto vari lavoretti, ma niente di stabile», racconta. Giuseppe ha problemi negli spostamenti da quando, poco prima di compiere otto anni, è stato investito da un tram e ha perso la gamba sinistra. Nonostante la disabilità, ha sempre svolto lavori per cui aveva bisogno di muoversi. Prima era magazziniere, e adesso si occupa di smaltire i rifiuti di apparecchiature elettroniche. Con destrezza e precisione chirurgica, usa il suo cacciavite per smontare vecchi monitor e pc, e poi dispone i vari pezzi in ordine nelle rispettive scatole di raccolta. «Molte aziende non mi assumevano», ricorda, «perché dicevano che la mia condizione mi comportava automaticamente un trattamento speciale. Da Vesti Solidale, invece, mi considerano un lavoratore come tutti gli altri. Proprio quello che sono, perché mi rimbocco le maniche e non faccio pesare il mio problema». Giuseppe e Giovanni forse non si conoscono così tanto bene, provengono da esperienze di vita differenti, ma seduti allo stesso tavolo della stessa mensa si sentono entrambi fortunati. «Qui è proprio bello», spiega Giovanni, «con i capi ci diamo del tu. È diverso dai posti dove lavoravo prima».
Giovanni ha cambiato mestiere, ma la sua routine è sempre la stessa. Quando finisce il turno di lavoro, alle quattro del pomeriggio, prende il treno interurbano, la metro e va a casa da sua moglie. Un’ora di tragitto per 240 minuti da condividere. Alle otto Michele lo aspetta all’ingresso del carcere di Bollate.
Il vetriniere cerca di non essere mai in ritardo, anche se tornare in cella vuol dire rimanere ancora una volta solo con i suoi pensieri e i suoi ricordi. «Quello che ho fatto è un pezzo della mia vita, e non potrò mai dimenticarlo». Ogni mattina, però, dalle otto in poi ha qualcos’altro a cui pensare. Qualcuno deve mettere a posto i toner. Anche se non è consapevole, mentre rigenera se stesso, Giovanni chiude il cerchio di una sostenibilità che parte dalle persone per arrivare all’ambiente. Alle cinque e mezzo spegne la sveglia e si alza, in punta di piedi.