Il suo volto è dipinto o tratteggiato su molti Matatu che girano per Nairobi, i pulmini affollati ed economici che fungono da servizi pubblici nelle grandi città kenyane. Sono minivan dai colori sgargianti, nonostante alcune norme recenti li vorrebbero più sobri. E fra ritratti di cantanti, personaggi dei fumetti, un Cristo risorto e uno slogan politico, c’è anche lei: Wangari Muta Maathai, meglio nota come la signora degli alberi.
Maathai, nata il 1° aprile del 1940 a Ihithe, un villaggio nella zona degli altipiani centrali del Kenya, è stata la prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace nel 2004 con una significativa motivazione: “La pace nel mondo dipende dalla difesa dell’ambiente”, in linea con quanto dichiarato da Maathai stessa nello stesso anno: “Tutte le guerre si sono combattute e si combattono per accaparrarsi le risorse naturali che stanno diventando sempre più scarse in tutto il globo. Se veramente ci impegnassimo a gestire queste risorse in modo sostenibile, il numero dei conflitti armati diminuirebbe di certo. Preoccuparsi per la protezione dell’ambiente e lottare per l’armonia ecologica sono modi diretti di salvaguardare la pace”.
Prima del Nobel, era stata anche la prima donna centroafricana a laurearsi nel 1966 in biologia negli Stati Uniti, dopo aver avuto accesso ad una borsa di studio con un programma voluto da Kennedy, per poi specializzarsi anche in zoologia e veterinaria.
Con le donne delle zone rurali del Kenya
Nel 1976 entra nel Consiglio nazionale delle donne del Kenya, di cui sarà anche presidente e nel 1977 fonda il Green Belt Movement (GBM), divenuto poi Ong, “per rispondere alle esigenze delle donne keniote rurali che avevano riferito che i loro torrenti si stavano prosciugando, la loro fornitura di cibo era meno sicura, e dovevano camminare sempre di più per ottenere legna da ardere come combustibile e per le recinzioni”, si legge nella storia del movimento, che diviene il punto di riferimento dell’ambientalismo africano e delle battaglie contro la desertificazione del continente.
Maathai ha già chiaro in quegli anni che “le persone stanno morendo di fame. Hanno bisogno di cibo; hanno bisogno di medicine; hanno bisogno di educazione. Non hanno bisogno di un grattacielo per ospitare il partito al governo e di una stazione televisiva aperta 24 ore al giorno”, e anche per questo nei primi anni Novanta si fece portavoce della protesta contro il progetto di costruzione di un grattacielo di 60 piani nel Parco di Uhuru.
Già dai primi anni Ottanta aveva avviato una capillare azione di sensibilizzazione, invitava le donne a lavorare insieme per coltivare piantine e piantare alberi perché amava ripetere che non era affatto difficile, perché “chiunque può scavare una buca e piantare un albero. Ma assicurati che sopravviva. Devi nutrirlo, devi annaffiarlo, devi tenerlo fino a quando non si radica in modo che possa prendersi cura di sé stesso. Ci sono così tanti nemici degli alberi”.
Lei e le centinaia di donne che si unirono al GBM iniziarono a piantare moltissime specie autoctone negli stessi anni in cui Daniel Toroitich arap Moi diventava presidente del Kenya instaurando un regime autoritario e repressivo con politiche di vendita delle risorse naturali kenyane, l’abbattimento di parti di foreste pluviali – per interessi corrotti e non certo per la salute delle piante – e allontanando il più possibile le donne dalla politica. Maathai diventerà nel 2002 Ministra dell’Ambiente, Fauna e Risorse Naturali, con il successivo presidente Mwai Kibaki, consapevole dello sforzo immane che avrebbe dovuto fare per raggiungere i suoi obiettivi.
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La carriera accademica
In un articolo del 2007 pubblicato sul The Globalist, ricorda così l’avvio della sua carriera anche accademica: “Quando cominciai ad insegnare erano tutti maschi, e trovavano difficile credere che io avessi le qualifiche per istruirli in anatomia. Dopotutto ero una donna, e non ancora trentenne, perciò non ero tanto più anziana di loro. Non è stato sempre facile maneggiare le punzecchiature dei miei studenti o dei miei colleghi maschi: questi ultimi facevano quasi sempre la stessa domanda: ‘Ma davvero hai una specializzazione in biologia?’. Dubitavano delle mie capacità, ma allo stesso tempo sapevano che avevo più qualifiche di loro. Per quanto riguarda gli studenti, in breve tempo videro che un brutto voto preso da me contava quanto uno preso da uno dei miei colleghi maschi, e questo era un linguaggio che capivano benissimo. Ciò che mi disturbava, all’Università, era la discriminazione che le mie colleghe ed io subivamo.
“L’Università – prosegue – accordava i suoi pieni benefici solo agli uomini. Una donna nubile o vedova dello staff professionale poteva ricevere l’alloggio universitario come i maschi, ma dalle donne sposate ci si aspettava che a questo provvedessero i loro mariti, e che perciò non avessero bisogno di alloggi, né di copertura assicurativa e pensione. Io litigai con la dirigenza, perché la situazione era inaccettabile ed i termini del servizio dovevano essere eguali. Le professioniste, dissi, non dovrebbero essere discriminate solo perché durante il periodo coloniale qui non ce n’erano. Assieme ad altre chiesi spiegazioni, ma i funzionari scrollarono le spalle: ‘Siete sposate’, ci dissero. ‘Dovete avere il salario di base e basta, perché il resto che serve agli uomini a voi non serve. I vostri mariti ottengono gli altri benefici sul loro posto di lavoro e voi dovreste servirvi di essi. Se non lo fate, peggio per voi’. Fummo oltraggiate da tanta arroganza, e da uomini che rifiutavano di accettare che una donna potesse svolgere una professione a proprio pieno diritto: ‘Be’, mio marito non mi aiuta ad insegnare’, risposi loro, suonando metaforicamente l’allarme per indicare che non avrei abbandonato la lotta”.
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50 milioni di alberi
Piuttosto che abbandonare la lotta, Maathai accetta la richiesta di divorzio dal marito che le rimprovera di non occuparsi come dovrebbe dei figli e della famiglia, e non si arrenderà neanche quando verrà più volte incarcerata, minacciata, attaccata anche solo per essere donna. Non mollerà la presa, forte anche del fatto che il suo progetto aveva messo radici salde: dalla fondazione il Green Belt Movement conta oltre 4mila gruppi composti al 70 per cento da donne, sono stati piantati circa 50 milioni di alberi ed è diventato un modello per altri paesi africani e nel resto del mondo.
Nel 2006, insieme a Jody Williams, Shirin Ebadi, Rigoberta Menchù Tum, Betty Williams e Mairead Corrigan Maguire, ha fondato anche la Nobel Women’s Initiative per connettere i temi ambientali a quelli sulla parità di genere in tutti i campi, la lotta alla violenza di genere e per i diritti di ragazze e donne.
Maathai è morta, per un tumore, a 71 anni. Nel ricordarla, ii semiologo e saggista italiano Daniele Barbieri, scrisse: “Arokoma kuuraga – che tu possa dormire là dove piove – è l’augurio tradizionale del popolo keniota a una persona morta. Nel suo libro Solo il vento mi piegherà Wangari Maathai aggiunse: ‘per me quel luogo è intriso di rugiada, perciò è verde. Forse il paradiso è verde’ “.
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