Hanno un sito ben fatto, un’instancabile energia e anche il nome è molto accattivante. Si occupano di economia circolare dal 2016, e hanno scelto di specializzarsi nell’eccedenza alimentare. “Non salviamo il mondo ma insieme possiamo provarci” è il loro slogan. Loro sono i Foodbusters, ovvero gli acchiappacibo: recuperano le eccedenze alimentari – provienenti da eventi come matrimoni, feste di laurea, compleanni e meeting aziendali – e le distribuiscono a chi ne ha bisogno. Portano poi il cibo raccolto, seguendo tutte le regole igenico sanitarie, ad enti caritatevoli o case famiglia, comunque a chi ne ha bisogno. Ogni raccolta viene poi seguita direttamente online, fino al momento della consegna. Sottrarre cibo allo spreco diventa in questo modo un esempio virtuoso di eco-sostenibilità: il potenziale rifiuto diventa una risorsa che sfama, offrendo un’occasione di reintegro sociale e che crea valore etico. Nati quattro anni fa dall’idea di Diego Ciarloni e della moglie Simona, i Foodbuster sono diventati presto una realtà, trasformandosi in un’associazione che oggi conta una decina di affiliati.
“Per noi la pratica è tutto – afferma Diego Ciarloni – Quando iniziamo un percorso abbiamo il coraggio di dire che il periodo iniziale ci serve per sbagliare. Quindi soltanto capendo le criticità si possono creare relazioni e percorsi virtuosi, come nel caso dell’economia circolare. E’ quello che fanno i pionieri. Senza questa consapevolezza l’economia circolare non può andare lontano”. Nel campo dell’eccedenza alimentare questo discorso è ancora più sensato: il settore è pieno di start-up, associazioni e app, che nascono e muoiono nel giro di breve tempo. Gli stereotipi poi fanno ancora fatica a essere superati, come quello che vuole che il cibo raccolto sia di scarsa qualità o che sia semplicemente lo scarto. “E’ lo stesso cibo che la gente ordina su JustEat e le altre aziende simili – dice Diego – L’unica differenza è che in quel caso ti arriva il cibo che hai ordinato, con noi c’è la sorpresa. Ma è di maggiore qualità. Si parla di cibo da matrimonio, per cui succede spesso che poi se si supera l’iniziale diffidenza si mangia qualcosa che raramente ci si può permettere”. Per saperne di più abbiamo perciò deciso di intervistare Diego.
Come è cambiato il recupero alimentare ai tempi del Covid?
Il cambiamento è stato radicale. Noi ci occupiamo della raccolta di eccedenze alimentare negli eventi, quindi matrimoni e battesimi, e si può immaginare che questi sono stati azzerati. Fino a ottobre abbiamo assistito a qualche cerimonia, e lì si è andato avanti come se nulla fosse; parlo sia delle cucine che degli invitati. Noi invece eravamo super coperti e accorti, tra visiere e guanti e igienizzanti. Avevamo chiesto di avviare altri tipi di collaborazioni, come il sostegno alle mense sociali, ma questi sono rimasti lettera morta. Le famiglie in difficoltà sono sempre di più, le eccedenze che potrebbero essere utili ci sono ma senza una reale organizzazione si perde tutto. Si parla di cibo buono, attenzione.
Che numeri facevate prima della pandemia?
Ogni anno abbiamo aumentato le quote di eccedenze raccolte. Nel 2019 avevamo fatto un’ottantina di matrimoni, e siamo andati oltre le Marche, arrivando in Abruzzo, in Emilia Romagna e persino in Sicilia. Quest’anno avremo fatto meno di dieci matrimoni. Avevamo poi una serie di altre iniziative, come il recupero dei dolci natalizi, e anche quest’anno non lo faremo. Andavamo spesso nelle scuole, mentre quest’anno l’attività di sensibilizzazione la facciamo da remoto. Dagli enti locali abbiamo poi riscontrato una bassissima attenzione, tanto che come associazione ci siamo rivolti alla possibilità di destinarci il 5×1000. Non abbiamo neanche una sede, siamo ospitati da un’altra associazione in una piccola stanza. Ed essendo volontari non prendiamo neanche un euro.
Dalla tua analisi viene fuori l’importanza di un’organizzazione più attenta nella filiera del recupero alimentare, o sbaglio? E’ tutta da costruire o esiste già qualcosa di positivo?
L’esigenza di una maggiore organizzazione c’era già ben prima della pandemia. Noi non siamo un ente caritatevole, siamo un’associazione che lotta contro lo spreco, eppure siamo stati contattati da molte famiglie in difficoltà. Abbiamo fatto la nostra parte, siamo andati oltre la nostra missione, sarebbe stato fondamentale strutturarsi per tempo. Al di là delle belle parole poi nei territori si fa difficoltà a far passare il concetto del recupero delle eccedenze.
Una mancanza che riguarda la parte istituzionale o anche i privati?
Per quanto riguarda i privati mi riferisco alle attività commerciali come i supermercati. Ad esempio Lidl qui nelle Marche ha attivato una raccolta di cibo. Per il resto racconto il mio caso: ho richiesto un appuntamento a tante catene di supermercati e sono stato ricevuto soltanto da una catena locale, e comunque è finita lì. La nostra idea è realizzare uno studio empirico sull’eccedenza: un progetto di collaborazione con l’università delle Marche, o Economia o Agraria, per indagare in maniera sistemica i numeri e le realtà. Quando i numeri ci sono, poi, spesso non si capisce esattamente da dove provengono e in ogni caso sono, almeno per la nostra esperienza, troppo ottimistici. Il nostro sogno è attivare associazioni, enti locali e università per creare poi opportunità di lavoro.
Come si può interpretare questa mancanza di coordinamento? Perché la sensibilità sembra esserci, almeno nelle dichiarazioni, ma poi manca appunto la capacità di agire in maniera collettiva.
Dietro il recupero c’è un mondo da scardinare. Sull’economia circolare stanno fioccando ad esempio corsi di studio, per formare figure specifiche. Però non posso negare di aver notato una sorta di indifferenza su chi poi opera nel territorio. Magari non sembra una fotografia particolarmente incoraggiante, ma tant’è. Faccio un esempio recente: abbiamo partecipato al progetto RiEsco, della regione Marche, che ha stanziato 848mila euro durante la prima ondata della pandemia per sostenere il terzo settore. A noi sono arrivati, dopo una mobilitazione costante, appena quattromila euro. E per giunta con quei soldi siamo stati obbligati ad affittare mezzi e oggetti per garantire la sicurezza dei prodotti. Mezzi e oggetti che abbiamo già, mentre noi avremmo altre esigenze.
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