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domenica, Dicembre 15, 2024

Con Armadioverde i vestiti tornano in circolo in un click

Da una semplice esigenza (disfarsi dei vestiti di un bambino) nasce Armadioverde, uno store di abiti di seconda mano, che oggi conta più di 750mila iscritti e movimenta ogni giorno 6mila capi in entrata e in uscita. Un'idea semplice che fa tornare di moda ciò che era destinato a restare inutilizzato

Sara Dellabella
Sara Dellabella
Giornalista freelance. Attualmente collabora con Agi e scrive di politica ed economia per L'Espresso. In passato, è stata collaboratrice di Panorama.it e Il Fatto quotidiano. È autrice dell'ebook “L'altra faccia della Calabria, viaggio nelle navi dei veleni” (edizioni Quintadicopertina) che ha vinto il premio Piersanti Mattarella nel 2015; nel 2018 è co-autrice insieme a Romana Ranucci del saggio "Fake Republic, la satira politica ai tempi di Twitter" (edizione Ponte Sisto).

“Spesso il nostro usato è nuovo. Tutti abbiamo nell’armadio dei capi che abbiamo indossato solo poche volte”: così David Erba, CEO e co-fondatore di armadioverde, spiega il successo del suo marketplace di abiti usati. L’idea è nata nel 2015 quando, diventato papà, si è trovato con un armadio pieno di vestiti per bambino oramai inutilizzati e la voglia di rimetterli a disposizione.

Con un autofinanziamento è partito armadioverde, nato principalmente per dare una seconda vita ai vestiti per bambini. “Poi le mamme, che sono le nostre clienti, una volta testata la bontà del servizio ci hanno chiesto di poter inviare anche i loro vestiti. Così è avvenuto il salto” spiega Erba.

Partiti con un magazzino di 100 metri quadri, oggi il centro logistico di Genova si estende su una superficie di 2.800 metri quadrati su due livelli. “Un’impresa dà lavoro a 50 persone, anche se sul piano di sviluppo qualcuno si limitò a scrivere 4 assunzioni in cinque anni”, ride oggi Erba che con il nuovo round di investimento ha trasformato l’azienda in società benefit, un vanto per chi ha fatto della circolarità una mission, tanto da essere inserita nell’Atlante Italiano dell’Economia Circolare.

Come funziona?

Chi si iscrive al sito riceve subito un credito di stelline con cui fare acquisti sul portale, aggiungendo piccole somme in euro. In più l’utente ha la possibilità di liberarsi in un click degli abiti che non usa più senza spese di spedizione. Inoltre armadioverde paga il ritiro dell’abbigliamento, occupandosi della selezione del prodotto, delle fotografie e del controllo di qualità. Sul sito ogni capo in vendita è accompagnato da una scheda che ne descrive lo stato, le misure ed eventuali piccoli difetti (come ad esempio fili tirati o altri) con il prezzo in stelline e euro. E quello che non è adatto per essere messo in commercio o viene restituito oppure finisce a un’organizzazione che si occupa di raccolta di abiti usati per progetti sociali. Oggi il centro logistico ospita 270mila articoli e ne movimenta circa 6mila al giorno tra quelli che entrano e escono.

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“Lavoriamo molto sull’effetto WOW! – racconta ancora Erba – ci sono tanti accorgimenti e cura dalla confezione delle scatole che sono in cartone riciclato, alla piegatura dei vestiti che sono confezionati nella carta velina. Ci dicono che neppure nei negozi ci sia tanta cura. All’inizio tutti hanno la percezione di non avere nulla da dare, ma poi tutti iniziano a liberarsi delle cose che non si utilizzano più. Si tratta di un processo veloce e fluido”.

L’identikit dell’acquirente

L’hanno chiamata Arianna. Ha tra i 25 e i 40 anni. Vive in città e usa i strumenti digitali. Non è un’estremista ambientalista ma sa che la questione ambientale è qualcosa su cui bisogna ragionare.

Quelli di armadioverde descrivono così l’utente media del sito. Spesso si tratta di una giovane mamma che si è approcciata al marketplace per i vestiti dei bambini e poi ne è rimasta folgorata. E in effetti, in pochi anni di attività il portale conta più di 750mila iscritti che movimentano in media 40 capi ciascuno, ogni anno.

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Dalle istituzioni poca fiducia per chi innova

“Siamo partiti in un momento in cui il mercato non era così florido. Le start up in generale hanno bisogno di un sostegno per evitare che le difficoltà possano metterle in ginocchio”. Così Erba risponde alla domanda se e quali difficoltà abbia trovato in questa storia di successo imprenditoriale. “Le start up soprattutto all’inizio vivono di sperimentazioni, di capitali che vengono bruciati. Perché ci vuole tempo, prove sul mercato. Diciamo che per questo motivo, soprattutto quando si lavora su cose che portano un beneficio per la comunità, le istituzioni dovrebbero guardarci con occhi diversi. Trovo che ci sia poca attenzione su chi prova a innovare in questo paese e spesso rispetto agli altri parte svantaggiato”.

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Ma l’approccio di David Erba resta positivo anche nel pieno di una crisi pandemica perché secondo questo imprenditore è stata l’opportunità per molti di riflettere anche sui temi ambientali e cominciare a ragionare in maniera seria sulla sostenibilità. “Il 2020 è stato un anno terribile per molti, ma ha cambiato la percezione delle cose, e noi abbiamo persino assunto”.

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