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venerdì, Novembre 15, 2024

Il mondo spreca un terzo del cibo che produce. Italia tra i più virtuosi nella prevenzione

Tanto il lavoro ancora da fare per raggiungere l’obiettivo di dimezzare lo spreco pro capite come indicato dall’Agenda 2030 dell’ONU. Molti sprechi arrivano da noi consumatori

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Lo spreco alimentare è subdolo, nasconde la sua vera portata. O meglio la “incorpora” tenendocela nascosta. Secondo la FAO ogni anno si perde o si spreca 1/3 di tutto il cibo prodotto sul pianeta. Ma la questione non riguarda solo il cibo che finisce in discarica. Con la nostra bistecca andata a male, infatti, finisce in discarica anche un terzo di tutta l’acqua utilizzata per produrre cibo – secondo Water footprint network, ad esempio, la produzione animale mondiale richiede oltre 2 mila miliardi di metri cubi di acqua all’anno. E ancora secondo la FAO gli sprechi alimentari legati alla sola agricoltura sono responsabili della dispersione di 253 Km3 di acqua potabile. Col nostro pane secco finisce nella pattumiera anche un terzo dell’energia impiegata per pompare l’acqua sui campi, di quella per la lavorazione e il trasporto dei prodotti: tutto in discarica. Il WWF ci ricorda che il 90% della deforestazione globale è dovuta all’espansione dei terreni agricoli a discapito di altri usi del suolo. Bene, un terzo di questa espansione è servito a produrre le portate che abbiamo gettato nel bidone della spazzatura. Gli scarti alimentari, quando finiscono in discarica, fermentano e producono metano (potere climalterante 20 volte maggiore della CO2): la Commissione europea ha stimato che il 3% del totale dei gas climalteranti continentali viene proprio dalla fermentazione nelle discariche. E secondo la FAO il 6% delle emissioni di gas serra globali sono legate allo scarto alimentare. “Se la perdita e lo spreco di cibo fosse un paese, sarebbe la terza più grande fonte di emissioni di gas serra al mondo”, scrive Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP (United Nations Environment Programme) nell’introduzione del Food Waste Index Report 2021, presentato nel marzo dello scorso anno. Per non dire di tutti i pesticidi che avremmo potuto non disperdere nell’ambiente.

In occasione Giornata nazionale dedicata alla prevenzione, vi accompagniamo in un viaggio nel mondo dello spreco alimentare.

Quanto cibo sprechiamo?

Innanzitutto è necessario fare una distinzione. La FAO propone una diversa classificazione a seconda del punto della filiera in cui avviene lo spreco. La perdita alimentare (food loss), secondo la definizione della Food and Agricolture Organization, è lo spreco lungo i primi anelli della catena (produzione, raccolta, stoccaggio e lavorazione) dei prodotti per il consumo umano. Lo spreco (food waste) si verifica invece negli ultimi anelli, a livello del commercio e del consumo.

Secondo il Food Loss Index della FAO (dati riferiti al 2016) sul pianeta, nelle fasi che vanno dalla produzione fino alla vendita al dettaglio esclusa, si perde il 13,8% degli alimenti prodotti per l’uomo. Con una variabilità geografica che passa dal 20,7% dell’Asia centrale al 15,5% statunitense ed europeo al 5,8 dell’Australia. E un valore economico di 400 miliardi di dollari in fumo ogni anno.

Il Food Waste Index Report dell’UNEP, in modo complementare rispetto alla FAO, si concentra sulle fasi della filiera successive alla produzione primaria (appunto waste e non loss): quindi sugli scarti che si verificano a livello domestico, di ristorazione e di vendita al dettaglio. L’UNEP stima lo spreco di cibo attorno al 17% della produzione alimentare globale. 931 milioni di tonnellate ogni anno (dati relativi al 2019): il 61% proviene dalle famiglie (74 kg pro capite l’anno), il 26% dalla ristorazione (32 kg pro capite/anno) e il 13% dalla vendita al dettaglio (15 kg). Quasi 570 milioni di tonnellate di questi rifiuti hanno origine a livello domestico.

Differenze geografiche più che di reddito

Fino alla pubblicazione dell’ultimo report dell’UNEP si riteneva ci fosse una differenza, nella produzione di scarti, tra Paesi industrializzati e Paesi a basso reddito. Mentre nei primi la maggioranza dei rifiuti alimentari ha origine nelle fasi di retail e soprattutto di consumo, ed è quindi legato principalmente al ruolo del consumatore, nei Paesi a reddito più basso, questo era l’assunto, la maggior parte degli scarti avviene nelle prime fasi della catena alimentare, soprattutto per la mancanza di tecnologie e strumenti per una produzione e una conservazione efficiente. Solo una parte minoritaria arriva dai consumatori.

UNEP ha invece smentito questa tesi nono sostenuta da dati sufficientemente solidi. Mediamente ad ogni essere umano corrispondono 74 chilogrammi l’anno di rifiuti alimentari “senza grandi differenze, come invece si credeva in precedenza, tra Paesi a reddito medio-basso ai Paesi ad alto reddito”, spiega il report: “Le stime precedenti dello spreco alimentare dei consumatori ne sottovalutavano significativamente la portata. Sebbene i dati non consentano un solido confronto nel tempo, lo spreco alimentare a livello di consumatore (domestico e ristorazione) sembra essere più del doppio della precedente stima FAO”.

Dunque “non è vero che nei Paesi in via di sviluppo non si spreca, anzi, è emerso uno spreco rilevate nella fase di consumo”, commenta Clara Cicatiello, docente del Dipartimento per l’Innovazione dei sistemi biologici, agroalimentari e forestali (DIBAF) dell’Università della Tuscia, ricercatrice i cui studi sulla grande distribuzione sono riconosciuti altamente affidabili dall’UNEP: “Questo è stato forse il risultato più clamoroso del report. Probabilmente dovuto ad una ‘occidentalizzazione’ dei consumi: man mano che i Paesi crescono a livello economico tendono ad imitare stili di consumo insostenibili come in nostri”.

E questa occidentalizzazione non sembra destinata a ridursi. Secondo Boston Consulting Group, da qui a 8 anni gli sprechi alimentari aumenteranno del 40%: nel 2030, stima l’istituto di consulenza statunitense, getteremo via oltre 2 miliardi di tonnellate di cibo all’anno, per un valore di 1,5 trilioni di dollari.

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Italia sulla buona strada…

E l’Italia? Se l’obiettivo è ridurre questa impressionante quantità di cibo che diventa rifiuto, il nostro Paese pare sulla strada giusta. Ce lo dicono diversi studi. Abbiamo già citato il Food Waste Index Report dell’UNEP, “raccolta, analisi e modellazione dei dati sui rifiuti alimentari più completi fino ad oggi, con una nuova stima dello spreco alimentare globale”, precisa il programma delle Nazioni unite. “Questo report – chiarisce Cicatiello – considera solo il food waste, quindi dalla fase di distribuzione in poi. Questo perché ha lo scopo di verificare a che punto siamo con il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile SDG 12.3, che fissa come target la riduzione del 50% del food waste solo in queste fasi (vedi oltre, ndr). Al contrario, di altri report, come quelli della FAO o del Joint Research Centre, che considerano l’intera filiera”.

Secondo l’UNEP, lo spreco alimentare in Italia relativo alle fasi finali della filiera raggiunge (2019) i 4 milioni di tonnellate (67 chilogrammi a testa ogni anno). Un risultato migliore di quello di Paesi come Gran Bretagna (5,2 milioni di tonnellate, 77 kg pro capite), Spagna (3,6 milioni di tonnellate, 77 kg pro capite) della Francia (5,5 milioni e 85 kg pro capite) e Germania (6,2 milioni di tonnellate totali, 74 chilogrammi pro capite/anno). Fanno invece meglio dell’Italia, ad esempio, Paesi come l’Olanda (50 kg pro capite), Belgio (50), Austria (39) e Irlanda (55). Dobbiamo ricordare però che l’UNEP attribuisce alle diverse fonti dati diversi livelli di accuratezza.

Secondo il rapporto Il caso Italia 2022 dell’Osservatorio Waste Watcher International, diffuso ieri per iniziativa della campagna spreco Zero di Last Minute Market e dell’Università di Bologna, su monitoraggio Ipsos, lo spreco alimentare domestico vale in Italia 31 chilogrammi annui a testa. Il 15% in più del 2021: “I dati 2022 – sottolinea Luca Falasconi, coordinatore del Rapporto e docente all’Università di Bologna – evidenziano che in questa fase di ‘uscita’ dalla pandemia gli italiani hanno ripreso a porre un po’ meno attenzione al cibo, visto che lo spreco è leggermente aumentato, e che sono consapevoli che i due anni del virus hanno manifestato sull’ambiente più effetti negativi che positivi”. Il totale dello spreco casalingo in Italia, secondo l’Osservatorio, arriva a 1,8 milioni di tonnellate. E se includiamo tutta la filiera – produzione / distribuzione / commercio – superiamo i 5 milioni di tonnellate.

L’Italia, leggiamo ancora nello studio Waste Watcher International, coi sui 595,3 grammi pro capite a settimana,  “resta comunque la nazione più virtuosa nel ‘G8’ dello spreco, che vede i russi a quota 672 grammi settimanali, gli spagnoli a 836 grammi e quindi i cittadini inglesi con 949 g, i tedeschi con 1.081 g, i canadesi con 1.144 g, sono i cinesi con 1.153 grammi e in fondo i cittadini statunitensi che ‘auto-denunciano’ lo spreco di 1.453 grammi di cibo settimanali”, sottolinea l’agroeconomista Andrea Segre’, fondatore della campagna spreco Zero e della Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare.

Italia sulla buona strada… oppure no?

Il diavolo sta nella metodologia, verrebbe di dire leggendo il recente studio del Centro comune di ricerca (Joint Research Centre – JRC) che, a differenza di quanto detto finora, ci racconta di un’Italia piuttosto sprecona. “Il problema – ci dice Cicatiello – spesso è sui metodi di valutazione: a seconda della metodologia usata il risultato cambia anche di molto”.

Lo spreco italiano lungo tutta la filiera (dalla produzione al consumo) negli ultimi 18 anni è superiore a quello di tutti gli altri singoli Paesi, spiega il JRC: 14,3 milioni di tonnellate nel solo 2017, mentre in Spagna sono state 13,1, in Germania 12,4, in Francia 10,9.

Food waste along supply chain (mass balanca approach)_spreco alimentare
EU Bioeconomy Monitoring System dashboards (JRC) – Food waste along supply chain – all food supply chain stages (thusand tonnes)EU Bioeconomy Monitoring System dashboards (JRC) – Food waste along supply chain – all food supply chain stages (thusand tonnes)

EU Bioeconomy Monitoring System dashboards (JRC) – Food waste along supply chain – all food supply chain stages (thusand tonnes)“Il JRC – racconta Cicatiello – ha effettuato una stima secondo la material flow analysis, ovvero pensando la filiera alimentare come fosse tubo dell’acqua. Misurando quello che entra e quello che arriva al consumo, si presume che tutto quello che manca sia stato sprecato”.

Come mai questo dato in forte contrasto con gli altri? “Una parte dei dati impiegati dal JRC li abbiamo forniti noi – racconta Falasconi –. Dati che poi sono stati armonizzati a quelli degli altri Paesi europei – sulle modalità abbiamo chiesto informazioni, senza ancora riceverle – arrivando ad un aumento considerevole”. È vero, riflette ancora il ricercatore dell’Università di Bologna, che “i dati sullo spreco domestico partono dai nostri rilevamenti effettuati coi diari consegnati alle famiglie e da queste compilati. JRC stabilisce giustamente che nel diario ci sia una sottostima del dato effettivo rispetto a quanto effettivamente finisce nella pattumiera: compilando i diari si tende ad auto-assolversi o vergognarsi. Da piccole indagini effettuate avevamo calcolato circa un 25-30% in più nel bidone. JRC invece ha aumentato le nostre rilevazioni di almeno il 60-70%”.

Inoltre, osserva Cicatiello, “in Italia si è cominciato a quantificare il food waste molto prima che in altri Paesi, e in modo più accurato. Dobbiamo considerare che già nel 2014 avevamo un Piano Nazionale di Prevenzione degli Sprechi Alimentari (PINPAS), e nel 2016 una legge specifica contro gli sprechi (legge Gadda, vedi oltre, ndr). Al contrario, in molti altri Paesi questo sforzo è molto più recente e i dati sono quindi con ogni probabilità meno accurati”.

Il ruolo dei consumatori

Secondo ENEP e JRC, parte importante dello spreco complessivo avviane nelle nostre case. Come in Italia così in tutti i Paesi europei, ci spiga Cicatiello.

Quasi il 70% degli scarti alimentari (68,6%, JRC) in Italia arriva dal consumo (ma vedi le osservazioni metodologiche fatte in precedenza) , il 6,8% circa dalla distribuzione, il 12% dalla trasformazione, il 12,7% dalla produzione primaria.

Sulle motivazioni di questa ripartizione degli sprechi lungo gli anello della filiera, Cicatiello osserva che “c’è un modo totalmente diverso di gestire il cibo nelle diverse fasi. Fino alla distribuzione e alla ristorazione si osserva una gestione improntata all’efficienza economica. In casa invece la gestione risponde piuttosto a bisogni familiari, abitudini, comportamenti che non sempre hanno a che vedere con questioni economiche”.

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I costi dello spreco alimentare e la questione dei dati 

I costi associati allo spreco alimentare per l’UE-28 sono stati stimati dal progetto europeo Fusion (Food Use for Social Innovation by Optimising Waste Prevention Strategies) in circa 143 miliardi di euro (dati relativi al 2012). Due terzi dei quali sono associati agli sprechi alimentari delle famiglie (circa 98 miliardi di euro). Secondo l’Osservatorio Waste Watcher International il solo spreco domestico in Italia ha valore economico stimato attorno ai 7,4 miliardi di euro. E se includiamo tutta la filiera arriviamo a 10 miliardi di euro l’anno.

Le stime sugli sprechi di cibo a livello globale fanno leva su dati non sofficienti e non sufficientemente solidi. La FAO scrive di dati “limitati”. Idem l’UNEP: “La disponibilità globale di dati sui rifiuti alimentari è attualmente scarsa, e gli approcci di misurazione sono molto variabili”. Dopo aver sostenuto che “ci sono ancora grandi lacune nelle stime nazionali della perdita di cibo e rifiuti”, il rapporto del programma ambientale dell’ONU identifica, infatti, soli 17 paesi, tra cui l’Italia, con dati di qualità medio alta compatibili con la rendicontazione dell’0biettivo 12.3 degli SDGs (Sustainable Development Goals) dell’ONU. Conferma Falasconi: “I dati mancano e mancheranno, si tratterà di riempire le diverse caselle ancora vuote nel corso del tempo”.

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Cosa gettano gli italiani e come vivono lo spreco

Quali sono i prodotti alimentari che riempiono le pattumiere tricolori? L’indagine 2022 Waste Watcher spiega che in questa hit svetta la frutta fresca (27%), seguita da cipolle aglio e tuberi (17%), pane fresco (16%), verdure (16%) e insalata (15%).

Ma qual è la prima valutazione dello spreco alimentare fatta dai consumatori italiani? In cima alle nostre preoccupazioni c’è lo spreco di denaro, vissuto come aspetto più grave da oltre 8 italiani su 10 (83%). La gestione oculata del cibo va quindi di pari passo con quella del bilancio familiare, ma si riflette anche sull’effetto diseducativo per i giovani (83%), sull’immoralità intrinseca dello spreco alimentare (80%) e delle risorse (78%) e sull’inquinamento ambientale (76%).

“Vorrei porre l’accento anche su un altro aspetto che chiamerei ‘stanchezza tecnologica’”, spiega ancora Falasconi: “Nella lotta agli sprechi, l’utilizzo delle App e di dispositivi di supporto agli elettrodomestici e dispense di casa non è ancora visto a larga maggioranza come strumento di riferimento nella lotta allo spreco. Meno del 10% dichiara di utilizzarli o di considerarli strumenti utili nella gestione antispreco del cibo. Si prediligono i consolidati strumenti di economia domestica. Oserei dire, la rivincita della tradizione sulla tecnologia”.

Le cause dello spreco alimentare al consumo

Se il consumo è la fase “più sprecona” dalla catena agroalimentare, quali sono le cause? Una prima ragione è che davanti al cibo molti di noi faticano a limitarsi ed acquistare in base alle effettive necessità e possibilità di consumo. Un’altra ragione è la volontà di ottimizzare il numero di volte che si fa la spesa, col rischio che per paura di mettere poco nel carrello, alla fine mettiamo troppo.  C’è poi la perdita delle competenze utili a valorizzare gli avanzi domestici, quelle che invece caratterizzavano la vita alimentare e culinaria dei nostri nonni. Un altro dei motivi dello spreco è, come EconomiaCircolare.com ha raccontato, la mancata comprensione delle indicazioni “da consumarsi preferibilmente entro” (da riferire alla qualità organolettica dell’alimento) e “da consumarsi entro” (relativa alla sua sicurezza) riportate nelle etichette.

Al market, poi, tendenzialmente scegliamo prodotti alimentari con una scadenza il più possibile lontana del tempo, e scartiamo quelli con minore vita residua: scelta che produce un aumentando la quantità di merce invenduta e quindi di sprechi. Altro fattore generatore di scarti è l’estetica: è forte la convinzione, spesso non cosciente, che la rispondenza dei prodotti a canoni estetico-alimentari diffusi corrisponda a maggiore qualità. E quello che non è ‘bello’ nessuno lo compra.

Alcuni dati su questo fronte arrivano dal citato lavoro dell’Osservatorio Waste Watcher International: un italiano su 2 (47%) ammette di scordare spesso il cibo acquistato, il 46% sostiene che il cibo era reduce dal frigorifero dei negozi e a casa è deperito in fretta. Un italiano su 3 (30%) confessa di calcolare male le quantità di cibo che servono in casa, ma anche (33%) di essere preoccupato di non avere abbastanza cibo a casa, quindi di esagerare negli acquisti. Puntando lo sguardo sulle tipologie “sprecone” spicca certamente la categoria dei single in Italia, vera maglia nera del fenomeno con il 50% in più di cibo sperperato – in particolare frutta e insalata – rispetto alle famiglie numerose.

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Le iniziative istituzionali contro lo spreco alimentare

Come accennato, uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU (il 12esimo) è dedicato alla riduzione degli sprechi: in particolare il target 12.3 mira a dimezzare lo spreco pro capite globale di rifiuti alimentari (food waste) e ridurre le perdite di cibo nella produzione (food loss). Obiettivo fatto proprio dalla strategia europea Farm to Fork, tanto che la Commissione proporrà entro 2023 obiettivi giuridicamente vincolanti per la riduzione degli sprechi alimentari.

Nel 2015 la Commissione europea ha adottato il Piano d’Azione per l’Economia Circolare che indica, tra i suoi obietti, proprio la riduzione dello spreco alimentare. Sulla scorta del Piano, nel 2016 nasce la Piattaforma dell’UE sulle perdite e gli sprechi alimentari che riunisce istituzioni, esperti, organizzazioni per definire le misure necessarie alla prevenzione dello spreco alimentare e per alimentare la condivisione delle buone pratiche.

Per monitorare e valutare l’attuazione delle misure di prevenzione, la Direttiva quadro sui rifiuti (2008/98/CE) ha fissato l’obbligo di comunicazione annuale, a partire dal 30 giugno di quest’anno, dei dati relativi alla produzione di rifiuti alimentari. Eurostat ha anche stabilito metodologie comuni da adottare. Spiega Cicatiello: “A livello di consumo sono due le metodologie ufficiali. La prima consiste nel distribuire alle famiglie dei diari in cui annotare gli sprechi. L’altra – più affidabile – guarda direttamente nella spazzatura”. Quindi il citato problema della comparabilità dei dati, a livello Europeo, “sarà presto superato perché a metà di quest’anno tutti i Paesi UE saranno tenuti a consegnare alla Commissione le stime ufficiali sugli sprechi alimentari, specificando la metodologia usata, e quindi rendendo questi dati comparabili”.

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In Italia, nel giugno del 2014 è stato pubblicato il PINPAS (Piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari) con una serie di azioni da mettere in campo: dalle iniziative di formazione (ad esempio sulle date di scadenza dei prodotti) e comunicazione all’istituzione della Banca dati online sulle buone pratiche, da un premio nazionale alla messa a punto con Istat di modalità uniformi per l’acquisizione di dati,  fino ad un fondo nazionale per la ricerca scientifica nel campo delle perdite e degli sprechi. Il Piano conteneva poi la richiesta di semplificazioni nelle normative che regolano le donazioni degli alimenti invenduti; e l’indicazione di introdurre criteri premianti obbligatori all’interno dei bandi di gara pubblici (GPP) relativi ai servizi di catering e ristorazione collettiva per chi attua misure di prevenzione degli sprechi alimentari (redistribuzione delle eccedenze alimentari). La legge n. 166/2016 (“legge Gadda”) dà attuazione a una delle misure indicate dal PINPAS: ha previsto infatti una serie di misure per incentivare la redistribuzione delle eccedenze di cibo (e farmaci) per finalità di solidarietà sociale, tramite semplificazioni burocratiche, sgravi fiscali e bonus per i donatori.

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