Il comparto alimentare rischia di andare incontro a una fase di “stagflazione”. Un temutissimo termine economico per indicare un periodo in cui, alla stagnazione, si affianca un’elevata inflazione. Si è tornati a parlarne a causa degli aumenti dei prezzi dell’energia e delle materie prime agricole, nei giorni successivi all’invasione russa dell’Ucraina. Una volta innescata la stagflazione, gli effetti sono a cascata: in primo luogo sull’aumento del tasso di disoccupazione.
Il risultato è che, dall’inizio della guerra, l’olio di semi di girasole è schizzato in alto del 19 per cento. Il prezzo delle farine di grano tenero ha registrato un più 33 per cento (da 313 a 417 euro per tonnellata), quello delle farine di grano duro un aumento più contenuto del 2 per cento (da 515 a 525 euro per tonnellata). Il mais rincari del 41 per cento in un mese (da 287 a 405 euro per tonnellata).
A rendere ancora più insopportabile la situazione è il contesto bellico in cui tutto sta avvenendo. La guerra è sempre occasione di ricchezza per alcuni. Non più con la borsa nera, come avveniva nel Dopoguerra: ma con la Borsa, la finanza globale. Dietro ai prezzi delle “commodities agricole” schizzati verso l’alto, non c’era, infatti, il dramma del conflitto in corso, ma speculazioni.
Quanto grano e mais producono Ucraina e Russia
L’Ucraina è conosciuta come il “granaio d’Europa”. Lo sanno bene gli storici: la Germania nazista riversò il suo potere militare e di orrore verso Est anche perché voleva assicurarsene le risorse alimentari e scongiurare l’incubo della Prima Guerra Mondiale, quando le città tedesche si trovarono rapidamente strette nella morsa della fame.
Ancora oggi, un decimo del grano tenero e il 13 per cento del mais nel mondo proviene dall’Ucraina: solo i Paesi europei importano da qui più della metà del loro fabbisogno di mais. Un flusso del valore di 27 miliardi di dollari. Quasi tutto attraverso il porto di Odessa, bloccato dal conflitto con la Russia. Che peraltro controlla l’altro 19 per cento delle esportazioni mondiali di grano tenero.
A cui si aggiungono gli oli vegetali (quasi il 50 per centro di importazioni a livello Ue dall’Ucraina: con la Russia si arriva all’80 per cento della fornitura mondiale) e i concimi, soprattutto da parte della Russia, che produce più di 50 milioni di tonnellate di fertilizzati all’anno, il 13 per cento del totale mondiale ed ha bloccato l’export in seguito alle sanzioni.
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Non c’è penuria di frumento e mais a causa della guerra
Tuttavia, la stessa Ucraina ha assicurato di essere in grado di “salvare” almeno il 70 per cento del raccolto e di farlo arrivare in Europa attraverso la rete ferroviaria, nonostante possa permettersi di muovere circa 500.000 tonnellate al mese rispetto ai 5 milioni via nave. Peraltro l’Unione europea copre solo il 15 per cento dell’importazione totale di cereali con forniture dall’Ucraina e un modesto 5 per cento con quelle dalla Russia (dati Sciences Po). E anche per le colture proteaginose di provenienza ucraina, utilizzate per i mangimi, a livello europeo l’import oscilla tra il 4 e l’8 per cento.
Non sono numeri che indicano una dipendenza dall’Est Europa. In ogni caso, la produzione mondiale di Stati Uniti (mais e frumento), Australia (frumento), Brasile (mais) sarebbe comunque sufficiente a colmare le mancanze, peraltro nei diversi periodi dell’anno, visto l’ottimo raccolto dell’Australia. Certo, quando ci si sposta in altri mercati lontani ci sono costi aggiuntivi legati alla logistica.
“Se però non c’è carenza nell’offerta o una crescita della domanda, qualsiasi aumento di prezzo paragonabile ai livelli visti negli ultimi giorni è totalmente ingiustificato”, afferma con decisione Antonio Onorati, attivista per le questioni legate al cibo e l’agricoltura e per anni presidente del Centro internazionale Crocevia: “E guardando alle riserve immagazzinati nei silos non vi è alcun elemento di preoccupazione”.
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L’Italia è tra i Paesi meno esposti all’export ucraino
Questo è tanto più vero per nazioni come l’Italia, poco esposte all’export con l’Ucraina. In Italia, in base ai dati Istat del 2021, arriva dal Paese in guerra appena il 2,7 per cento delle importazioni di grano tenero per la panificazione (122.000 tonnellate) e zero di grano duro, sebbene altre 72.000 tonnellate tra grano duro e tenero siano importate dalla Russia. A questo va aggiunto il 20 per cento di mais acquistato dall’Ucraina (secondo fornitore per l’Italia dopo l’Ungheria), per un totale di 785 milioni di chili.
Più in generale, secondo ISMEA, l’Italia nel 2020 si posizionava al decimo posto tra i Paesi importatori di prodotti agraoalimentari dall’Ucraina. Il fatturato dei nostri acquisti è di 496 milioni di euro, pari al 3 per cento dell’export agroalimentare ucraino. Numeri poco rilevanti. “È più un’esposizione dovuta a scelte delle singole imprese, in particolare zootecniche, ma non ha nulla a che vedere con il sistema agroalimentare italiano: anzi l’Italia è il secondo fornitore estero di cibo dell’Ucraina dopo la Polonia, con una quota del 7 per cento, pari a 415 milioni di euro”, fa notare Onorati.
Peraltro l’esposizione è “facilmente sostituibile da altri mercati”, come ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli: Francia e Germania per il grano tenero, Stati Uniti e Canada per altre colture. Nel caso dei fertilizzanti, all’Italia mancheranno per le prossime semine 136 milioni di chili di concime acquistati dall’Ucraina (che ha bloccato le esportazioni per timore di una crisi alimentare) e 171 milioni di chili in arrivo dalla Russia (soggetta a sanzioni): ma si tratta del 15 per cento delle importazioni e si pensa di colmarle rivolgendosi all’Argentina.
Il mercato internazionale e l’aumento dei prezzi durante la guerra
Diverso il caso di altri Paesi in via di sviluppo dell’Africa settentrionale, dell’Asia e del Medio Oriente, totalmente dipendenti dall’Ucraina e dalla Russia: Libia, Yemen, Siria, Egitto, Libano. “Per loro il contraccolpo sarà durissimo, perché dovranno rivolgersi al mercato internazionale, dove i prezzi nel mentre sono saliti alle stelle”, spiega Onorati. La Fao ha ventilato la possibilità di una crisi alimentare di enormi dimensioni, con annessi rischi di instabilità politica in Stati “polveriera”.
Certo, in parte è inevitabile un aumento dei prezzi in seguito ad eventi catastrofici in un mercato globalizzato. Dal punto di vista dell’economia reale ci sono conseguenze immediate di una guerra, se ad esempio si distruggono fattorie e silos, si blocca la semina e si uccide il bestiame. Mentre gli aumenti del prezzo dell’energia rendono più caro il trasporto e la lavorazione industriale. Incertezze dell’economia reale che “innervosiscono” i mercati finanziari, perché gli investitori non sanno come comportarsi.
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Dietro la “fiammata” dei prezzi non c’è la guerra ma solo la speculazione
Tranne alcuni, con ingenti risorse a disposizione: fondi speculativi, banche d’affari e grandi squali della finanza, che cominciano a speculare al rialzo o al ribasso. In questo caso, al rialzo. I prezzi delle commodities agricole scambiate nel mercato internazionale sono, infatti, decisi soprattutto dalle contrattazioni nella Borsa di Chicago e nella sede parigina di Euronext, che raggruppa le Borse europee.
Spiega Onorati: “Il mercato è caratterizzato soprattutto da contratti ‘future’, che obbligano il possessore a consegnare una determinata quantità di beni entro una certa data di scadenza. Il fatto è che le operazioni non sempre sono legate alla reale disponibilità del bene da parte del possessore del titolo – aggiunge l’attivista – ma i contratti passano di mano in mano pagando una differenza, che rappresenta il guadagno di chi vende. Perfetto per dare vita ad operazioni meramente speculative”.
Ebbene: il valore del future per consegna a tre mesi sul grano tenero a Chicago è balzato dal 31 gennaio 2022, quando quotava 798,40 dollari sui massimi e la crisi Ucraina-Russia appariva ancora reversibile, ai 1.134,6 dollari del 3 marzo scorso, quando le operazioni militari erano cominciate: un aumento del 42,1 per cento in due mesi. Questi valori, influenzati da operazioni speculative, condizionano però anche gli scambi commerciali dell’economia reale, diventando una sorta di punto di riferimento.
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Alla fine tutti pagano un prezzo più alto per mais e grano
C’è un dato, però, ed è particolarmente indicativo su come funzioni il mercato internazionale di cereali: “È vero – spiega Onorati – l’export di cereali di Ucraina e Russia rappresenta il 18 per cento del mercato globale: ma solo il 17 per cento del totale dei cereali prodotti nel mondo viene scambiato sul mercato internazionale e solo un quarto della produzione di grano viene commercializzato su scala diversa da quella regionale”.
In conclusione: da un lato non c’è carenza per giustificare l’aumento dei prezzi; dall’altro “il valore di una piccola porzione del totale delle materie prime agricole in commercio influenza l’intero mercato mondiale”, spiega Onorati: “E alla fine, chi acquista l’ultimo contratto perché vuole davvero il mais, lo paga a un prezzo fissato in maniera speculativa verso l’alto attraverso una negoziazione puramente finanziaria”.
Sono questi gli aspetti che dovrebbero destare preoccupazione. Con conseguenze persino su Paesi come l’Italia, che pagheranno un conto più salato nonostante siano meno esposti alla crisi ucraina. “Perché il pasticcere italiano deve pagare per l’aumento del prezzo del grano già immagazzinato nei silos italiani?”, si chiede Onorati. Una domanda semplice, ma senza risposta in un mercato dove c’è una tale distanza dall’economia reale e un controllo così forte sulla catena del valore da parte di pochi attori.
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