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venerdì, Novembre 15, 2024

Quanti dubbi dietro quel cassonetto giallo

Raccolte parallele e non tracciabili, smaltimenti ed export illegali: la relazione della Commissione ecomafie descrive l’infiltrazione del malaffare e della criminalità organizzata nella filiera degli abiti usati

Sara Dellabella
Sara Dellabella
Giornalista freelance. Attualmente collabora con Agi e scrive di politica ed economia per L'Espresso. In passato, è stata collaboratrice di Panorama.it e Il Fatto quotidiano. È autrice dell'ebook “L'altra faccia della Calabria, viaggio nelle navi dei veleni” (edizioni Quintadicopertina) che ha vinto il premio Piersanti Mattarella nel 2015; nel 2018 è co-autrice insieme a Romana Ranucci del saggio "Fake Republic, la satira politica ai tempi di Twitter" (edizione Ponte Sisto).

Gli abiti usati, le cinture, le borse che non usiamo più, spesso li buttiamo in quei cassonetti gialli sparsi nelle vie delle nostre città., magari pensando che i nostri vecchi vestiti possano andare a chi è in difficoltà, magari con l’aiuto della Caritas o di qualche altra cooperativa benefica. Ecco non è così, o non va sempre così. La beneficenza non c’entra quasi mai coi raccoglitori stradali, che sono gestiti per guadagnare legittimamente dalla vendita di abiti ed accessori di seconda mano. Ma spesso dietro tutto questo si nascondono traffici illeciti, tanto che la Commissione parlamentare di Inchiesta sulle attività illecite legate al ciclo dei rifiuti (Commissione ecomafie) ha dedicato al tema dei rifiuti tessili una relazione di 158 pagine.

Il ciclo del tessile usato in Italia

Roma, Milano, Napoli, Torino, Brescia, Bologna sono le città dove si raccolgono più abiti usati. Complici il tenore di vita più alto, una maggiore sensibilità ambientale e una rete capillare di raccolta. Nell’anno 2019, la produzione di abiti ed accessori usati in Italia è stata pari a 157.703 tonnellate. Attraverso l’analisi dei dati forniti da ISPRA, per il medesimo anno, è emerso che di questo quantitativo oltre 43.200 tonnellate sono transitate nella disponibilità di 31 onlus su buona parte del territorio nazionale ed in particolare in quelle Regioni ove risulta più elevata la quantità raccolta (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania). Nel panorama degli abiti usati le realtà associative di questa natura risultano alquanto ricorrenti e molto attive. Si tratta di aggregazioni di differente natura, da quelle strutturate ad altre più contenute, sia in termini di organizzazione e logistica, sia con riguardo alle potenzialità d’impresa esprimibili. Sovente queste realtà attraggono ed impiegano manovalanza proveniente da aree e situazioni di disagio quali ex detenuti, ex tossicodipendenti, immigrati o altri soggetti in condizione di fragilità. Ma dietro le onlus non di rado si celano interessi illegali. È un problema che riguarda tutti i Comuni italiani. Tanto che il Comune di Bologna ha chiesto a Hera, municipalizzata del servizio rifiuti di alzare i controlli, a partire dai bandi che devono avere tra i requisiti “la tracciabilità della filiera”.

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Non è tutta Caritas

Vesti Solidale Società Cooperativa Sociale Onlus, Co.Sa Coop. Soc. Arl – Onlus, La Fraternità Società Coop. Arl Onlus, Humana People To People Italia Soc. Coop. A Rl, Ambiente Solidale Soc. Coop. Soc. Onlus, La Solidale Coop. Sociale, Spazio Aperto Soc. Coop. Sociale, Nuova Coop Soc. Coccapani Onlus sono tra le realtà più attive nella raccolta dei rifiuti tessili, delle 100 mappate da ISPRA. Molte nei loro siti riportano il logo della Caritas, che spesso appare anche nei contenitori stradali ispirando fiducia ai cittadini.

Ma cosa c’entra la Caritas? Caritas è stata chiamata in commissione a chiarire il proprio ruolo nella raccolta degli abiti usati. “Ci sono Caritas diocesane che hanno scelto di non avere alcuna attività riferita agli indumenti usati raccolti tramite i cassonetti gialli, orientando eventuali donazioni da privati esclusivamente sul livello parrocchiale – hanno spiegato gli auditi in commissione -. Un secondo gruppo riguarda Caritas diocesane che utilizzano abiti non soltanto usati ma anche nuovi, conferiti sempre come donazioni in parrocchie o servizi. Anche in questo caso emergono delle problematiche di gestione di donazioni consistenti ad esempio in caso di emergenza. Sono prodotti in eccesso oppure indumenti che non rispondono al bisogno. Accade infatti di ricevere donazioni in stock ad esempio di abiti da sposa per chiusure di attività oppure lotti di indumenti e calzature che provengono da sequestri, ma magari sono stock di calzature numero 46 mentre invece nelle famiglie ci sono anche dei minori, o addirittura prodotti inutilizzabili che le imprese incaricate della gestione dei rifiuti non sono sempre disposte a ritirare”. L’ultimo gruppo, hanno proseguito gli auditi, riguarda Caritas diocesane “che collaborano con un proprio strumento operativo, tipicamente un’associazione o una cooperativa sociale di cui hanno promosso la costituzione, oppure con cooperative sociali già presenti sul territorio, per la raccolta di indumenti sul territorio diocesano attraverso i tipici raccoglitori gialli e in base ad accordi specifici, il conferimento degli indumenti raccolti da queste imprese prevede la corresponsione di una royalty periodica la Caritas diocesana”.

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Il Mercato degli stracci, origine di un fenomeno

Nel territorio nazionale esistono robusti canali della seconda mano. Questi ultimi raggiungono il consumatore finale spesso mediante la formula della vendita “conto terzi” attraverso una rete di circa 3.000 punti vendita diffusi in tutto il paese, che offrono servizi di esposizione e intermediazione tra privati oppure grazie alla vendita ambulante dove gli operatori ambulanti specializzati in vestiti usati oscillano tra le 4000 e le 6000 unità e si approvvigionano, in gran parte, dall’output degli impianti o dalle raccolte caritatevoli, come quelle organizzate dalle Caritas diocesane.

Queste filiere hanno una storia complessa, che affonda le proprie origini nel “mercato degli stracci” nato dopo la seconda guerra mondiale con le importazioni di abiti usati americani in particolare nell’area di Resina, nome dell’attuale città di Ercolano. Già verso la fine del secondo conflitto mondiale, si svilupparono numerose iniziative promosse da cittadini originari di Resina ma trapiantati da tempo negli U.S.A. i quali, attraverso l’Arcidiocesi cattolica di New York, s’impegnarono in una campagna per la raccolta di vestiario per l’Italia. Arrivarono così in Italia le prime grosse balle di indumenti inviati sia da privati che da organizzazioni cattoliche. Quelle prime grosse balle di indumenti costituirono una fonte di lucro per molti individui intraprendenti, che gettarono le basi per il “mercato degli stracci” destinato a fare di Resina il centro del commercio al minuto dell’usato. Col passare degli anni, il mercato dei panni usati andò via via consolidandosi e affermandosi.  stato calcolato che i tre quarti della popolazione attiva fossero occupati allora nel commercio dei panni vecchi e nelle attività collaterali. La situazione non è cambiate e oggi la Campania è leader nel settore degli abiti usati ed accessori movimentati nel recupero, nell’importazione, nell’esportazione e nella distribuzione. La stessa Regione è anche punto di riferimento per molti commercianti ambulanti provenienti da tutta l’Italia.

Campania leader anche dei traffici

Non ci sono dubbi sull’infiltrazione del malaffare e della criminalità organizzata in questa filiera. Spiega la Commissione: “Nel settore si manifestano fenomeni di intimidazione, i delitti ambientali continuano a essere all’ordine del giorno a fronte di modalità cangianti e in continua evoluzione: alla tradizionale “terra dei fuochi”, costituita da roghi tossici nelle campagne campane, si stanno sostituendo l’accumulazione delle balle di indumenti in magazzini che poi vengono abbandonati e, sempre di più, la spedizione all’estero di frazioni mendacemente dichiarate come recuperabili che poi vengono illecitamente smaltite in Africa, Asia e America Latina”.

Vista l’abbondanza e fiutato l’affare, la camorra non ha mancato di farsi sentire varcando anche i confini della Regione Campania nel momento in cui alcuni esponenti dei clan sono stati inviati in altre Regioni italiane a seguito dell’applicazione di misure quali l’obbligo di dimora. “In questi territori ha preso vita e si è sviluppato conseguentemente il fenomeno della nascita di vere e proprie ‘succursali’ dei clan a cui gli esponenti allontanati erano originariamente legati. – si legge nella relazione – È il caso, ad esempio, della Toscana ed in particolare della provincia di Prato dove negli anni ’90 vennero trasferiti obbligatoriamente alcuni esponenti della Camorra. In poco tempo il territorio del pratese è stato interessato dalla presenza di aziende incontrovertibilmente legate a famiglie camorriste ed impegnate nella gestione, anche illecita, degli abiti usati. Si è, in conseguenza, creato un corridoio diretto tra la Campania e la Toscana”.

Negli ultimi anni, inoltre, lo scenario appare aver subito una modificazione assumendo una nuova impronta territoriale. Difatti l’epicentro campano, almeno in termini quantitativi, sembra essersi spostato dalla provincia di Napoli a quella di Caserta. L’attenzione della criminalità organizzata verso il potenziale di lucro dato dalla gestione degli indumenti usati sarebbe in crescita, secondo la Commissione, anche in vista dei fondi PNRR e delle risorse che verranno allocate dai sistemi di responsabilità estesa del produttore.

Ma le inchieste più recenti hanno mostrato come non siano solo i clan campani a occuparsi degli stracci: il business aveva interessato anche Salvatore Buzzi, leader delle cooperative romane, coinvolto nell’inchiesta Mondo di Mezzo (Mafia Capitale).

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Raccolte parallele

Cassonetti ‘fake’ grazie ai quali drenare abiti usati al mercato legittimo e dirottarli verso quello illegale. Secondo la Commissione sono numerosi i casi di “allocazione abusiva di cassonetti per la raccolta”. Gli abiti, gli accessori e le scarpe così raccolti non vengono tracciati né rendicontati: pur essendo di fatto rifiuti, non vengono gestiti come tali ma avviati su mercati paralleli ed illegali. Una stima prudenziale, effettuata nel 2014, valutava in circa 4000 i cassonetti abusivi su tutto il territorio nazionale.  Il fenomeno, tuttavia, è diffuso soprattutto nel Nord Italia.

Le linee guida dell’Anci

Essendo sempre più pervasiva la presenza delle organizzazioni criminali nelle realtà che si occupano della raccolta e smaltimento dei rifiuti tessili, l’Anci, che riunisce i Comuni italiani ha proposto la costituzione di un albo di operatori qualificati a ricevere i flussi della raccolta, e la seconda redigendo e pubblicando delle “Linee guida per l’affidamento della gestione dei rifiuti tessili” che offrono un approfondito pacchetto di criteri e soluzioni concrete per tutte le stazioni appaltanti che volessero garantire la perfetta liceità delle filiere degli indumenti usati che si alimentano dalle raccolte urbane e suggerendo i controlli antimafia sulle ditte che partecipano agli appalti e l’importanza della collaborazione tra enti locali e Agenzia delle Dogane in grado di intercettare container carichi di rifiuti tessili a fronte di bolle regolari.

Dal cassonetto stradale in poi, quindi, la commissione mostra come la filiera dei rifiuti tessili      è attraversata da diverse crepe in Italia. Intanto, bisognerebbe partire dalla consapevolezza che conferire abiti usati non è un’opera di beneficienza anche se sul cassonetto giallo compare il logo di qualche associazione, ma è conferimento di rifiuti al cento per cento. A volte con interessi criminali in campo. Una consapevolezza diffusa può essere utile per i cittadini e per gli operatori istituzionali a farsi parte attiva di una filiera pulita che vada sempre più estromettendo i clan e le finte associazioni dai bandi di gara. Quello che nel frattempo si può fare per invertire veramente la rotta è tornare alle vecchie abitudini, meno fast fashion e più capi di qualità, durevoli nel tempo. Insomma, riscoprire il piacere del “vestito buono”.

© Riproduzione riservata

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