Lo scorso 11 febbraio è stata la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Un momento per celebrare tutte coloro che si sono dedicate alla scienza e al progresso della conoscenza e della comprensione umana come studentesse, ricercatrici e professioniste ma anche per accendere i riflettori sui problemi legati ad una strutturale carenza delle donne nel settore, frutto di una forma mentis dura a morire e di condizioni che da anni influenzano e plasmano il futuro professionale di molte ragazze.
Perché la riflessione non resti relegata ad un appuntamento annuale, è necessario tornare sulla questione per meglio comprendere il fenomeno e le implicazioni che sta avendo e potrebbe avere – oltre che sull’occasione mancata di cogliere le potenzialità di ognuno e ognuna di noi – sulla ricerca scientifica e ambientale, e quindi sul nostro Pianeta.
Dati in Italia e nel mondo
Negli ultimi anni sentiamo associare sempre più spesso le donne all’acronimo Stem, dall’inglese Science, technology, engineering and mathematics, ovvero il campo scientifico-tecnologico e i relativi corsi di studio; il fil rouge che li lega, e che troviamo in articoli, riviste di settore e report, è però purtroppo una distanza che fatica a colmarsi.
A livello globale, le donne e le ragazze rappresentano oggi solo il 35% degli studenti Stem. Nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la percentuale scende ad appena il 3%. “Questo dato – ha dichiarato Sima Bahous, direttrice esecutiva di UN Women – riflette la discriminazione subita da donne e ragazze in tutto il mondo, in particolare per le donne e le ragazze più emarginate, come le indigene e afro-discendenti, le donne con disabilità, le donne delle aree rurali, le donne anziane, le comunità LGBTIQ+ e le adolescenti. Il fenomeno inizia nei primi anni di vita e viene plasmato e rafforzato da stereotipi e norme di genere. Queste possono essere comprese nei programmi di studio, nei libri di testo e nelle pratiche di insegnamento e apprendimento. Le scelte imposte a scuola alle ragazze condizionano le loro carriere e, da adulte, le opportunità di lavoro”.
In Italia, secondo i dati Istat relativi al 2020 e pubblicati lo scorso maggio, solo l’8% delle ragazze si iscrivono alle facoltà dell’area Stem, contro il 30,3% dei ragazzi.
Il soffitto di cristallo
A pesare ulteriormente è il fatto che nonostante le donne siano più brillanti negli studi rispetto ai loro colleghi, – in Italia, ad esempio, nel 2020 le donne costituiscono quasi il 60% dei laureati e, secondo i dati AlmaLaurea, dimostrano migliori performance pre-universitarie e universitarie – difficilmente ricoprono ruoli apicali nei settori della tecnologia e della scienza.
In un’intervista rilasciata al podcast Resources Radio Neha Khanna, professoressa di Economia alla Binghamton University, ha commentato il suo ultimo studio, realizzato insieme a Nick Kuminoff e al suo team di ricerca, in cui sono stati elaborati nuovi dati riguardo la diversità e l’inclusione all’interno dell’Association of Environmental and Resource Economics (AERE), – l’Associazione degli economisti dell’ambiente e delle risorse che attualmente conta più di 1000 membri, – con particolare attenzione all’appartenenza all’associazione e alla pubblicazione sulla rivista più importante dell’associazione, il Journal of the Association of Environmental and Resource Economists (JAERE).
“La quota di donne nell’AERE – ha detto Khanna – è rimasta costante dal 2000. La quota è di circa il 30%, una percentuale quasi identica a quella delle donne che ricevono un dottorato di ricerca in economia presso gli istituti di istruzione superiore negli Stati Uniti”.
“L’aspetto sorprendente – prosegue – è che questa quota di circa il 30% è quasi il doppio della percentuale di donne che ricoprono posizioni di docenza di ruolo negli Stati Uniti, che si aggira intorno al 16%. Inoltre, tra le donne docenti, la stragrande maggioranza si trova ai livelli più bassi, come assistente o associata. Poche sono quelle che raggiungono il grado di ordinaria. Il fatto che ci sia una maggiore diversità di genere nei gradi più bassi riflette forse i recenti sforzi per migliorare la diversità all’interno della professione, che considero un fatto molto positivo”.
“Allo stesso modo, se guardiamo alla percentuale di autrici che pubblicano sulla rivista di punta dell’AERE, che abbiamo avviato nel 2014, – precisa – è di circa il 16-18%, circa la metà della percentuale di donne che fanno parte dell’associazione. Se torniamo indietro alla nostra precedente rivista del 1990, che era il Journal of Environmental Economics and Management, la percentuale è la stessa”.
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Una questione di rappresentazione
In un gioco degli specchi: l’oggi influenza il domani. Nel definire il proprio futuro la presenza di modelli di riferimento è fondamentale: guardare al settore della scienza e della tecnologia e trovare così poche donne, soprattutto nelle posizioni apicali, rende difficile immaginare un futuro per sé.
Nello studio si può notare, però, che le donne sono ben rappresentate nella leadership dell’AERE, dove la loro quota varia dal 30 al 70% nei due decenni tra il 2000 e il 2020. Sembra un risultato che va in controtendenza rispetto a quanto detto finora ma ci sono due aspetti da tenere in considerazione: il primo è che, in questo caso, parliamo di un numero ristretto di leader, circa 10-11 persone, quindi il cambiamento di una sola persona può portare a un’enorme variazione percentuale. Inoltre, forse non casualmente, si tratta di posizioni volontarie e non retribuite.
In generale però secondo Khanna: “questa sovrarappresentazione delle donne nella leadership è tipica della professione economica. Non è una caratteristica esclusiva dell’economia ambientale, ma implica che le donne abbiano una quota sproporzionata di responsabilità amministrative. Non possiamo dire se ciò sia dovuto al fatto che le donne sono particolarmente adatte a questi ruoli o perché sono più generose nel donare il loro tempo alla professione. Potrebbe essere l’uno o l’altro. Non l’abbiamo ancora analizzato. Se si tratta della seconda ipotesi, è possibile che ciò avvenga a scapito del loro stesso sviluppo professionale. Questo è un aspetto che dobbiamo ancora analizzare”.
“In termini di distribuzione delle responsabilità, – aggiunge – le donne hanno un carico maggiore di responsabilità amministrative nelle associazioni professionali, ma sono meno rappresentate nelle cariche di prestigio accademico, come i gradi più alti della facoltà o la paternità delle riviste più prestigiose”.
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L’unica donna nella stanza
Anche per quanto riguarda i settori della tecnica e dell’ingegneria, la percentuale di donne è inferiore a quella del 2018 (come si osserva nel grafico).
Le donne che ricoprono ruoli in questi ambiti hanno il doppio delle probabilità rispetto alle donne in generale di dichiarare, a lavoro, di essere più frequentemente l’unica donna nella stanza. In particolare, secondo Women in the Workplace 2022, il Rapporto sull’occupazione femminile curato da McKinsey e Lean In, ben il 32% delle donne che ricoprono ruoli tecnici e ingegneristici è spesso l’unica donna nella stanza sul luogo di lavoro.
È da considerare che i ruoli tecnici e ingegneristici sono tra quelli in più rapida crescita e con le più alte retribuzioni, dunque questo incide anche sul divario nelle retribuzioni tra donne e uomini. Sono inoltre posizioni lavorative che avranno un’importanza cruciale nella transizione ecologica, che potrebbe portare entro il 2050 a 60milioni di nuovi posti di lavoro: è perciò doveroso adoperarsi affinché a beneficiare delle opportunità date dai green jobs siano tutte e tutti.
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Che cosa si può e si deve fare
“Le iniziative esistenti si sono dimostrate inadeguate. – l’affondo di Sima Bahous, Direttrice esecutiva di UN Women – Il cambiamento per le ragazze nella scienza richiede un cambio di paradigma, un impegno per programmi e iniziative sostenibili e a lungo termine che riconoscano le barriere strutturali e lavorino per rimuoverle. Deve abbracciare la riforma dell’istruzione, con nuovi programmi di studio che promuovano la curiosità delle bambine per le scoperte scientifiche fin dalla più tenera età, includendo le materie scientifiche e tecnologiche durante la scuola primaria”.
Le giovani donne devono trovare, insomma, spazio e accoglienza all’interno di un sistema incrostato da secoli tra pregiudizi e stereotipi. Per fare questo sono diversi i programmi che in Italia e nel mondo si stanno attivando per dare nuove possibilità alle ragazze. Tra questi, Chicas en Tecnología, un’organizzazione no-profit che opera in Argentina e in America Latina e che cerca di ridurre il divario di genere nell’ambito tecnologico.
L’altro lato delle medaglia di dare alle donne lo spazio che meritano è infatti quello della sicurezza e di nuove prospettive per altre professioniste, in un circolo virtuoso. Il nostro, inutile negarlo, è un sistema ancora ideato a misura d’uomo: basti pensare ai manichini utilizzati per il crash test delle auto realizzati unicamente con fattezza maschili – il primo che riproduce le caratteristiche di un corpo femminile è stato ideato solo lo scorso anno da un gruppo di ricerca svedese – o ad alcune lacune mediche nella conoscenza del corpo delle donne e delle patologie che lo riguardano. E, anche in questo, il campo della tecnologia non differisce, proprio in un ramo, quello online, in cui il rischio per le donne di subire molestie è così alto: “Il settore tecnologico – ha spiegato Paula Coto, direttrice esecutiva di Chicas en Tecnología in un’intervista a UN Women – ha dei debiti in sospeso in termini di protocolli per l’uguaglianza di genere, nonostante i dati dimostrino che le aziende dovranno affrontare situazioni di violenza di genere. L’inclusione delle donne nel settore permette di ridurre questi pregiudizi insiti nelle culture istituzionali e favorisce la creazione di soluzioni più efficaci, sicure e inclusive”.
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