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venerdì, Ottobre 4, 2024

Fanghi di depurazione nei campi, c’è un rischio microplastiche?

La pratica di usare i fanghi di depurazione nei campi come ammendante è un ottimo esempio di economia circolare. Le microplastiche possono metterlo a rischio? Una serie di studi scientifici descrive il fenomeno delle microplastiche nei fanghi e i rischi di contaminazione dei prodotti agricoli. I dubbi di Giuseppe Corti, direttore del CREA

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Redazione EconomiaCircolare.com

La microplastica può probabilmente essere paragonata a quelli che per chi si occupa di scienza della Terra sono i fossili guida: esseri tanto diffusi in un certo periodo geologico (come i trilobiti per il Paleozoico) che vengono usati come punto di riferimento cronologico nelle stratigrafie dei suoli. Le microplastiche sono oggi onnipresenti, dai ghiacciai più remoti ai sistemi digestivi degli organismi che abitano i mari più profondi fino alla placenta umana. Non c’è da stupirsi, dunque, che contaminino anche i fanghi di depurazione, quelli cioè che derivano dal trattamento delle acque reflue.

Ricchi di nutrienti, il risultato della deputazione delle acque nere civili negli USA e in Europa viene usato in agricoltura come fertilizzante organico – più in altri Paesi che in Italia, dove più della metà dei fanghi finisce in discarica. In Europa questo impiego viene incoraggiato dalle direttive che promuovono l’economia circolare: ogni anno – spiega un recente articolo della BBC- in Europa vengono prodotte 8-10 milioni di tonnellate di fanghi di depurazione, di cui circa il 40% viene sparso sui terreni agricoli. Ottimo, direte. Infatti. Se non fosse che, spiega la BBC, “secondo uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Cardiff, i terreni agricoli europei potrebbero essere il più grande serbatoio globale di microplastiche”.

Un grande serbatoio di microplastiche

Osservando un impianto di trattamento delle acque reflue del Galles meridionale, nel Regno Unito, i ricercatori hanno scoperto che ogni giorno nell’impianto entravano fino a 650 milioni di particelle di microplastica, di dimensioni comprese tra 1 e 5 millimetri. Tutte queste particelle finiscono nei fanghi di depurazione, costituendo circa l’1% del peso totale. Il numero di microplastiche che finiscono sui terreni agricoli “è probabilmente una sottostima”, ha spiegato alla BBC Catherine Wilson, una delle coautrici dello studio e vicedirettrice del Centro di ricerca idroambientale dell’Università di Cardiff: “Le microplastiche sono ovunque e spesso così piccole che non riusciamo a vederle”. La conseguenza è che “ogni anno i terreni agricoli europei vengono contaminati da 31.000 a 42.000 tonnellate di microplastiche, ovvero da 86.000 a 710.000 miliardi di particelle”.

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La migrazione nel cibo

Le particelle di plastica possono contaminare direttamente le colture alimentari. Uno studio del 2020 condotto da ricercatori dell’Unviersità di Catania ha rinvenuto microplastiche e nanoplastiche in frutta e verdura vendute dai supermercati e in negozi di prossimità: le mele sono state il frutto più contaminato e le carote hanno presentato i livelli più alti di microplastiche tra gli ortaggi campionati.

Un’analisi condotta dal team di Willie Peijnenburg, professore di tossicologia ambientale e biodiversità presso l’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, riferisce ancora la BBC, ha rivelato che la maggior parte delle materie plastiche si è accumulata nelle radici delle piante, mentre solo una quantità molto ridotta ha raggiunto i germogli. “Le concentrazioni nelle foglie sono ben al di sotto dell’1%”, spiega Peijnenburg. Per gli ortaggi a foglia come lattughe e cavoli, le concentrazioni di plastica sarebbero relativamente basse, ma per gli ortaggi a radice come carote, ravanelli e rape, il rischio di consumare microplastiche sarebbe maggiore.

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La nostra salute

Mancano studi che chiariscano in modo inequivocabile l’effetto dell’accumulo di plastica negli alimenti sulla nostra salute. I ricercatori dell’Università di Hull, nel Regno Unito hanno concotto una metanalisi si 17 studi sull’impatto tossicologico delle microplastiche sulle cellule umane. Per prima cosa, nei test di laboratorio, hanno misurato la quantità di microplastiche in grado di causare danni alle cellule. Poi hanno confrontato questi livelli con quelli ingeriti dalle persone attraverso l’acqua potabile e l’alimentazione. Cosa è emerso? Che le quantità ingerite dall’uomo si avvicinano a quelle che potrebbero causare risposte immunitarie, tra cui reazioni allergiche, danni alle pareti cellulari e stress ossidativo. Evangelos Danopoulos, autore principale dello studio e ricercatore presso l’Università di Hull, invita perciò alla prudenza: “Se sappiamo che i fanghi sono contaminati da microplastiche e che le piante hanno la capacità di estrarle dal suolo, dovremmo usarli come fertilizzanti?”, afferma.

Messa al bando dei fanghi da depurazione in agricoltura?

Alcuni Paesi, riferisce ancora la BBC, hanno messo al bando lo spargimento dei fanghi di depurazione sui terrei agricoli: Paesi Bassi, Svizzera, lo Stato americano del Maine. Ma un divieto totale di utilizzare i fanghi di depurazione come fertilizzanti non è necessariamente la soluzione migliore, sostiene Wilson dell’Università di Cardiff. Al contrario, potrebbe incentivare gli agricoltori a utilizzare più fertilizzanti azotati sintetici, ricavati dal gas naturale.

Secondo il ricercatore dovremmo “quantificare le microplastiche presenti nei fanghi di depurazione, in modo da poter stabilire dove si trovano i punti caldi e iniziare a gestirli”. Nei luoghi con alti livelli di microplastiche, i fanghi di depurazione potrebbero essere inceneriti per generare energia, propone Wilson. Secondo Wilson e i suoi colleghi, un modo per prevenire la contaminazione dei terreni agricoli è recuperare oli e grassi (che contengono alti livelli di microplastiche) negli impianti di trattamento delle acque reflue e utilizzarli come biocarburante, invece di mescolarla ai fanghi.

E poi serviranno delle regole sulle microplastiche. “Le microplastiche sono ora sul punto di trasformarsi da contaminanti a inquinanti”, conclude Danopoulos. “Un contaminante è qualcosa che si trova dove non dovrebbe essere. Le microplastiche non dovrebbero trovarsi nelle nostre acque e nei nostri terreni. Se dimostriamo che hanno effetti negativi, diventeranno un inquinante e dovremo introdurre leggi e regolamenti”.

Un allarme motivato?

Giuseppe Corti, direttore del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA), relativizza e ridimensione l’allarme dei colleghi di Cardiff: “La plastica nei mari è un problema gigantesco. Se passiamo al suolo, è un problema noto da tanto tempo, ma la plastica di per sé, in questo caso, è un problema relativo, non è poi quel veleno che ci stiamo raccontando da un po’ di tempo a questa parte”, riflette con EconomiaCicolare.com.

Condivide che la plastica nei terreni “arriva purtroppo da una cattiva produzione del compost. Su questo siamo tutti d’accordo: il compost non deve contenere plastica”. Tanto che in Italia la legge prevede che ne contenga meno del 2%. Ma anche su questo limite ha qualcosa da dire: “Se il compost che mettiamo sui campi contenesse l’1,9% di plastica, e fosse quindi in linea con le prescrizioni di legge, vorrebbe dire che per una tonnellata di compost buttiamo sul terreno 19 chili di plastica. Se consideriamo che per un 1 ettaro se su usano 20-30 tonnellate, abbiamo buttato in campo circa 600 kg di plastica”. Quindi, chiarisce, “dobbiamo tendere a compost privo di plastica, e questo è fuori discussione. Finora non avevamo i mezzi tecnici per realizzarlo né le plastiche biodegradabili per raccogliere l’umido. Ma già da qualche anno siamo in grado produrre ottimo compost”.

Per questo motivo, secondo il direttore del CREA, “continuare a dire che è colpa è del compost se ci sono le microplastiche nel suolo è sbagliato. La colpa è stata del compost. E su questo non c’è dubbio. Ma oggi non lo è più”.

E poi discute anche l’entità del problema. “Quello che dico non piacerà – aggiunge – ma tutto questo danno la plastica nel suolo non lo fa. Di qualche tonnellata di plastica nel suolo, il suolo non se ne accorge. Anzi, paradossalmente, alcuni studi dicono che alcune plastiche, soprattutto quando sono piccole, favoriscono la strutturazione del suolo, che diventa più areato, drena meglio l’acqua, e i microrganismi vivono meglio”.

“È chiaro – sottolinea – che non possiamo riempire il suolo di plastica. Ma la plastica nel suolo di per sé non è poi quel veleno che ci stiamo raccontando da qualche tempo a queta parte, sempre che sia nelle quantità che gli agricoltori, senza saperlo, hanno aggiunto al suolo negli anni passati. Le quantità di plastica accidentalmente finite nel suolo non fanno male a nessuno. Se vogliamo farne un caso facciamolo pure”.

E continua: “Ma quello che da noi viene denunciato come un problema, in altre parti del mondo è moltiplicato per mille volte, per milioni di volte. Eppure non interessa nessuno”. Fa l’esempio del nord Africa, dove, ricorda, “le zone del deserto fino a 30-40 km dalle cittadine sono coperte di plastica: non avendo sistemi di smaltimento della spazzatura, scaricano fuori dai paesi e il vento fa il resto. Questo avviene da 50 anni, ed è uno spettacolo desolante. Eppure non interessa nessuno”.

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