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venerdì, Novembre 15, 2024

La storia infinita dell’acqua del Gran Sasso

Nel contesto della crisi climatica e della necessità di un’attenta gestione dell’acqua, ripercorriamo una storia affascinante e controversa, tra casi di contaminazione, investimenti mancati e acqua potabile scaricata in falda

Eugenio Zazzara
Eugenio Zazzara
Linguista di formazione, ha poi coltivato diversi interessi, come il giornalismo. Critico musicale per anni, ha condotto programmi radiofonici live e podcast per Radio Città Aperta e altre realtà. Appassionato di temi ambientali, ha contribuito alla nascita del primo emporio di comunità di Trento

Nel cuore dell’Abruzzo, da più di cinque anni a questa parte 100 litri di acqua al secondo sono messi a scarico, mandati cioè direttamente in falda acquifera e non in acquedotto. Un volume che potrebbe soddisfare il fabbisogno giornaliero di una cittadina di 40.000 persone finisce disperso a seguito di un sequestro disposto dalla Procura di Teramo il 29 settembre 2018, quando scattò il divieto di sfruttamento di un punto di captazione, cioè di prelievo, di acqua potabile nella provincia. Stando ai dati ISTAT relativi al 2020, l’Abruzzo è la seconda regione con il maggior tasso di dispersione dopo la Basilicata: il 59,75% di quanto immesso in rete. Un dato che ha origine da una rete di distribuzione spesso carente, attraverso la quale una buona parte dell’acqua non arriva neanche ai rubinetti ma si disperde in falda durante il percorso.

Una parziale eccezione la troviamo però nella provincia di Teramo che, ad oggi, è la più virtuosa della regione con un dato di dispersione che, come confermato anche dalla società acquedottistica Ruzzo Reti, si attesta intorno al 39%, inferiore alla media regionale (che supera il 50%). Proprio qui, però, si trova un punto di captazione messo a sequestro dalla Procura, al centro di una vicenda forse non troppo nota al di là dei confini regionali ma nella quale insistono interessi strategici ed economici importanti non solo per l’Abruzzo ma per tutto il Paese. Come si è arrivati al sequestro?

Un problema che viene da lontano

Percorrendo l’autostrada A24 che collega Roma con Teramo passando per L’Aquila si comincia presto ad attraversare l’Appennino. Per un Paese fortemente urbanizzato come l’Italia, l’Appennino abruzzese è ancora un ambiente piuttosto selvaggio, con centri abitati sempre più diradati man mano che ci si inoltra verso il cuore della catena e si sale di altitudine. Lungo questo percorso si stagliano le vette più alte del massiccio del Gran Sasso e si lambiscono tre Parchi nazionali e svariate riserve naturali, ma ciò che c’è sotto il massiccio è importante tanto quanto ciò che c’è sopra.

Procedendo verso est ci si fa strada verso il centro dell’Abruzzo fino a incontrare un’infrastruttura imponente, quasi minacciosa per la sua mole: il traforo del Gran Sasso, la galleria a doppia canna più lunga d’Europa, attualmente proprietà di Strada dei Parchi S.p.A. Da questo tunnel si accede anche a un altro dei protagonisti di questa storia: i laboratori sotterranei dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). I 1.400 metri di roccia che sovrastano i laboratori del Gran Sasso rappresentano infatti uno schermo naturale contro il flusso di raggi cosmici, che sono un fattore di disturbo per il loro principale oggetto di studio, i neutrini. Proprio la posizione e la natura specifica di questo luogo ne hanno fatto un centro di eccellenza a livello mondiale.

I lavori per la realizzazione della galleria si svolsero nel corso di venticinque anni a partire dalla fine degli anni ’60 ed è proprio durante i lavori che venne intercettata una nuova fonte di acqua pura e abbondante che impose la sospensione del cantiere. Dal bacino acquifero del Gran Sasso venivano da tempo captate altre sorgenti già messe in distribuzione tramite acquedotto, ma quel rinvenimento richiese l’utilizzo di “sistemi di drenaggio per deprimere la falda dell’acquifero che interferiva con l’avanzamento dei lavori dei tunnel autostradali”, come riporta Ruzzo Reti. Diverso tempo dopo l’inaugurazione delle gallerie, nei primi anni ’80 furono realizzate, a circa metà del tragitto autostradale, le caverne che ospitano i laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e fu questo il momento in cui anche lo sfruttamento delle acque intercettate durante questi lavori (circa 100 litri al secondo) divenne realtà.

La prima concessione fu assegnata nel 1997 a Gran Sasso Acqua per il versante aquilano e, due anni dopo, a Ruzzo Reti per il versante teramano, quest’ultima grazie a una concessione in sanatoria. Una parte più ridotta della sorgente è invece sfruttata dalla ACA S.p.A. che rifornisce parte della provincia di Pescara. A quel punto, l’intero sistema di acque prelevate dal bacino cominciò a essere messo al servizio di un’utenza di 700.000 abruzzesi, più della metà degli abitanti della regione.

captazione Gran Sasso
Bacino acquifero del Gran Sasso. In blu, le tre fonti di captazione d’acqua, in rosso il sito dei laboratori dell’INFN. La fonte messa a sequestro è la seconda dall’alto | Fonte: Avv. Tommaso Navarra, presidente, Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, PDF Audizione alla Camera dei Deputati del 09/12/2020

È interessante riportare un fatto avvenuto appena un anno prima che i laboratori del Gran Sasso iniziassero le loro attività: nel 1988 entra infatti in vigore il decreto n. 236 del presidente della Repubblica che all’articolo 6 sancisce l’obbligo di assicurare una “zona di rispetto” dai punti di captazione di almeno 200 metri. Perché questo collegamento sia importante lo capiremo di lì a poco.

L’esperimento Borexino

Non molto tempo dopo l’entrata in funzione degli acquedotti, nel 1997, cominciano a verificarsi alcuni episodi che catturano l’attenzione della cronaca e dell’opinione pubblica. Il primo, e forse tra i più famosi, è quello legato a Borexino, dal nome di un esperimento svoltosi all’interno dei laboratori sotterranei. Nel 2002, 50 litri di trimetilbenzene, un idrocarburo aromatico potenzialmente pericoloso per la salute, si riversano nella faglia sottostante e nell’acquedotto dal punto di captazione dei laboratori, arrivando così all’acquedotto e infine alle fontane dell’acqua pubblica sulla costa abruzzese. Tuttavia, come ricorda Dante Caserta, Responsabile Affari legali e istituzionali WWF Italia: “Già da alcuni anni prima in realtà, grazie a degli scambi con alcuni ricercatori dei laboratori e per mezzo anche di una serie di esposti e denunce, il WWF era riuscito ad acquisire una serie di informazioni che dimostravano il fatto che si erano già verificati svariati altri incidenti di varia gravità, che suggerivano la possibilità che la situazione non fosse del tutto sotto controllo”.

Lo sversamento del 2002 non comporta conseguenze sanitarie, ma produce un’eco importante sui mezzi di informazione e tra la popolazione, anche a causa dell’interruzione della fornitura idrica che ne segue e che colpisce una popolazione di 250.000 persone. L’incidente porta alla messa a punto di un sistema di monitoraggio costante dell’acqua immessa in rete e, l’anno seguente, all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Teramo, che ordina la chiusura di un terzo delle strutture dei laboratori. L’inchiesta si conclude con il patteggiamento per la contestazione di scarico non autorizzato di acque reflue industriali, sversamento di sostanze tossiche e deterioramento delle bellezze naturali, con condanna a un’ammenda di 1.672 euro. In seguito, la Corte dei conti assolve gli imputati, motivando così la decisione: “l’evento dannoso, comunque caratterizzato da una notevole accidentalità” si pone “al di fuori di ogni previsione circa la struttura di qualunque misura di sicurezza precostituita dall’Istituto e dalla direzione del Laboratorio”.

Sempre nel 2003, a un anno dall’incidente, la regione Abruzzo decreta lo stato di emergenza socio-ambientale fino al 30 giugno 2004, mentre il governo nomina Commissario Straordinario per la gestione dell’emergenza idrica Angelo Balducci, ex provveditore alle opere pubbliche ed ex presidente del Consiglio Superiore dei lavori pubblici, successivamente coinvolto in diverse inchieste sulle grandi opere. Obiettivo del commissariamento, forte di un finanziamento di 84 milioni di euro, era la messa in sicurezza dei laboratori e delle gallerie dalla possibilità di infiltrazioni e contaminazioni della falda acquifera. Nel 2008 viene dichiarata conclusa l’esperienza di commissariamento. Tuttavia, come riportato in un documento del 2020 dall’Osservatorio Indipendente sull’Acqua del Gran Sasso, gli interventi messi in atto fino ad allora avevano “riguardato solo una minima parte delle problematiche riscontrate nella sicurezza del Gran Sasso, con l’impermeabilizzazione di soli 1,2 km di galleria contro circa 20 km esistenti”. È solo l’inizio di una lunga storia.

Nell’aprile del 2011, col decreto numero 248 della regione Abruzzo, si costituisce una Commissione tecnica per l’esame dei lavori effettuati per la messa in sicurezza dei laboratori, mentre l’anno seguente una lettera dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) segnala “una generale non conformità della localizzazione dei locali ed installazioni dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso”, in base all’articolo 94 del Codice dell’Ambiente, che ribadisce la necessità di una “zona di tutela assoluta” di 10 metri intorno al punto di captazione, a sua volta inclusa all’interno di una “zona di rispetto” di 200 metri entro i quali non sarebbe possibile realizzare prelievi di acqua potabile in assenza di determinate garanzie sanitarie (riprendendo così quanto stabilito dal decreto 236 del 1988). L’ISS chiede inoltre all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di rivedere la natura delle proprie attività e degli esperimenti che svolge all’interno dei laboratori del Gran Sasso, così da prevenire o ridurre il rischio di ulteriori contaminazioni.

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Gli episodi del 2016 e del 2017

Tra il 2016 e il 2017 si verificano altri tre episodi. Nell’agosto del 2016 nelle captazioni del versante aquilano viene rilevata nell’acqua la presenza di diclorometano, un solvente utilizzato in molti processi chimici, con una concentrazione pari a 0,335 microgrammi/litro. Date le basse concentrazioni, l’incidente non provoca conseguenze ambientali o sanitarie, ma il fatto che la notizia venga diffusa dalla Regione Abruzzo solo tre mesi dopo e che faccia scattare una nuova fase di emergenza desta preoccupazione.

Come misura precauzionale, infatti, l’azienda sanitaria locale dispone – secondo quanto riporta un documento del 2018 della Stazione Ornitologica Abruzzese – l’interruzione della messa in rete dell’acqua dal punto di captazione dei laboratori fino al maggio dell’anno successivo: si tratta della prima interruzione nella distribuzione dei 100 litri di acqua al secondo forniti da questo punto di captazione fino a quel momento. Si verrà a sapere in seguito che l’incidente è stato causato dall’evaporazione del solvente durante una fase dell’esperimento Cupid, realizzato all’interno dei laboratori.

Nel mese di dicembre, intanto, Ruzzo Reti ottiene dalla regione l’autorizzazione a captare una media di 600 litri di acqua al secondo da un impianto esistente in località Venaquila del comune di Montorio al Vomano (TE), già disponibile fin dal 2013 in caso di emergenza ma che, in quel periodo dell’anno, solitamente viene chiuso per effettuare delle manutenzioni periodiche.

Nel novembre del 2016, l’ASL pubblica dei referti di analisi che indicano la presenza di cloroformio nell’acqua potabile tra il 10 e il 21 novembre: inferiore ai limiti di nocività per il consumo umano ma, in alcuni casi, superiore ai limiti fissati per legge per le acque sotterranee. Si tratta dell’acqua del punto di captazione dei laboratori che, in quel momento, veniva mandata a scarico e che quindi non aveva raggiunto l’acquedotto, ma che è comunque penetrata in falda. Una delle ipotesi è che lo sversamento si sia verificato a seguito di un esperimento nei laboratori, dato che il cloroformio figura tra le sostanze stoccate all’interno del centro di ricerca.

Nella primavera del 2017 si verifica un nuovo incidente. Il 9 maggio l’Agenzia regionale di tutela dell’ambiente (Arta) afferma di aver trovato tracce di toluene nell’acqua potabile durante le analisi effettuate il giorno precedente, rilevando la non conformità per odore e sapore. Il toluene è usato come sostituto del benzene e impiegato per sciogliere colle, vernici e tanti altri composti; viene usato occasionalmente come agente pulente ed è uno degli idrocarburi aromatici più importanti nel settore industriale. Dai rilievi dell’Arta risultano concentrazioni inferiori ai limiti, ma l’azienda sanitaria dispone comunque l’interruzione al consumo dell’acqua potabile in misura precauzionale. Da una comunicazione di Autostrada dei Parchi S.p.A., che come accennato gestisce le gallerie del traforo, si viene a sapere di lavori di verniciatura eseguiti il 3 e 4 maggio, presumibilmente all’origine dello sversamento. Più tardi, in una nota stampa pubblicata a novembre 2017 l’INFN sottolinea che “in quei giorni l’acqua captata nell’area dei Laboratori non veniva immessa nell’acquedotto” e che quindi non si può imputare “nessuna responsabilità ai Laboratori”.

La rinnovata attenzione generata sulle sorti del bacino acquifero del Gran Sasso porta a due importanti conseguenze. Una è l’avvio delle indagini della Procura di Teramo, coordinate dal procuratore capo Antonio Guerriero, sui fatti avvenuti nel maggio 2017, in particolare sull’episodio di sversamento del toluene. La seconda conseguenza è la stipula di un protocollo d’intesa per la gestione e il coordinamento delle procedure di comunicazione e di allerta in caso di episodi di sversamento e per la gestione dei sistemi di monitoraggio idrico. L’accordo del 7 settembre 2017 coinvolge INFN, Strada dei Parchi, Ruzzo Reti, Gran Sasso Acqua, vari enti per il servizio idrico e aziende sanitarie regionali, il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e la Regione Abruzzo. Tra le ricadute del protocollo c’è l’installazione di tre spettrometri di massa e di altri sistemi di verifica in grado di garantire un più efficace monitoraggio della qualità delle acque. Come riportato da Ruzzo Reti e Gran Sasso Acqua, il sistema è in grado di intercettare tutte le sostanze stabilite dalla valutazione del rischio formulata dal gruppo di esperti all’interno del Piano di Sicurezza delle Acque ai sensi del decreto del 14 giugno 2017 del Ministero della Salute.

Viene stabilito anche un programma di dismissione degli esperimenti che comportano l’uso di sostanze pericolose da parte dei laboratori; misura, questa, diventata ufficiale a seguito di una delibera regionale del 25 gennaio 2019, che richiede esplicitamente l’allontanamento delle sostanze pericolose dai laboratori entro il 31 dicembre 2020 e la messa a punto di tre proposte progettuali per lavori di messa in sicurezza nelle gallerie, nei laboratori e nell’acquedotto.

Con questa nuova inchiesta, la Procura dispone il sequestro a tempo indeterminato del punto di captazione dell’acqua dai laboratori, confermando la necessità di messa a scarico dei 100 litri al secondo di acqua in misura cautelare. A partire dal 29 settembre 2018, quindi, quella fonte di approvvigionamento, già sospesa dall’azienda sanitaria a seguito dell’incidente dell’agosto 2016, diventa di fatto inutilizzabile fino a nuovo ordine.

Tra gli effetti a catena dei nuovi incidenti nel biennio 2016-2017 si contano due nuovi provvedimenti. Il 29 aprile 2019, con una delibera, la Regione chiede al governo la nomina di un nuovo Commissario Straordinario che possa intervenire con ampi poteri e fondi sufficienti alla definitiva messa in sicurezza dell’acquifero del Gran Sasso, viste le criticità ancora esistenti e la perizia in corso da parte del tribunale di Teramo.

L’altro atto normativo è un decreto legge del governo di pochi giorni prima, 18 aprile 2019, che stabilisce una deroga alla “zona di tutela assoluta” di 10 metri (sancita dall’articolo 94 del Codice dell’Ambiente del 2006) sulla base della “specificità del sistema di captazione delle acque drenate a tergo delle gallerie autostradali del Traforo autostradale del Gran Sasso e all’interno dei laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN)”. Il principio è che “la protezione dei punti di captazione deve essere garantita dall’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza determinati dall’attività del Commissario Straordinario”.

La richiesta dell’avvio di una nuova fase commissariale non è che l’atto finale di una serie di eventi che, in maniera più o meno esplicita, decretano il fallimento dei lavori di messa in sicurezza realizzati nel periodo 2003-2008 sotto la gestione del Commissario Straordinario Angelo Balducci.

La conferma arriva nel corso di una conferenza stampa del procuratore capo della Procura di Teramo Antonio Guerriero, il quale annuncia la conclusione delle indagini ed evidenzia l’insufficienza delle misure prese durante la prima fase di commissariamento. “Questi lavori non sono stati completamente attuati”, dichiara Guerriero, aggiungendo che i lavori alle gallerie autostradali “prevedevano l’impermeabilizzazione di tutta la galleria, 12 chilometri”, quando in realtà solo un chilometro è stato messo in sicurezza. Il processo inizia ufficialmente Il 13 settembre 2019 e vede tra gli imputati dieci persone tra i vertici di INFN, Laboratori del Gran Sasso, Strada dei Parchi S.p.A. e Ruzzo Reti S.p.A.

Tra i reati contestati c’è quello di inquinamento e il “getto pericoloso di cose”. Nel documento di conclusione delle indagini si legge che tutti gli indagati “contribuivano a cagionare o a non impedire, un permanente pericolo di inquinamento ambientale e il pericolo di compromissione o deterioramento significativo e misurabile delle acque sotterranee del massiccio del Gran Sasso”. 

Ritorno al futuro 

Il 5 novembre 2019, con il decreto di nomina del docente universitario di Costruzioni idrauliche Corrado Gisonni a Commissario Straordinario, sembra di assistere a un copione già visto quasi vent’anni prima, durante la prima fase di commissariamento a guida Balducci.

L’approccio di questo secondo commissariamento è però sensibilmente diverso, a cominciare dai fondi a disposizione. Gli 84 milioni della gestione Balducci erano stati usati solo in minima parte e si era ormai compreso che non sarebbero stati comunque sufficienti.

Questa volta la legge 55 del 2019, la cosiddetta “Sbloccacantieri”, assicura a Gisonni un budget di 120 milioni da utilizzare in un periodo di tre anni, cioè fino alla conclusione della fase commissariale fissata al 31 dicembre 2021.

Sicuramente un punto di partenza migliore rispetto a quindici anni prima. Tuttavia, nel corso di una riunione sull’andamento dei lavori organizzata dalla regione il 14 luglio del 2021, a quasi un anno e mezzo dall’avvio della fase commissariale i fondi necessari alla messa in sicurezza del sistema idrico del Gran Sasso vengono stimati in 172 milioni di euro: 53 per gli acquedotti, 104,3 per il traforo e 14,6 milioni per i laboratori. Una differenza di ben 52 milioni di euro rispetto a quanto stimato e reso disponibile inizialmente. Gli interventi da realizzare sono molto costosi: basti pensare che, durante il primo commissariamento 2003-2008, per impermeabilizzare e isolare meno di due chilometri di traforo (su dodici totali) e una parte dei laboratori furono spesi 34 degli 84 milioni previsti. Diverse le criticità evidenziate durante la riunione, tra cui l’assenza di interventi pregressi per la messa in sicurezza delle opere di captazione e l’impossibilità di ispezione e monitoraggio del sistema, il mancato rispetto dell’articolo 94 del decreto 152 del 2006 sulle zone di rispetto e di tutela e l’allontanamento delle sostanze pericolose dagli ambienti dei laboratori (relative agli esperimenti Borexino e LVD, che sta per Large Volume Detector, un osservatorio sotterraneo di neutrini) entro il 31 dicembre 2020.

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Ubicazione di Borexino in Sala C e LVD in Sala A nei laboratori sotterranei dei LNGS – INFN e classificazione delle sostanze soggette pericolose soggette al D.Lgs. !05/05 | Fonte: Avv. Tommaso Navarra, presidente, Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, PDF Audizione alla Camera dei Deputati del 09/12/2020

L’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente (Arta) e Ruzzo Reti S.p.A., nel frattempo, hanno entrambe implementato dei sistemi di controllo e sorveglianza ancora più precisi per garantire la qualità delle acque ed evitare, in caso di contaminazione, che finiscano in rete. In caso di rilevamento di sostanze pericolose, la messa a scarico è assicurata per tutti i punti di captazione da cui l’acqua viene ancora immessa in rete (escluso, quindi, quello sotto sequestro al di sotto dei laboratori).

“Una tutela della salute umana assolutamente necessaria e che va al primo posto”” sottolinea Dante Caserta; d’altro canto, “mettere a scarico dell’acqua ritenuta non adatta al consumo umano dal punto di vista della tutela ambientale qualche dubbio lo solleva”. In quello che, tra l’altro, “dovrebbe essere uno dei territori più tutelati d’Europa”. Il Gran Sasso è infatti “un Parco Nazionale, il livello massimo di tutela in Italia, e una zona di protezione e conservazione speciale in base alla rete Natura 2000. A non essere del tutto garantita è insomma la sicurezza della falda sotterranea, dato che senza l’elenco esaustivo di sostanze i sistemi di rilevamento non sono tarati per cercare qualunque cosa, dato che ciò avrebbe dei costi insostenibili. Si vanno a cercare soltanto determinate categorie o insiemi di sostanze, ma non si è mai di fatto sicuri di rilevare tutto ciò che potrebbe finire nell’acqua”. 

 Per quanto si tratti di una questione di precauzione più che di reale pericolo, rimane una situazione problematica. Un discorso che si applica anche alla fonte di approvvigionamento idrico, che non viene di fatto usata più solo in caso di emergenza, in località Venaquila nel comune di Montorio al Vomano, il cui utilizzo è prorogato al 30 giugno 2024 e per il quale è in corso un iter amministrativo per l’ottenimento della concessione definitiva.

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La situazione oggi

Il 13 luglio del 2022 il Commissario Gisonni presenta il progetto di fattibilità tecnico-economica per la messa in sicurezza. La stima degli investimenti necessari è di 180 milioni di euro, con interventi realizzabili nel corso di tre o quattro anni: durante il convegno in cui è stato presentato il progetto, è stato però ipotizzato che potrebbero volerci fino a dieci anni prima di concludere tutti i lavori.

Una settimana dopo arriva invece la notizia della definitiva rimozione del materiale pericoloso (nafta idrogenata) dell’esperimento Borexino nei laboratori del Gran Sasso. Come si legge nella nota diffusa dal centro di ricerca, “le operazioni di dismissione sono avvenute applicando le più avanzate tecniche oggi disponibili e applicando i più alti standard di sicurezza”: a seguito di questo intervento, “è stato così completato il processo di allontanamento di tutti gli idrocarburi presenti nell’apparato”.

Ancora nessuna novità di rilievo, invece, riguardo alla rimozione delle sostanze utilizzate nell’altro esperimento, l’osservatorio sotterraneo di neutrini LVD. A fine 2021 era stato approvato l’affidamento dei lavori, il cui termine era stimato allora a fine 2022; stando all’ultimo aggiornamento del 18 gennaio 2024, però, si apprende del recesso unilaterale dal contratto stipulato con l’ente affidatario dei lavori di smontaggio e rimozione degli apparati.

Sul fronte giudiziario, il 29 marzo del 2023 si svolge l’udienza di tre consulenti tecnici della Procura di Teramo nell’ambito del procedimento penale del 2019 a carico dei responsabili di INFN, Strada dei Parchi S.p.A. e Ruzzo Reti S.p.A. Le loro dichiarazioni sottolineano gli stessi problemi di anni prima: “l’acquifero del Gran Sasso non è mai stato messo in sicurezza dopo i fatti del 2002” e le “sostanze chimiche utilizzate e/o detenute nel Laboratori dell’INFN non compatibili con le esigenze di tutela prevista per le zone di salvaguardia delle captazioni sotterranee” non sono ancora state rimosse, in riferimento ai materiali dell’esperimento LVD. Secondo quanto dichiarato dal WWF, il processo ha peraltro subito una serie di ritardi dovuti ad avvicendamenti tra giudici, che hanno determinato un allungamento dei tempi.

L’ultimo colpo di scena della vicenda è la nomina di Pierluigi Caputi, ex dirigente della Regione Abruzzo, a Commissario Straordinario il 4 settembre 2023. Una notizia che “colse tutti di sorpresa, Gisonni per primo, perché non vi era mai stata una reale indicazione del fatto che sarebbe stato messo da parte”, come ricorda il responsabile WWF Caserta. È prassi in questi casi infatti confermare e prolungare l’incarico, a meno di particolari impedimenti o inadempimenti da parte del Commissario uscente rispetto alla sua gestione. Scenario che non si applica a Gisonni che, anzi, “fino a qualche mese prima veniva presentato come colui che stava risolvendo il problema”, prosegue Caserta, e che è stato indicato come un interlocutore competente e aperto al confronto da più parti, compresi i rappresentanti di movimenti ambientalisti e società civile. Una nomina, quella di Caputi, avvenuta tra l’altro diversi mesi dopo la scadenza del mandato di Gisonni, che ha determinato “una situazione assurda di commissariamento senza commissario”. Difficile comprendere, quindi, una scelta che porterà inevitabilmente a degli ulteriori ritardi legati ai naturali tempi tecnici necessari alla nuova struttura commissariale per acquisire tutta la documentazione e il capitale di conoscenza sul tema raccolti durante gli anni precedenti. Caputi resterà in carica fino al 31 dicembre 2025.

Un condominio impossibile

A distanza di ventidue anni dal primo incidente che scosse l’opinione pubblica, la questione relativa all’acquifero del Gran Sasso rimane un rompicapo ancora in buona parte da risolvere. La natura degli interessi che confliggono in quest’area è tale da rendere la sua complessità facilmente comprensibile: le realtà che cercano di coesistere da anni in questo “condominio impossibile” sono ognuna a suo modo strategiche e costituiscono un obiettivo irrinunciabile per il paese e le sue istituzioni.

Certo, non è stato fatto poco dall’inizio della vicenda, ma sono ancora molti i nodi da districare:

  • Alla luce della differenza sul capitale messo a budget nel 2019 (120 milioni) e le stime più recenti (180 milioni), non c’è ancora una risposta riguardo ai piani per il reperimento dei fondi necessari a colmare questo divario.
  • Un provvedimento regionale richiedeva la rimozione delle sostanze pericolose dai laboratori dell’INFN entro il 31 dicembre 2020. Tuttavia, al momento è avvenuta con notevole ritardo solo la rimozione di quelle legate all’esperimento Borexino. Per l’allontanamento delle sostanze utilizzate in LVD non esiste neanche un cronoprogramma al momento, quindi non è chiaro quando cominceranno i lavori.
  • L’impianto di potabilizzazione di Montorio al Vomano consente di compensare solo in parte l’erogazione dell’acqua potabile in caso di interruzione della distribuzione idrica a causa di eventuali incidenti.

Va ricordato che, sul fronte teramano, Ruzzo Reti metterà in esercizio nel corso di questo anno (compatibilmente con l’ottenimento di tutti i nulla osta previsti) una nuova captazione situata sui Monti della Laga che integrerà le risorse esistenti e contribuirà ad ottimizzare lo schema idrico. Inoltre, grazie agli investimenti previsti dal PNRR è stato avviato un progetto finalizzato alla riduzione delle perdite idriche.

Tuttavia, da più di cinque anni resta ancora aperta la questione del punto di captazione posto presso i laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ancora sotto sequestro e attraverso il quale vengono sempre mandati a scarico circa 100 litri di acqua al secondo.

Ma soprattutto, al netto della perdita idrica compensata solo in parte, non è stato ancora oggi possibile mettere davvero in sicurezza un sistema idrico così importante nell’economia della regione.

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

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