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giovedì, Novembre 14, 2024

Biocarburanti, dal racconto dei contadini le ombre sui progetti di Eni in Kenya

Dal villaggio di Mbegi arrivano le materie prime per la nuova generazione di biocarburanti su cui punta Eni. Qui i contadini sono stati convinti a coltivare ricino in parte dei loro terreni. Ma ora nessuno pare voler rinnovare il contratto. La replica di Eni: introdurremo varietà di sementi migliori e nuove pratiche agricole

Giorgio Vitali
Giorgio Vitali
Nato a Bergamo nel 2003, attivista per il clima, studente universitario in Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio alla Statale di Milano. Attualmente è stagista in data management al GIS Centre di Medici Senza Frontiere a Ginevra

L’enorme lavoro di comunicazione allo scorso festival di Sanremo e il recente accordo per la promozione della Serie A di calcio maschile hanno confermato l’interesse di Eni per la mobilità. Un ambito sul quale il cane a sei zampe punta attraverso lo sviluppo dei biocarburanti, per rendere più sostenibili i motori a combustione. In questo ambito la multinazionale energetica si è posizionata da tempo, ricevendo anche il sostegno del governo italiano.

Lo ha fatto rafforzando ancora una volta, così come con gli approvvigionamenti di gas, i legami con il Continente africano: avviando collaborazioni con diversi Stati – Kenya, Congo, Mozambico, Angola, Costa D’Avorio, Rwanda – affinché dalle coltivazioni locali, prevalentemente ricino, croton e cotone, si ottenessero materie prime da cui estrarre olio vegetale, attraverso i cosiddetti agri-feedstock, da esportare poi nelle bioraffinerie di Gela e Porto Marghera (e a breve Livorno). L’obiettivo dichiarato dall’azienda  è di arrivare a 700mila tonnellate di olio vegetale alle bioraffinerie Eni entro il 2026.

Il primo carico di olio vegetale è partito a ottobre 2022 dal porto di Mombasa, in Kenya. Fino a questo momento, però, è mancata la voce dei contadini keniani. Chi scrive ha partecipato a un incontro nel gennaio 2024 con i contadini di Mbegi, uno dei villaggi dove comincia la filiera dei biocarburanti di Eni. L’incontro è avvenuto nel contesto di un laboratorio universitario organizzato dalla facoltà di Scienze Umane dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio dell’Università Statale di Milano.

Dalle testimonianze dirette dei contadini, che sono stati convinti a destinare parte dei loro terreni prevalentemente alla pianta del ricino, emergono molti elementi in contraddizione con la narrazione di Eni per quanto riguarda l’impatto sulla comunità locale. Un malcontento generale, che addirittura sfocia nella convinzione collettiva di non voler rinnovare la produzione, a cui abbiamo scelto di dar voce. Affiancando la replica di Eni, che trovate alla fine del pezzo, insieme ai dati finora liberamente accessibili dal sito e dai documenti dell’azienda.

Un villaggio di ricino

Il villaggio di Mbegi si trova a sud est della città di Gilgil, nella contea di Nakuru. Ci troviamo in una zona semi-arida del Kenya centrale, questi terreni sono stati a lungo usati solo per il pascolo del bestiame, ma negli anni ‘90 sono stati acquistati da alcuni piccoli proprietari terrieri che hanno iniziato a coltivarli.

Il villaggio ad oggi conta circa 200 piccoli contadini con pochi acri a testa e alcuni capi di bestiame; circa l’80% di loro hanno iniziato a coltivare ricino in parte dei loro terreni (circa un acro a testa in media) dopo aver firmato con la “Servizi Agricoli Forestali Africa ltd” (SAFA) un contratto di due anni che comprende la fornitura gratuita dei semi, l’aratura dei campi a carico della compagnia e un prezzo fisso a cui viene acquistato il raccolto. SAFA, compagnia con sede a Nakuru, è infatti una società intermediaria che si occupa della fornitura degli impianti di spremitura di Eni in Kenya.

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Nuovi biocarburanti e vecchi problemi?

Il progetto agrifeed-stock di Eni in Kenya si inserisce nella strategia di decarbonizzazione del settore trasporti dell’azienda italiana e in particolare nell’obiettivo strategico di eliminare la produzione di biocombustibili da olio di palma entro il 2023 che prevedeva investimenti sugli impianti tali da consentire il progressivo incremento di cariche waste & residue (scarti e residui di lavorazione) e di seconda generazione (colture non alimentari coltivate su terreni marginali inadatti alla produzione alimentare). La produzione di biocarburanti da olio di palma è stata infatti largamente criticata per l’impatto ambientale che comporta e perché in concorrenza con la filiera alimentare, come aveva mediaticamente fatto notare nel 2014 Jean Ziegler, relatore per le Nazioni Unite sul diritto al cibo dal 2000 al 2008, dichiarando: “Bruciare centinaia di tonnellate di cibo per produrre biocombustibili è un crimine contro l’umanità.

Seguendo l’ottica della riconversione della produzione a materie prime non in concorrenza con la filiera alimentare, nel marzo del 2021 è stato così avviato e collaudato nella bioraffineria di Gela il nuovo impianto BTU (Biomass Treatment Unit) che consente di utilizzare fino al 100% biomasse di seconda generazione, ed Eni, in seguito ad un progetto pilota di coltivazione di ricino in Tunisia, ha stretto accordi con 6 Paesi dell’africa sub-sahariana per rifornire le sue bioraffinerie.

Nel luglio 2021 Eni ha firmato con il governo del Kenya un accordo per “promuovere il processo di decarbonizzazione e contrastare il cambiamento climatico attraverso un nuovo modello industriale che integra pienamente l’economia circolare lungo l’intera filiera per la produzione di biocarburanti”. Il progetto di Eni in Kenya si propone di utilizzare un modello ad agricoltura familiare con migliaia di piccoli fornitori a contratto (40mila secondo quanto dichiarato dall’azienda nell’ultima assemblea degli azionisti) che riforniscono i 2 agri-hub a Makueni e a Kwale-Bonje, dove i semi di ricino vengono spremuti e l’olio che ne viene ricavato viene spedito alla raffineria di Gela in Sicilia dove è trasformato in biodiesel.

Nonostante Eni sostenga che il progetto agri-feedstock contenga rilevanti sviluppi economici e sociali per le comunità coinvolte, nella pratica questa filiera produttiva presenta il concreto rischio di essere una strategia con un grande squilibrio territoriale in cui gli unici beneficiari dello sfruttamento di risorse del Sud del mondo si trovano nel Nord del mondo.

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Perché il ricino non piace ai contadini di Mbegi

ENI sostiene inoltre che il ricino sia una coltura resistente agli stress idrici, capace di crescere velocemente in aree degradate, ma l’esperienza dei contadini di Mbegi sembra dimostrare l’opposto visto che hanno raccolto nel primo anno del contratto appena 10 kg di semi per ogni acro. Se è vero che il ricino in quanto pianta pluriennale è meno produttiva durante il primo anno di coltivazione, la resa registrata rimane comunque completamente fuori scala rispetto alle rese medie della coltura che però dipendono molto da fattori quali l’irrigazione, la fertilizzazione, l’utilizzo di fungicidi, erbicidi e insetticidi, l’utilizzo di sementi ibride e la meccanizzazione della raccolta.

Il prezzo offerto da SAFA (17 KES/kg) combinato con la scarsa resa (10 kg/acro/anno) rendono poi estremamente bassi i profitti del ricino, soprattutto se paragonati con la rendita degli anni precedenti proveniente dal mais e dai fagioli, come hanno sottolineato gli stessi agricoltori che abbiamo incontrato, i quali hanno di fatto peggiorato notevolmente la loro situazione economica: un contadino ci ha riferito di aver aver guadagnato appena 109 scellini keniani dalla vendita del raccolto di un anno che corrispondono a circa 70 centesimi.

ENI dichiara che “i terreni individuati per la coltivazione nei paesi sono per lo più aree abbandonate o molto degradate, a causa di fenomeni quali la desertificazione, l’erosione, la siccità e l’inquinamento.” Tuttavia i campi del villaggio di Mbegi, per quanto soggetti a delle condizioni climatiche di semi-aridità, erano coltivati con mais e fagioli prima del progetto e ora sono coltivati a solo ricino o in intercropping mais-fagioli-ricino (con rese quasi nulle perché queste colture non sono adatte alla coltivazione nello stesso campo del ricino). Ciò significa che il ricino, almeno in questo caso specifico, replica gli stessi problemi delle biomasse di prima generazione di concorrenza con la filiera alimentare.

Il ricino inoltre è velenoso per l’uomo e per il bestiame, e in un contesto in cui il bestiame pascola spesso liberamente nei campi, la sua coltivazione si scontra con la retorica della diversificazione delle attività dei contadini, i quali ci hanno raccontato di aver già perso alcuni capi di bestiame e di essere molto preoccupati anche per la salute dei bambini della comunità.

Gli agricoltori con cui abbiamo parlato sono delusi dai risultati del progetto: alcuni hanno già tagliato il ricino dai loro campi, altri invece lo hanno tenuto poiché intendono chiedere un risarcimento dei danni rivolgendosi a una corte locale, ma non hanno ancora ricevuto udienza e chissà se e quando l’avranno. Certo è che nessuno di loro ha intenzione di rinnovare il contratto con SAFA una volta concluso.

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La necessità di nuovi studi indipendenti

Il villaggio di Mbegi rappresenta una minuscola parte del progetto agri-feedstock di ENI in Kenya, ma insieme alla recente inchiesta di Transport & Environment sulle forniture non dichiarate di olio di palma alla bioraffineria di Gela, getta un’ombra sulla sostenibilità dei biocarburanti dell’azienda italiana e pone sicuramente come urgente e necessario uno studio più approfondito sulle rese medie di tutte le piantagioni coinvolte nel progetto e sull’impatto che esso ha sulle comunità locali.

Se infatti le rese della zona di Mbegi di 10 kg/acro/anno si rivelassero generalizzabili su tutto il progetto, vorrebbe dire che per produrre le 2500 tonnellate di olio di ricino (ricavate da circa 5000 tonnellate di semi) che Eni ha dichiarato di aver prodotto nel 2022, servirebbe una superficie di 500mila acri (200mila ettari) pari a una piccola contea del Kenya o all’intera provincia di Vercelli. Evidentemente alcuni conti non tornano se consideriamo che i dati si riferiscono solo al primo anno di progetto e che Eni dichiara di voler raggiungere entro il 2026 un target di produzione di 200mila tonnellate di olio vegetale solo in Kenya.

Analoghi risultati a quelli da noi riscontrati a Mbegi sono stati testimoniati dall’ong Transport & Enviroment nell’inchiesta From Farm to Fuel sui progetti agri-feedstock di Eni in Kenya e in Congo, l’altro Paese africano dove le sperimentazioni di ricino sono state avviate da tempo. In quel caso Eni ha risposto ribadendo che il ricino “si adatta bene alle aree aride e semiaride del Kenya” e che “varietà di semi migliori e buone pratiche agricole permetteranno di migliorare la capacità della pianta di rispondere a eventi di estrema siccità”. Anche noi abbiamo chiesto una replica all’ufficio stampa di Eni, presentando una serie di domande circostanziate e riferite alle specifiche testimonianze raccolte, senza però ottenere risposta.

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

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