Uno strumento utile, ma non in grado di rappresentare una svolta. E che non deve distrarre dall’obiettivo primario: ridurre le emissioni. Altrimenti avrebbe l’effetto contrario di giustificare il ricorso ai combustibili fossili. Catturare la CO2 presente nell’atmosfera e immagazzinarla sottoterra è un’idea di cui si discute da tempo, eppure finora è stata raramente messa in pratica.
Anche perché si parla di un insieme di tecnologie emergenti, molte delle quali costose e i cui risultati sono incerti. Si può riassumere così l’opinione diffusa tra la maggior parte degli studiosi sul tema della Carbon and Capture Storage (CCS).
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Togliere dall’atmosfera una parte del carbonio è inevitabile
Il punto di partenza è un dato di fatto. Le emissioni globali di anidride carbonica ammontano a oltre 35 miliardi di tonnellate l’anno. Qualsiasi scenario per limitare l’aumento della temperatura sotto la soglia di due gradi dipende da una riduzione del carbonio presente nell’atmosfera. Considerando questa realtà, apparirebbe assolutamente sensato sviluppare e mettere in campo tecnologie per il sequestro di carbonio e per tentare di riportare indietro l’orologio eliminando in parte i danni che abbiamo causato.
Molti degli scenari futuri considerati dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), la massima autorità in materia, prevedono l’utilizzo della cattura e stoccaggio del carbonio. Sebbene non venga esclusa la possibilità di restare sotto i 2 gradi di aumento di temperatura anche senza l’utilizzo della CCS, secondo uno dei vari scenari per raggiungere l’obiettivo sarebbe necessaria la cattura e lo stoccaggio di circa 665mila milioni di tonnellate di CO2 da qui al 2100. Le proiezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia sono di assorbire 1150 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno fino al 2030 per raggiungere il traguardo “emissioni nette zero”.
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È davvero uno scenario credibile?
Il problema è che sono gli stessi scienziati a lavoro sulla Carbon Capture and Storage a non credere sia possibile sviluppare e adottare su scala mondiale questa tecnologia in tempo per limitare l’aumento della temperatura di 1.5 C° entro il 2030. Almeno la pensa così la maggior parte degli scienziati del Regno Unito recentemente invitati a esprimersi durante un evento sul tema. Mentre, addirittura, lo scorso gennaio centinaia di scienziati e professori canadesi hanno firmato una lettera di protesta in cui chiedevano al governo di non approvare una tassa che avrebbe finanziato progetti legati alla CCS.
Gli alti costi delle tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio, rendono infatti indispensabili sussidi governativi. E i governi, in genere, sono entusiasti nei confronti della CCS. Il fatto è che spesso vedono nella cattura e stoccaggio di carbonio una scorciatoia per risolvere il problema del riscaldamento globale, sollevandoli dal prendere decisioni complicate e difficili da sostenere elettoralmente. Così, secondo i critici, la cattura e stoccaggio del carbonio contribuisce all’effetto opposto di rallentare l’adozione delle misure veramente indispensabili in ottica decarbonizzazione: sviluppare le fonti di energia rinnovabili e ridurre le emissioni nell’atmosfera.
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Perché la CCS interessa alle compagnie petrolifere
Entusiasmo condiviso dalle multinazionali dei combustibili fossili come Exxon ed Eni, che stanno investendo fortemente in un mercato emergente dal valore potenziale di 12 miliardi di dollari entro il 2031, secondo alcune stime. Sicuramente la cattura e stoccaggio del carbonio contribuirebbe a rendere il settore meno dannoso per l’ambiente.
Finora, tuttavia, la maggior parte degli investimenti che sono stati fatti in progetti di cattura e stoccaggio del carbonio hanno riguardato l’utilizzo di questa tecnologia per un migliore recupero del petrolio e del metano ricavato da giacimenti. Un incentivo a seppellire sottoterra l’anidride carbonica, ma al tempo stesso ad estrarre maggiori quantità di idrocarburi. Insomma: cambiare tutto perché tutto resti uguale.
Per evitare uno scenario simile, alcuni esperti propongono di fare leva sulla tassazione imponendo un prezzo sul carbonio. Lo ha fatto ad esempio la Norvegia: una delle prime nazioni al mondo ad aver istituito una carbon tax per rendere più conveniente sotterrare la CO2 piuttosto che estrarla. Al tempo stesso ottenendo più risorse per la ricerca e lo sviluppo di progetti di CCS senza contare esclusivamente sui capitali privati, spesso interessati a continuare a rilasciare anidride carbonica nell’atmosfera.
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Come funziona la cattura e stoccaggio del carbonio
Possiamo classificare la cattura del carbonio in due tipologie distinte. La prima è l’effettuazione delle operazioni di cattura e stoccaggio del carbonio al momento della combustione. Questa tecnologia è praticamente pronta per essere applicata per catturare il carbonio da punti di forte emissione, come le centrali elettriche, oppure impianti petroliferi o cementifici.
Siccome, tuttavia, riguarda solo alcune, per quanto grandi, fonti di combustione, sarà sempre in grado di catturare soltanto una frazione modesta delle emissioni totali. Insomma, può essere utile nel periodo in cui persiste la presenza di combustibili fossili nel mix energetico, ma non ci si può certo fare affidamento. Basti pensare che a metà del 2021 in tutto il mondo c’erano circa 30 progetti su larga scala di questo tipo. Capaci di stoccare 40 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno: per intenderci è solo lo 0,1% delle emissioni globali.
La seconda tipologia di cattura del carbonio, a livello teorico potenzialmente in grado di produrre una svolta, sarebbe la Direct air capture o scrubbing del carbonio. Permetterebbe, infatti, di estrarre il carbonio direttamente dall’atmosfera utilizzando il terreno e la vegetazione oppure degli alberi sintetici o grandi ventole. Purtroppo non sappiamo ancora come mettere in pratica le teorie.
Il processo si annuncia particolarmente dispendioso energicamente nel caso dell’utilizzo di macchinari sofisticati. Inoltre, nonostante gli investimenti in ricerca, il caso della cura del cancro dimostra come non sia sempre possibile ottenere risultati in fretta come avvenuto nella corsa allo spazio. E, infatti, di fronte a tali ostacoli, ci sono casi in cui i progetti di ricerca sono stati interrotti, mentre la salute del pianeta non è nelle condizioni di permettersi di aspettare.
Una soluzione “meno tecnologica” di cattura del carbonio è la degradazione meteorica potenziata. Oltre un miliardo di tonnellate di CO2 viene sequestrato in maniera naturale tramite la degradazione meteorica delle rocce. Nella versione “potenziata” di questo processo, uno strato sottile di basalto finemente triturato viene sparso sul terreno, dove assorbe il carbonio a un tasso accelerato.
Secondo le stime di uno studio, il costo sarebbe di 200 dollari per tonnellata di CO2 assorbita, con il beneficio addizionale di migliorare la fertilità del terreno fornendogli potassio. Tuttavia il potenziale di cattura, anche nel caso di un impiego diffuso della degradazione meteorica, è stimato intorno a 5 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno: meglio di niente, è il caso di dirlo, basta però non distragga dalla priorità di evitare di immettere altro carbonio nell’atmosfera.
Quali sono gli impatti ambientali legati alla cattura del carbonio
Lo stoccaggio del carbonio, inoltre, non è una tecnologia a emissioni zero e climaticamente neutrale. Avrà impatti legati ai solventi utilizzati nei processi di separazione del carbonio, che producono materiali di scarto. Ci saranno, comunque, emissioni residuali di CO2 derivanti dal processo di cattura e dal successivo trasporto del carbonio nei siti di stoccaggio, oltre all’utilizzo delle acque di raffreddamento e diluizione e tutti gli impatti negativi temporanei durante le operazioni di perforazione per creare i giacimenti. Impatti ancora maggiori si avrebbero con lo stoccaggio nelle profondità marine, con conseguenze negative sugli habitat.
Senza contare i pericoli di fuoriuscite dopo lo stoccaggio: sono remoti, ma non inesistenti. Si ritiene che la via di fuoriuscita più probabile sia nelle vicinanze del pozzo di iniezione della CO2, perciò facile da localizzare e monitorare. Alcune accortezze, come valvole di arresto automatiche, permettono inoltre di limitare la quantità delle fuoriuscite. È ritenuta improbabile, invece, una rottura catastrofica di un serbatoio di stoccaggio, a patto naturalmente venga costruito in zone non sismiche. Tuttavia, anche piccole fuoriuscite possono causare problemi alla salute, come soffocamento e confusione mentale. È già successo nel febbraio 2020, quando 49 persone sono finite in ospedale a causa della rottura di una tubatura di CO2 in Mississippi.
La degradazione meteorica evita i rischi associati allo stoccaggio di CO2 in profondità, ma non si sa ancora chiaramente quali potrebbero essere gli effetti sulla salute dei terreni nel caso dell’impiego di alcuni minerali: la dunite, ad esempio è estremamente più efficace del basalto, ma contiene tracce di nickel e cromo. Anche il più semplice dei metodi di cattura del carbonio, la forestazione monocolturale per produrre biocarburanti, ha un impatto ambientale sul consumo di acqua, la biodiversità e soprattutto per la quantità di suolo che toglie alla produzione di cibo. Insomma, non è il caso di attendere tecnologie “salvifiche”, ma di soppesare attentamente costi e benefici e di valutare l’impatto ambientale nel complesso.
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