“In un Paese in cui la partita energetica la giocano in pochi (Eni, Snam, Terna ed Enel), con il placet di Governo, Parlamento, ARERA, Autorità per la concorrenza e Cassa Depositi e Prestiti; in cui il mancato insediamento della Commissione Pniec e Pnrr sta causando gravi ritardi nel processo di autorizzazione di centrali solari con potenza maggiore di 10 megawatt; in cui Stato e Regioni non riescono a trovare la quadra sul permitting di impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile; in cui appare sempre più inverosimile raggiungere l’obiettivo, tanto caro al Ministro Cingolani, di 114 gigawatt rinnovabili al 2030, il CCUS si candida ad essere una comoda scorciatoia (in attesa del nucleare, ovviamente!) e rischia di compromettere seriamente un serio percorso di decarbonizzazione del sistema di produzione e consumo che dovrebbe avere invece nella razionalizzazione/taglio selettivo dei consumi energetici, nella ricerca dell’efficienza e nella crescita della generazione distribuita i pilastri di un modello energetico realmente sostenibile”.
Si può partire dalla fine per inquadrare la lettera aperta che il mondo accademico e ambientalista ha inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Consiglio Mario Draghi. L’oggetto della missiva è altrettanto netto: “l’inganno della decarbonizzazione basata sulla cattura e stoccaggio e uso della CO2”. Si tratta della tecnologia nota con l’acronimo CCUS, ovvero Carbon Capture Use and Storage. A firmarla, tra gli altri, sono illustri esponenti come Vincenzo Balzani, chimico e professore emerito all’Università di Bologna; Nicola Armaroli; chimico e dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale della Ricerca; Enrico Gagliano, docente a contratto in Diritto dell’Energia e dell’Ambiente all’Università di Teramo; Enzo Di Salvatore, docente di Diritto Costituzionale e Comparato all’Università di Teramo. Al 12 dicembre le adesioni sono più di una 20ina, e continuano a crescere.
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“Una tecnologia socialmente inaccettabile”
”Proporre lo stoccaggio e l’uso della CO2 rappresenta un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale. E perseverando scelleratamente a privatizzare utili e socializzare i costi”. Non si può dire certo che i professori e le professoresse che hanno firmato l’appello abbiano lesinato in chiarezza e radicalità nei messaggi. Il punto di partenza della lettera è la recente notizia secondo la quale nella Legge di Bilancio 2022 il governo ha previsto 150 milioni di euro da destinare anche ai progetti di Ccus, nello specifico al maxi deposito che Eni intende realizzare a Ravenna (e di cui abbiamo scritto qui). Una scelta che ha fatto discutere perché giunta in contemporanea alla bocciatura dello stesso da parte della Commissione europea, che il 23 novembre ha scartato il progetto del cane a sei zampe tra quelli supportati dal Fondo Europeo per l’Innovazione. Negli scorsi mesi Eni aveva comunque avanzato al Ministero della Transizione Ecologica la richiesta di “autorizzare il programma sperimentale di stoccaggio geologico di anidride carbonica nella concessione di coltivazione «A.C 26.EA», a Porto Corsini”. Come è noto, la multinazionale energetica punta moltissimo sulla tecnologia, e non solo in Italia: a ottobre in Gran Bretagna un analogo progetto, denominato HyNet, ha ricevuto un primo ok dal governo inglese. Come sottolinea però il mondo accademico contrario a questa tecnologia, le cose però sono un po’ più complesse.
“La tesi di chi, come la IEA (l’Agenzia Internazionale dell’Energia, ndr), sostiene che la cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) e il suo eventuale utilizzo (CCUS) è un’importante tecnologia di riduzione delle emissioni che può essere applicata a tutto il sistema energetico, è riassumibile nei termini che seguono: la tecnologia è matura e costituisce un’utile soluzione ponte in grado di contribuire alla riduzione delle emissioni, affiancando le rinnovabili nel difficile percorso della transizione – si legge nella lettera – Uno dei fattori chiave che può influenzare l’adozione del CCUS su larga scala, sostengono alcuni studiosi, è l’accettabilità sociale della tecnologia, che dovrebbe essere facilitata dagli sforzi concertati e concentrati di ricercatori, università, ong e decisori politici. Al contrario, il Dipartimento per le politiche economiche, scientifiche e di qualità della vita della Direzione generale Politiche interne della Commissione, nel suo studio confezionato qualche giorno fa per la Commissione Parlamentare Industria, ricerca ed energia, sostiene che per avere un’Unione Europea ad emissioni zero nel 2050 si possa e si debba fare a meno della cattura e dello stoccaggio della CO2. Nei paesi che producono ed esportano gas naturale (tra cui Norvegia, Australia, Stati Uniti, Regno Unito e Russia) – si legge nel report – la CCS è vista come una tecnologia che può aiutare a mantenere lo status quo di utilizzo del gas naturale”.
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Cinque ragioni per un no
La domanda che si pone il mondo accademico italiano è sempre la stessa: il CCUS è realmente una tecnologia socialmente accettabile? Per spiegare le ragioni del No vengono elencate cinque ragioni:
- Le compagnie petrolifere sono tra le principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti. Nonostante ciò, pretendono che i progetti per la cattura, l’uso e lo stoccaggio di carbonio siano pagati dagli Stati, quindi dalle collettività. “I costi esterni delle attività petrolifere (sia upstream sia downstream) sono ampiamente pagati dalla collettività in termini di decessi, maggiore spesa sanitaria, perdite di raccolti e di giornate di lavoro, perdita di P.I.L., ecc. ecc., causati dal cambiamento climatico – viene riportato nell’appello a Mattarella e Draghi – È socialmente accettabile, dunque, che siano proprio le vittime delle emissioni di gas climalteranti a dover risarcire i “carnefici”, già abbondantemente assistiti con 19 miliardi di euro l’anno di Sussidi Ambientalmente Dannosi, sopportando per una seconda volta il costo dell’abbattimento della CO2?”
- “L’iniezione e lo stoccaggio della CO2 nei pozzi in via di esaurimento o già esauriti daranno nuova linfa alle attività estrattive di gas e petrolio. Non è casuale che lo stoccaggio del carbonio sotterraneo su scala commerciale sia stato finora effettuato solo in giacimenti di petrolio o gas operativi (recupero avanzato di petrolio/gas) e non in altre formazioni geologiche”. È quel che accadrà anche con Eni a Ravenna, è il timore degli esperti, per “prolungare il ciclo di vita dei giacimenti nell’Alto Adriatico iniettando e stoccando CO2 nei suoi pozzi più longevi?”
- Di cattura, uso e stoccaggio di carbonio si è parlato (lo ha fatto anche Eni) anche per la produzione di idrogeno da fonti fossili (è il cosiddetto idrogeno blu). “Finanziare il CCUS significherebbe dunque dare la stura alla produzione di idrogeno blu e, di conseguenza, all’estrazione ed al consumo di gas in un orizzonte temporale che si spinge fino al 2050, ben oltre, quindi, il punto di non ritorno. Sono questi i tempi di una transizione sostenibile?” si chiede il mondo accademico italiano
- “Lo stoccaggio di CO2 in pozzi in via di esaurimento o già esauriti esime i concessionari di coltivazione dall’effettuare costosissime attività di ripristino ambientale: dai 15 ai 30 milioni di euro per singola piattaforma, secondo il Roca di Ravenna. Considerato che le piattaforme di Eni in mare sono 138 (fonte: Progetto Poseidon, Eni), riconvertire le stesse piuttosto che smantellarle eviterebbe costi stimabili mediamente in oltre 3,15 miliardi di euro”. Insomma: per i professori la Ccus potrebbe essere l’escamotage per evitare le bonifiche
- “Eni sa perfettamente, e non da ieri, che il CCUS costituisce un’arma formidabile per sviluppare un nuovo mercato, con potenzialità e profittabilità come pochi altri. Eni ed Enel ci avevano già lavorato sopra, giungendo a perfezionare nel 2008 un accordo strategico di cooperazione per lo sviluppo delle tecnologie di cattura, trasporto e stoccaggio dell’anidride carbonica. La CO2 estratta dalla centrale Enel a carbone di Brindisi, una volta liquefatta, avrebbe dovuto essere un giorno stoccata da Eni nel giacimento esaurito di Stogit a Cortemaggiore”. In pratica, secondo gli scienziati, il timore è che impianti del genere sostituiscano il mercato dei crediti di carbonio, peggiorando la situazione: nessuna azienda sarebbe costretta ad acquistare quote di anidride carbonica perché gli basterebbe convogliare la CO2 prodotta nell’impianto a sei zampe
“Il governo ha imboccato la strada del bunker”
Di fronte a questo scenario, dunque, gli scienziati e gli esperti dell’energia italiana hanno scelto di rivolgersi direttamente al premier Draghi e al presidente Mattarella, per scongiurare quella che Alberto Bellini, docente di Convertitori, macchine e azionamenti elettrici all’Università di Bologna, definisce “la teoria del bunker”. Al netto del fatto che sulla cattura, l’uso e lo stoccaggio di carbonio anche l’Unione europea, recentemente, ha assunto posizioni contraddittorie.
“È vero in parte che si fa fatica a capire qual è la linea dell’Europa e che si tratta di una discussione ancora aperta – sostiene Bellini – Perché una cosa è la tassonomia, con la recente apertura a gas e nucleare, un’altra le strategie di lungo termine. Qui ad esempio faccio notare che la Banca Europea degli Investimenti ha deciso a gennaio di non finanziare più le fonti fossili. Anche il Green Deal europeo ha scelto di portare avanti gli stessi obiettivi”. Di fronte a una certa ambiguità a livello europeo, però, il docente fa notare che “l’Italia segue una linea chiara, quella che io definisco la teoria del bunker: cioè manteniamo il nostro sistema energetico e usiamo il bunker per buttare via tutto lo sporco, cioè l’anidride carbonica. È un modello sostenuto dal governo e direttamente dal ministro Cingolani, ovviamente supportato da Eni”.
Da qui, dunque, nasce “l’esigenza di scrivere che questo modello ci appare rischioso, perché mantiene in vita l’economia fossile, che ha molti difetti: a partire dall’inquinamento, non solo dei gas serra ma anche l’impatto ambientale, così come i costi altissimi per mettere in vita un bunker che si basa una tecnologia non matura”. Nella lettera, poi, non c’è solo la critica ma si indica la strada delle rinnovabili, che ci sono già e che secondo il professor Bellini “potrebbero avere un ruolo ancora più predominante se si investisse, con la stessa attenzione che si mette nel Ccus, sullo stoccaggio di energia”. Il docente dell’Università di Bologna fa anche notare che la transizione, ecologica ed energetica, “ha bisogno di tempo, di formazione costante, di aggiornamento, di investimenti ampi e sicuri. È quello che da tempo sosteniamo serva proprio a Ravenna, dove bisognerebbe investire sulla trasformazione degli impianti di Eni e delle imprese locali che operano con lei. Siamo consci che Eni è un patrimonio italiano, non ci giriamo intorno, ma serve farle imboccare un’altra direzione strategica”.
Inoltre, fa notare ancora Bellini, “molte informazioni non sono note. La nostra lettera è anche una richiesta di trasparenza, perché è dovere del governo dichiarare esplicitamente dove vanno gli investimenti. Sul Ccus, invece, prima col governo Conte e poi col governo Draghi abbiamo assistito a inserimenti nel Pnrr che poi sono stati tolti o negati, e ancora non si capisce in che modo il governo vuole sostenere questa tecnologia. Allo stesso tempo – continua il docente – abbiamo assistito in questi mesi a dichiarazioni e impegni sulle rinnovabili certamente meritevoli, ma non possono più bastare le parole. Io ad esempio avevo apprezzato la volontà di intervenire sulla regolazione, ma finora non si è visto molto, così come non si è visto nulla sugli investimenti nelle strutture di accumulo di energia. Investire in determinate politiche industriali come quella della cattura, l’uso e lo stoccaggio di carbonio è un errore economico e non solo ambientale”.
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