Con 24 ore di ritardo e sterilizzato dalle divergenze tra le parti, il Glasgow Climate Pact, ovvero l’accordo finale del vertice Onu sul clima, è stato siglato, dopo lunghe trattative e minacce di far saltare il tavolo, nella tarda serata di ieri con il consenso di tutti i Paesi. Dai target di riduzione al phase out dal carbone, dall’orizzonte zero emission alla finanza climatica le novità non sono incoraggianti.
Distratti forse anche dalle pressioni degli oltre 500 lobbisti del fossile arrivati tra i padiglioni della Cop26, i leader mondiali hanno continuato a scontrarsi fino all’ultimo su cifre e date finendo nuovamente col sacrificare sull’altare della diplomazia gli impegni concreti, rimandati a data futura pur di raggiungere uno straccio di accordo.
Il testo finale “chiede alle parti di rivedere e rafforzare gli obiettivi al 2030” per allinearsi agli obiettivi del 2015 e di farlo entro la fine del 2022. La nuova valutazione sul portato degli impegni nazionali dovrà dunque essere rimandata di un altro anno.
Il documento riafferma l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto di 2 °C” e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C. Riconoscendo che il limite a +1,5°C richiede tagli delle emissioni rapidi e profondi, indica come target la riduzione di CO2 del 45% al 2030 rispetto ai livelli del 2010, per azzerarla non più “entro” ma “attorno” alla metà del secolo.
Rileva poi, non senza “profondo rammarico” che l’obiettivo dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno non è stato raggiunto neanche questa volta, dunque sollecita a realizzare pienamente tale obiettivo “con urgenza”. Dal testo finale sono infatti spariti, dopo le dichiarazioni di disponibilità e solidarietà susseguitesi nei giorni scorsi, anche gli ormai tristemente noti 100 miliardi del fondo per il clima, sventolati come una chimera da più di 10 anni come contributo alla mitigazione e all’adattamento per i Paesi più vulnerabili. Contributo che, come i tartari nel deserto, non arriva mai, nonostante annunci e attese.
I (pochi) aspetti positivi
Non tutto però è da buttare. Ci sono nel testo almeno tre punti da considerare positivi.
Il primo: la revisione dei target nazionali si farà ogni anno e non più ogni cinque; uno strumento attraverso cui si auspica sarà possibile controllare maggiormente l’operato delle parti.
Il secondo: per la prima volta si fa riferimento in una decisione della Cop ad un target di riduzione e ad un anno di riferimento: -45% al 2030. Non si tratta di un orizzonte di grande ambizione: per prevenire gli effetti più drammatici del cambiamento climatico, l’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) raccomanda di ridurre le emissioni di gas serra almeno del 65% al 2030. Ciò nonostante, l’indicazione di un obiettivo rappresenta una novità non trascurabile per il formale linguaggio della diplomazia internazionale.
L’ultimo aspetto positivo è soltanto un segnale, insufficiente e di per sé privo di esecutività, ma è rilevante che nel testo si faccia finalmente espressa menzione – anche qui per la prima volta – a combustibili fossili, carbone e sussidi ambientalmente dannosi.
L’analisi letterale dell’Accordo finale e il gioco “trova le differenze” tra le diverse bozze dell’ultima settimana rischiano tuttavia di distrarre dal punto nodale. Al di là della sopravvivenza nel testo di un inedito ma assai affievolito riferimento alle fonti fossili o dell’aggiunta di aggettivi come quello che definisce i sussidi da eliminare solo se “inefficienti”, il centro della questione resta un altro. Gli impegni attuali, inclusi quelli emersi a Glasgow, porteranno al 2100 le colonnine di mercurio ad almeno +2,7°C; altro che 1.5°C.
Lo scenario che si configura è potenzialmente apocalittico, l’entità degli impatti non è oggi prevedibile.
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Hanno vinto i rinvii e le defezioni
Durante le due settimane di lavori, la strada dei buoni propositi è stata lastricata di tira e molla che hanno indebolito ogni decisione potenzialmente rilevante. Se è vero che il 90% dei paesi si è impegnato a stabilire entro quando azzerare le emissioni, la Cina e la Russia hanno preso 10 anni di più di quanto raccomanda la scienza – 2060 invece che 2050; l’India ha annunciato che punta al 2070.
L’accordo globale sul phase out dal carbone è saltato; un mini-accordo, firmato da poche decine di Paesi, avrà come orizzonte temporale la fine del decennio 2030 per i paesi industrializzati e del decennio 2040 per il resto del mondo. Decisamente troppo tardi. E comunque mancano le firme di Usa, Cina, India e Australia. Anzi, mentre l’accordo veniva discusso giungeva notizia che in Cina la produzione giornaliera nazionale di carbone aumentava di 1 milione di tonnellate.
Degno di nota è anche il destino dei sussidi ai combustibili fossili. L’accordo BOGA, acronimo di Beyond Oil and Gas Initiative, impegnerebbe i poco più di 20 Paesi firmatari a fermare entro il 2022 nuovi finanziamenti esteri a sostegno dei fossili, ma soltanto dove privi di misure di abbattimento. Inutile dire che sui sussidi all’energia fossile l’unica politica coerente con la sfida climatica sarebbe eliminare d’emblée i 5,9 trilioni di dollari americani (stime FMI) stanziati globalmente ogni anno. L’Italia ha aderito all’accordo in zona Cesarini, ma piuttosto che divenire partner o associato ha annunciato la sua adesione come “friend”, ovvero vincolandosi a impegni ancor meno stringenti. Non sia mai che si mettano in discussione gli oltre 17 miliardi di euro che ogni anno il nostro paese destina a sovvenzionare le fonti energetiche colpevoli della crisi climatica.
Tutto sommato, pur tenendo in conto alcuni piccoli segnali positivi, è impossibile non valutare Glasgow come l’ennesima occasione persa sulla strada ancora lunga e sempre più in salita per vincere la sfida del secolo contro l’emergenza climatica.
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