Negli ultimi anni i disastri ambientali prodotti dagli effetti dei cambiamenti climatici hanno alimentato quotidianamente le cronache dei giornali. Eppure alla Cop26 di Glasgow il tempo sembra essersi fermato e la retorica dei politici e dei media continua a descrivere i decenni di inazione climatica come un formidabile sforzo per contrastare l’emergenza del secolo.
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I dati emersi alla Cop26
Ancora prima dell’inizio delle negoziazioni i dati degli organismi ONU parlavano già chiaro sull’insufficienza delle azioni messe in campo da stati e imprese. Con il report “Production gap” uscito a ottobre 2021, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) lanciava già l’allarme: secondo lo studio i 15 principali produttori di combustibili fossili al mondo prevedono di produrre in totale il 110% in più di combustibili fossili al 2030 rispetto a quanto sarebbe coerente per limitare le temperature agli ormai famosi +1,5 gradi, e il 45% in più rispetto al limite dei +2 gradi entro il 2100.
E di nuovo, da Glasgow, il Climate Action Tracker (CAT), organismo indipendente di esperti climatici fra i più rispettati al mondo, ha rilanciato con un’ulteriore segnalazione. “Se si guardano gli impegni di riduzione a breve termine – si legge in una nota – nel 2030 le emissioni saranno il doppio di quello che dovrebbero essere per rimanere entro i +1,5 gradi di aumento delle temperature e entro le fine del secolo si raggiungerà un aumento di almeno 2,4 gradi”.
“Siamo molto preoccupati, molti Paesi alla Cop26 vogliono raccontare che si riuscirà a rispettare il limite del +1,5 gradi ma ne siamo ben lontani, e cercano di sminuire la necessità di fissare dei target al 2030 allineati con l’obiettivo del +1,5 gradi” commenta Bill Hare, amministratore delegato di Climate Analytics, organizzazione che fa parte del Climate Action Tracker e che si occupa di dare le pagelle alla performance climatica dei singoli attori a livello globale.
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People’s Summit, il controvertiche che denuncia le false soluzioni della COP26
Intanto, fuori dai padiglioni della COP26, dal controvertice del People’s Summit – che in questi giorni ha riunito attivisti, organizzazioni e movimenti da tutto il mondo – arriva un messaggio chiaro.
L’inganno delle false soluzioni e dei target di impegni net-zero non permettono di far fronte all’emergenza climatica, ma concorrono piuttosto a incentivare e riprodurre un meccanismo che riproduce le cause del problema all’infinito.
Dal summit dei grandi della Terra, infatti, è del tutto assente il dibattito sulla pianificazione della fine dello sfruttamento delle energie fossili, delle foreste e degli ecosistemi. Non si discute di come realizzare una transizione equa, ma si continua a parlare di mercato del carbonio, compensazioni, carbon capture and storage e geoingegneria. Tutte soluzioni che partono da un unico presupposto: porre un rimedio alle emissioni prodotte pagando un prodotto o utilizzando innovazioni tecnologiche, senza smettere di consumare e sfruttare risorse.
Un approccio che non è mai cambiato fino dal lancio delle prime Cop. Persino nell’accordo di Parigi del 2015, infatti, parole chiave come petrolio, gas, carbone sono del tutto assenti. Le discussioni ufficiali della Cop, insomma, continuano ad ignorare l’elefante nella stanza: lo sfruttamento delle risorse alla radice delle emissioni.
Gli elefanti nella stanza che sono stati visti e ricevuti tra gli elogi dei presenti sono invece i centinaia di delegati delle lobby delle energie fossili. Secondo i dati analizzati dai principali osservatori internazionali come Corporate Accountability, Corporate Europe Observatory, Glasgow Calls Out Polluters e Global Witness sono 503 i lobbisti delle corporation fossili, accreditati da 27 delegazioni nazionali ufficiali.
Una delegazione più ampia di tutti i negoziatori degli 8 Paesi più colpiti dal cambiamento climatico negli ultimo 20 anni: Porto Rico, Myanmar, Haiti, Philippine, Mozambico, Bahamas, Bangladesh e Pakistan.
A nulla sono valsi gli appelli di attivisti e movimenti al governo inglese per tenere fuori i rappresentanti del settore fossile. Evidente segno della collusione fra gli Stati e le aziende fossili.
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La risposta legale all’inazione degli Stati
Dopo quasi 30 anni di cooperazione internazionale sul clima, l’accumularsi dell’inazione climatica sta raggiungendo un punto di non ritorno. Alla mancata presa di responsabilità da parte dei poteri pubblici e privati, la società civile ha risposto mobilitando azioni legali per trascinare i Paesi in tribunale. Tra i padiglioni della Cop26 e gli edifici del People’s Summit sono decine gli attivisti e gli avvocati da tutto il pianeta che sono venuti a presentare i loro contenziosi climatici contro gli Stati.
Con più di 1800 casi in tutto il mondo, le azioni legali in difesa del clima costituiscono una nuova frontiera della lotta al cambiamento climatico. Molti di questi contenziosi hanno permesso un rilevante avanzamento giuridico e politico e hanno costretto gli Stati a riconoscere che l’aumento delle temperatura rappresenta una minaccia per i diritti fondamentali dell’uomo. Attraverso il riconoscimento delle responsabilità di stati e imprese nell’emergenza climatica in violazione dei diritti umani molte corti hanno ordinato la revisione al rialzo delle proprie ambizioni e azioni climatiche.
Dopo la storica vittoria del caso Urgenda contro lo stato olandese nel 2019, il 2021 ha visto la condanna di Germania e Francia, costrette a rivedere i propri livelli di riduzione delle emissioni di gas serra. Tra i rappresentanti delle climate litigation europee presenti alla Cop, i promotori del caso Urgenda in Olanda, gli attivisti di German Watch in Germania e poi Notre Affaire à Tous per la Francia.
Tanti i successi raccontati dagli attivisti durante le giornate della Cop: lo scorso aprile, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la Germania ha rivisto i target di riduzione passando dal 55% al 65% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e anticipando al 2045 l’anno in cui raggiungere la neutralità climatica. Mentre lo scorso 14 ottobre lo Stato francese è stato condannato a tagliare 15 milioni di tonnellate di CO2 entro dicembre 2022. Sempre quest’anno un altro caso importante: quello di Milieudefensie e altre organizzazioni ambientali olandesi che a maggio hanno vinto la causa contro Shell presso la Corte dell’Aja. La compagnia che ad oggi produce l’1% delle emissioni globali è stata condannata a una riduzione delle emissioni del 45% entro il 2030.
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Tra le azioni climatiche ora c’è anche quella italiana
Anche il caso italiano Giudizio Universale, promosso da A Sud, Fridays for future, Per il clima fuori dal fossile e altre 202 Ricorrenti tra adulti, giovani, bambini e organizzazioni. La prima causa contro lo Stato per inazione climatica è stata protagonista di queste giornate di eventi e incontri a latere della Cop. Durante i 3 panel di discussione tra i side event della Cop ufficiale e il People’s Summit dei movimenti, la presidente del Centro Documentazione Conflitti Ambientali di A Sud ha raccontato il lancio della causa, le motivazioni e i dati a supporto dell’azione.
Secondo il report di Climate Change Performance Index 2022, nonostante la sua particolare vulnerabilità agli impatti del cambiamento climatico, l’azione climatica del nostro Paese rimane tragicamente indietro. Dal dossier, prodotto da Germanwatch, CAN e New Climate Institute, si apprende che la performance climatica dell’Italia è davvero pessima, visto che il nostro Paese si classifica al 30esimo posto su 63 fra i Paesi studiati.
A supporto di questi dati anche lo studio di Climate Analytics commissionato da A Sud, pubblicato integralmente lo scorso 11 novembre. Considerando la responsabilità storica e attuale del nostro paese e la sua capacità tecnologica e finanziaria, per rispettare gli accordi di Parigi Climate Analytics ha calcolato che l’Italia dovrebbe ridurre le proprie emissioni del 92% entro il 2030.
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