I fanghi di depurazione sono una strana creatura composta da tre quarti d’acqua e un quarto di rifiuti, capaci di condensare in un colpo solo due mondi apparentemente diversi: il ciclo idrico e quello dei rifiuti. Nascono come reflui, con una provenienza legata alla gestione delle risorse idriche, e solo in un secondo momento grazie al passaggio presso un impianto di depurazione – mai dato per scontato in Italia – si trasformano in “fanghi”.
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Cosa sono i fanghi di depurazione
Sono, infatti, il prodotto di trattamenti depurativi in cui si concentrano gli inquinanti rimossi dalle acque reflue, ovvero una sospensione liquida, più o meno ricca di solidi di natura organica e inorganica, con una percentuale di sostanza secca, pari a circa il 20 per cento. Per questo tipo di rifiuti, dunque, vale fino a un certo punto uno dei cardini della circolarità che “meglio non produrli”, perché al contrario – e al netto del fatto che è sempre meglio consumare meno acqua possibile – hanno origine da processi di depurazione e di gestione corretta dei reflui.
Una volta prodotti, per i fanghi, come per gli altri rifiuti, si aprono due strade: lo smaltimento o il recupero. Il bruco può rimane tale oppure diventare farfalla e cominciare a volare nel cielo dell’economia circolare. Inutile aggiungere che, seguendo la logica della gerarchia dei rifiuti, la seconda è sempre da prediligere alla prima.
Idrogeno per una gestione circolare degli impianti di depurazione
I fanghi di depurazione in Italia: esiste un’emergenza?
Purtroppo, le cose nel nostro paese non sono mai semplici, sia a monte che a valle, cominciando dal fatto che quello della depurazione è un male storico. Se i riflettori si accendono a ogni inizio di bella stagione e con le spiagge prese d’assalto, si spengono presto con gli ombrelloni chiusi.
Al 2018 risultano in esercizio poco più di 18mila impianti di depurazione delle acque reflue urbane, numero che seppur in leggero aumento non è ancora sufficiente a soddisfare i fabbisogni della popolazione: 1,6 milioni di cittadini vivono attualmente in aree prive di depuratori (Istat 2020). Un ritardo colpevole. Vista anche da questa prospettiva l’Italia si conferma un paese a geometria variabile, con un nord in generale meglio attrezzato e un centro-sud, in particolare il sud, in grave emergenza.
Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla Legge Merli che disciplinava in maniera netta gli scarichi nelle acque e nel sottosuolo, soprattutto a queste latitudini i depuratori sono ancora un miraggio, e quando ci sono lavorano a singhiozzo o completamente fuori legge, come dimostrano le ricorrenti inchieste degli inquirenti (soprattutto al sud). Il cattivo funzionamento degli impianti di depurazione, infatti, è tra le principale cause di contestazione del delitto di inquinamento ambientale (Legambiente, Ecomafia 2020).
I fanghi nelle diverse regioni
Stando ai dati dell’ISPRA (Rapporto Rifiuti Urbani 2020), nel 2018, complessivamente l’attività di depurazione dei reflui urbani ha originato più di 3,1 milioni di tonnellate di fanghi, a cui vanno aggiunte le circa 800 mila tonnellate provenienti dal trattamento dei reflui industriali. La Lombardia è la regione con il maggior quantitativo prodotto, oltre 445mila tonnellate (14,2% sul totale nazionale), seguita subito dopo dall’Emilia-Romagna con 387mila tonnellate (12,4%).
Per quanto riguarda la gestione, le tonnellate di fanghi derivate dal trattamento delle acque reflue urbane gestite nel 2018 sono state poco più di 2,9 milioni. Come modalità di gestione lo smaltimento in discarica (56,3% del gestito) prevale sul recupero (40%), a testimonianza di come vi siano ampi spazi per la valorizzazione dei fanghi di depurazione. Dagli stessi dati emerge che circa il 70% del recupero certificato è di tipo R3, ossia riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche).
Fanghi e gessi di depurazione: senza tracciabilità il rischio è grosso
Ergo, ancora oggi finiscono in discarica, ogni anno, oltre 1,6 milioni di tonnellate di fanghi, che al contrario potrebbero essere trasformati in nuove materie o energia (soprattutto con digestione anaerobica). A livello regionale, sempre la Lombardia è la regione dove vengono recuperate le maggiori quantità di fanghi (631 mila tonnellate). Si tratta di un ammontare che supera quanto recuperato complessivamente da tutte le altre regioni (pari a 536 mila tonnellate), per un totale di 1.167 mila tonnellate. Il Lazio, al contrario, con solo 280 mila tonnellate recuperate, è la regione dove le quantità smaltite sono più elevate, seguito da Emilia-Romagna (218 mila) e Toscana (216 mila).
Il gap tra Nord e Sud
Come ha spiegato analiticamente Ref nel suo recente position paper, si registra a livello nazionale un bilancio di gestione dei fanghi in negativo per circa 222mila tonnellate, considerato che i deficit gestionali del Sud (-246 mila tonnellate) e del Centro (-137 mila tonnellate) non vengono compensati dai surplus del Nord (81 mila tonnellate) e delle due Isole maggiori.
Il paradosso è che, seguendo ancora questa analisi, la situazione già critica rischia di aggravarsi ulteriormente: se l’Italia decidesse di mettersi in regola costruendo i depuratori che servono, che a quel punto la produzione di fanghi schizzerebbe a circa 4,4 i milioni di tonnellate all’anno, ossia 1 milione e 300 mila tonnellate in più da gestire rispetto alle quantità abituali. Attualmente, solo la Lombardia può vantare una capacità impiantistica capace di gestire in un’ottica di recupero, quindi di piena valorizzazione, l’incremento atteso di 239mila tonnellate/anno derivante dal completamento delle fognature e dei depuratori mancanti.
Energia e fertilizzanti dai fanghi di depurazione. Un esempio concreto di economia circolare
L’emergenza fanghi di depurazione: problemi e possibili soluzioni
Questo scenario abbastanza plumbeo pone le basi per almeno tre vere e proprie emergenze: la prima riguarda le procedure di infrazioni dell’UE con le relative condanne (soprattutto in termini di costi a carico dei contribuenti); la seconda, la continua migrazione dei fanghi alla costante ricerca di collocazione, con aggravi di costi in un contesto di grave inefficienza; la terza il sistematico ricorso a pratiche illegali, essendo ancora oggi la stragrande maggioranza di scarti trafficati illegalmente, più del 45% del totale che finisce nelle mani dei trafficanti di rifiuti (fonte Legambiente, 2020).
Per uscire dall’emergenza l’unica soluzione è una pianificazione su scala nazionale che si rifletta a cascata anche a livello regionale e sub regionale. La scelta tra la strada dell’inferno della discarica o al contrario l’ascesa verso il paradiso del recupero dipende da questi due elementi strategici, fondamentali per inserire nella catena del valore, quindi in mercati potenziali ed efficienti, anche i reflui provenienti da attività industriali, zootecnia e in genere agroalimentare su tutti. Quest’ultimo, il mercato, non è dato solo da fattori esogeni (per esempio dalle dinamiche della domanda) ma soprattutto da fattori endogeni, che prima ancora che agire sull’offerta siano capaci di migliorare l’efficienza della filiera, generando sistema.
Qualche strumento sulla retta via c’è già come il sistema tariffario regolato da ARERA pensato per chiudere il ciclo idrico contemplando anche i fanghi e all’estero ci sono modelli efficaci di collaborazione tra soggetti pubblici e privati che potrebbero essere imitati. Al momento, però, il nostro Paese sembra prediligere un approccio spontaneistico al problema che, vista la scarsità di impianti di depurazione e la gestione poco trasparente della fase finale di riutilizzo dei fanghi, potrebbe condurre ad una vera e propria emergenza già nei prossimi anni.
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