Dopo l’inchiesta del Guardian che ha travolto Verra, uno dei più grandi enti certificatori di crediti di carbonio, l’amministratore delegato David Antonioli si è dimesso. Per dare un’idea della portata dello scandalo, nei 15 anni di attività del manager l’azienda ha emesso oltre un miliardo di crediti di carbonio, che avrebbero dovuto compensare un miliardo di tonnellate di anidride carbonica. L’inchiesta del Guardian ha aperto dunque uno squarcio su un sistema complesso, con numerose aree grigie. Ma come funziona il mercato volontario dei crediti di carbonio?
Per comprenderlo bisogna partire dalle raccomandazione dell’Intergovernal Panel on Climate Change (Ipcc), principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, che ha stabilito che per limitare il riscaldamento globale a 1,5° le emissioni nette globali di CO2 prodotte dall’attività umana devono diminuire del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030, raggiungendo lo zero intorno al 2050. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiede notevoli riduzioni di emissioni di gas serra in tutti i settori della società e dell’economia, oppure che ogni emissione venga bilanciata dalla rimozione di CO2 dall’atmosfera.
Leggi anche: Dal net zero alla riforestazione. L’impresa di riconoscere il greenwashing
Ridurre o compensare?
L’espressione rimozione dell’anidride carbonica (Carbon Dioxide Removal – CDR) fa riferimento al processo attraverso il quale si sottrae CO2 dall’atmosfera, per cui spesso le pratiche e le tecnologie che rimuovono CO2 sono descritte come “emissioni negative”. Esistono due tipi principali di CDR. Il primo riguarda il potenziamento di processi naturali esistenti che rimuovono il carbonio dall’atmosfera come l’ aumento dell’assorbimento degli alberi, del suolo o altri depositi di carbonio; il secondo consiste nell’utilizzo di processi chimici finalizzati come la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS). Secondo l’Ipcc, tutti i metodi di CDR sono attualmente a diversi livelli di sviluppo: alcuni sono più teorici di altri, e non sono mai stati testati su larga scala, per cui affidarsi all’utilizzo di tecnologie e misure CDR su larga scala è rischioso per le implicazioni che potrebbero avere sullo sviluppo sostenibile e la competizione per l’utilizzo di terreno, acqua ed energia. Mentre una riduzione della domanda energetica unita a minori consumi potrebbe ridurre in maniera più netta e più rapida la dipendenza dai CDR. Per comprendere meglio la questione basti pensare che le scienziate e gli scienziati dell’organismo Onu suggeriscono di ridurre le emissioni del 90% entro il 2050 e di utilizzare tecniche di rimozione dall’atmosfera solo per il restante 10%.
La distinzione non è banale: se prendiamo in considerazione uno stakeholder virtuoso che segue alla perfezione le indicazioni avremmo un’azienda carbon neutral, che cerca di ridurre quasi del tutto le sue emissioni e compensa tramite CDR solo un 10% delle emissioni più difficili o impossibili da compensare. Ma la realtà è molto lontana da questa previsione: attualmente, nei processi industriali, ci sono stakeholder che considerano la carbon neutrality attuabile solamente attraverso la compensazione.
I motivi sono diversi: le aziende non sono in grado tecnologicamente ed economicamente di effettuare una riduzione immediata delle emissioni perché la giudicano non convenente, specie quando il processo produttivo in sé è altamente impattante (vedi il settore dell’aviazione). Per ridurre le emissioni servirebbe un cambiamento più ampio del modello produttivo. Ma si tratta di un orizzonte ancora lontano. Per cui, nel breve e medio termine, si preferisce ripiegare sulla compensazione.
Leggi anche: La cattura e stoccaggio di carbonio sta fallendo: lo dicono i risultati
Mercati volontari e obbligatori
Per compensare, dunque, gli stakeholder pagano per ciò che emettono, operando in maniera diversa a seconda dei loro mercati di riferimento. Distinguiamo tra mercati come schemi obbligatori o di conformità (mandatory allowances market) o programmi volontari (volontary carbon market).
Il più grande mercato europeo obbligatorio è l’European Trading System (ETS), uno strumento politico creato dalla Commissione Europea che mira a ridurre le emissioni di carbonio dell’industria obbligando le aziende a detenere un permesso per ogni tonnellata di CO2 emessa. Include grandi aziende come acciaierie, impianti di cogenerazione, raffinerie, industrie chimiche.
Tutte le aziende che non rientrano nel mercato obbligatorio possono operare sul mercato volontario dove acquistano crediti di carbonio. Ogni credito corrisponde a un progetto di compensazione. Le aziende vogliono rientrare nel mercato principalmente per ragioni di marketing e posizionamento, ma non mancano stakeholder che ne fanno una strategia di decarbonizzazione con team ad hoc per la selezione dei progetti di crediti di carbonio.
Misurazione, riduzione e compensazione sono le tre fasi attraverso cui passa un’azienda prima dell’acquisto. Allo stato dell’arte esiste solo un metodo per la misurazione: l’analisi del ciclo di vita dei prodotti (LCA – life cycle assesment) di processi, prodotti e servizi. Le aziende usano dei modelli per prevedere la loro carbon footprint, per simulare, cioè, qual è l’impatto sull’ambiente di un determinato prodotto, servizio o processo lungo tutto il suo ciclo di vita. C’è da tenere presente che questa simulazione consente di analizzare l’impatto in termini di emissioni di CO2, principale responsabile del riscaldamento globale, ma ci sono altri impatti che andrebbero legati al cambiamento climatico e calcolati (come l’estrazione di metalli). In questo sistema la CO2 diventa il principale driver di mercato.
Dunque le aziende calcolano la loro impronta carbonica e la convertono in un numero quantificabile che consente loro di conoscere la portata del proprio impatto ambientale e la quantità di emissioni. In base a quel numero dovrebbero acquistare crediti di carbonio per quella parte di emissioni difficili o impossibili da ridurre, ma nei fatti ne acquistano molti di più.
Un credito di carbonio corrisponde all’abbattimento di una tonnellata di CO2 equivalente (o di un altro gas serra). La CO2 viene abbattuta o evitata attraverso progetti certificati e ogni progetto ha un prezzo diverso.
Leggi anche: Mai dire ‘sostenibile’ senza un’analisi LCA. Dalla Danimarca una guida per il marketing ambientale
La strategia di prezzo
Nel mercato volontario i prezzi dei progetti variano moltissimo. La variazione di prezzo è dovuta al fatto che all’interno del mercato ci sono sia aziende che hanno bisogno di compensare, e quindi acquistano crediti, sia imprese il cui processo produttivo consente la riduzione delle emissioni, e dunque forniscono crediti da acquistare. Si pensi, ad esempio, a un impianto eolico: mentre produce energia pulita mette a disposizione sul mercato volontario crediti di carbonio a un prezzo molto basso. Il prezzo dipende quindi dal progetto. Impianti di energia pulita operano di per sé una riduzione delle emissioni; progetti di riforestazione, invece, avranno un prezzo più alto perché operano una vera e propria compensazione per l’azienda che ne ha acquistato i crediti. Come tutti i mercati, poi, la variazione è dovuta alle oscillazioni in base alla fiducia degli stakeholder: se, poniamo il caso, durante una Conferenza globale per il clima i crediti di carbonio venissero definiti “inutili”, allora i prezzi crollerebbero; se, viceversa, i policy-maker dovessero definirli come la soluzione migliore allora i prezzi si alzerebbero.
Un altro elemento della strategia di prezzo è riuscire a comunicare bene la qualità del progetto: un progetto che non solo compensa ma ha degli impatti positivi addizionali, per esempio sulle comunità che vivono in quell’area, costerà di più ma avrà una qualità migliore.
Le aziende, spesso, comprano crediti di carbonio di progetti che costano poco anche perchè sono ugualmente certificati dagli enti certificatori, senza distinzione sulla qualità di progetto, che è considerato un criterio di scelta solo per l’azienda virtuosa.
Le previsioni di mercato ci dicono in ogni caso che i prezzi si alzeranno: raggiungere il 90% di riduzione di emissioni entro il 2050 è ancora un obiettivo lontano, come dimostrano gli impegni presi con l’Accordo di Parigi, ancora insufficienti secondo le raccomandazioni delle scienziate e degli scienziati. Le aziende avranno sempre più bisogno di progetti di compensazione per cui si alzerà la domanda di crediti di carbonio.
Leggi anche: Trasporti e inceneritori dovranno pagare le quote di emissioni, le decisioni del Parlamento Eu
Chi partecipa al mercato dei crediti di carbonio
I soggetti del mercato sono le aziende, che si avvalgono di consulenze per il calcolo delle loro emissioni e costituiscono la domanda. Dalla parte dell’offerta troviamo la figura del project developer, che cerca il luogo adatto dove sviluppare il progetto e le organizzazioni a supporto. In questa fase di scelta del luogo e della tipologia di progetto troviamo le prime differenze tra progetti comunitari, che includono le popolazioni, e progetti di mera riforestazione. Il passaggio successivo è cercare uno standard di certificazione.
Ci si rivolge quindi agli enti certificatori tra cui, appunto, Verra, Gold Standard e Plan Vivo tra i più noti, che hanno la funzione di tenere un registro finanziario con tutte le transazioni di compravendita dei crediti di carbonio. In questo registro sono presenti codici univoci che identificano chi compra e acquista i crediti di carbonio e le quantità acquistate.
Oltre agli enti certificatori ci sono anche gli enti terzi di validazione, tra cui Rina, TUV, Rainforest alliance, che verificano la documentazione (e in questo caso la figura annessa è quella del project design document) prodotta dagli sviluppatori di progetto. Gli enti di validazione sono indipendenti: devono validare che le norme di progetto descritte nella documentazione siano in linea con le metodologie dei protocolli di questi standard di certificazione.
Come in tutti i mercati, troviamo anche broker finanziari e intermediari che operano come consulenti per le aziende consigliando la tipologia di crediti di carbonio da acquistare in base alla convenienza.
Leggi anche: Obiettivo “emissioni zero”, le strategie della finanza sostenibile per raggiungere la neutralità climatica
I progetti
I progetti possono essere di tre tipi: rimozione della CO2, riduzione delle emissioni e avoidance, ovvero “evitamento” delle emissioni. I progetti di rimozione sono i più ricercati ma anche i più difficili da realizzare. Comprendono l’afforestazione, cioè piantare alberi dove prima non c’erano; riforestazione, ripiantare dove c’è stata deforestazione; gestione forestale sostenibile, cioè una gestione che mantiene nel tempo la salute della foreste consentendo loro di stoccare più CO2. Ci sono poi progetti di agroforestazione, che prevedono la piantumazione di alberi forestali e di colture erbacee, e il carbon farming, pratiche addizionali allo scenario di riferimento che prima del progetto non esistevano. La rimozione prevede ancora progetti di blue carbon, foreste marine costituite dalle alghe; BECCS, bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio, e DAC, rimozione dall’atmosfera attraverso stabilimenti che poi pompano la Co2 nel terreno.
Il 40% dei progetti di rimozione rimangono legati alle foreste e all’utilizzo del suolo, la CO2 rimossa attraverso cattura, stoccaggio e bioenergia è ancora pochissima. I progetti di riduzione sono quelli che coinvolgono aziende rinnovabili e che producono energia in maniera pulita, riducendo le proprie emissioni. I progetti di avoidance, invece, comprendono i progetti protagonisti dello scandalo Verra. I REDD+ sono progetti di “reduced emissions from deforestation and degradation”, cioè quelle emissioni evitate dal degradamento forestale. Spetta al project developer dimostrare che l’area interessata ha un rischio forestale più o meno alto attraverso una previsione della CO2 che si disperderebbe a causa della deforestazione di quell’area. La stima avviene sulla base di modelli, come l’utilizzo dei dati satellitari per valutare l’avanzamento della deforestazione in una specifica area geografica. I REDD+ sono progetti che consentono di compensare le emissioni di un’azienda attraverso una proiezione che non si è ancora verificata con il rischio di speculare su un fenomeno non ancora avvenuto.
In termini di qualità, i progetti REDD+ sono più deboli dei progetti di rimozione, ma per comprenderlo bisogna guardare all’addizionalità del progetto, ai benefici in termini ambientali e sociali e di biodiversità. Nel caso dell’inchiesta del Guardian, sono stati analizzati 87 progetti, principalmente di REDD+ in cui era stato gonfiato il rischio di deforestazione della aree coinvolte. Ma ci sono elementi oggettivi per stimare e calcolare la dispersione della CO2, come appunto i dati satellitari.
Il peccato originale del mercato dei crediti di carbonio rimane la difficoltà delle grandi aziende nel ridurre le proprie emissioni, o banalmente, in una mancata volontà di applicare la riduzione prima della compensazione. Certamente quello del mercato dei crediti di carbonio è un mercato in espansione che ha bisogno di un maggiore controllo e una regolamentazione da parte della politica e non può basarsi solo su un meccanismo di domanda e offerta che, come abbiamo visto, si presta spesso al greenwashing e alla mancanza di una misurazione univoca.
Leggi anche: La causa civile contro Eni per le sue responsabilità sulla crisi climatica
© Riproduzione riservata