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sabato, Luglio 27, 2024

“Il riciclo della plastica è una frode”, secondo un report del Center for Climate Integrity

L’associazione ambientalista statunitense punta il dito contro le imprese che estraggono, commercializzano e trasformano gas, petrolio e carbone e contro quelle che producono plastica: “La maggior parte delle materie plastiche non può essere riciclata, non lo è mai stata e non lo sarà mai”. Il documento e le reazioni

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Il riciclo degli imballaggi è, nell’immaginario collettivo, uno dei mezzi più a portata di mano per dare il nostro contributo di cittadini consumatori a rendere la presenza degli umani sulla Terra più sostenibile. E se il riciclo della plastica fosse una truffa, una frode architettata da chi ha interessi mantenere in piedi lo status quo fatto di inquinamento? Ne è convito il Center for Climate Integrity (CCI), associazione statunitense che lotta contro le compagnie petrolifere e del gas “responsabili dei costi enormi del cambiamento climatico”.

Il titolo del documento, pubblicato a metà febbraio (e ripreso anche dal Guardian), sintetizza in modo chiarissimo ed efficace il cuore dell’analisi di CCI: “La frode del riciclo della plastica. Come Big Oil e l’industria della plastica hanno ingannato il pubblico per decenni e causato la crisi dei rifiuti di plastica”.

La ricerca, che pur senza esplicitarlo sembra prendere in considerazione principalmente il mondo degli imballaggi (in Europa valgono il 40% delle materie plastiche), prende le mosse da un’ampia serie di documenti per sostenere che proprio il riciclo della plastica non è altro che uno specchietto per le allodole funzionale a garantire alle imprese dei fossili e della plastica la libertà necessaria a perpetuare i loro affari, in barba agli effetti per l’ambiente e per la vita sul pianeta. “Alla base della crisi dei rifiuti di plastica – afferma CCI – c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”. Queste campagne e le attività di lobbying avrebbero “di fatto protetto e ampliato i mercati della plastica, bloccando al contempo l’azione legislativa o normativa che avrebbe affrontato in modo significativo i rifiuti e l’inquinamento da plastica”.

Anticipiamo subito che il dossier è focalizzato principalmente sugli Stati Uniti e che diversi osservatori nutrono dubbi sulla solidità delle conclusioni raggiunte.

Partiamo sintetizzando il lavoro del Center for Climate Integrity per raccogliere poi alcuni commenti.

La maggior parte delle materie plastiche non può essere riciclata, non lo è mai stata e non lo sarà mai”, afferma il report. E ricorda come nel 2021 il tasso di riciclaggio della plastica negli Stati Uniti arrivi solo al 5-6%.

Diverse le motivazioni illustrate per spiegare questa affermazione senza sfumature (e tutti noti da tempo alle imprese della filiera, secondo il documento):

  • “Alcuni tipi di plastica non hanno mercati finali e quindi sono impossibili da riciclare”. Dopo aver condotto una revisione decennale sul riciclaggio della plastica, nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA) ha concluso che “sembra che attualmente solo due tipi possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il PET e l’HDPE”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie. “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, afferma il report;
  • La grande varietà di materiali raccolti sotto questa etichetta ombrello, varietà che comporta difficoltà di selezione dalla raccolta differenziata. E poi ci sono i prodotti multimateriale;
  • Il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine;
  • La degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e la presenza di additivi che ne limitano la riciclabilità (“man mano che la plastica si degrada attraverso l’uso e il processo di riciclaggio, inizia a rilasciare queste sostanze tossiche”).

“Per decenni – afferma CCI – le aziende petrolchimiche e l’industria della plastica sono state a conoscenza dei limiti tecnici ed economici che rendono la plastica non riciclabile e non sono riuscite a superarli”. Nonostante questa consapevolezza, “hanno continuato ad aumentare la produzione, portando avanti una campagna ben coordinata per ingannare i consumatori, i politici e le autorità di regolamentazione sul riciclaggio della plastica”.

Leggi anche: Cosa prevede l’accordo UE per contrastare l’esportazione di rifiuti di plastica

“Ecco la vera storia del riciclo della plastica”

Sintetizziamo qui le ricostruzioni di CCI.

Anni ’50-‘60. “A partire dagli anni ’50, le aziende petrolchimiche che producevano resine plastiche individuarono un modo per garantire una domanda costante e crescente di plastica: l’usa e getta”. L’occasione per superare il riuso, allora dominante, arriva alla fine degli anni ’50. “I sacchetti di plastica per la pulizia a secco sono stati pubblicizzati come resistenti e riutilizzabili per tutti gli anni ’50, ma l’industria ha cambiato rapidamente rotta nel 1959 dopo che circa 80 bambini sono soffocati da sacchetti di plastica per la pulizia a secco, provocando un’immensa reazione pubblica contro l’industria e alcune delle prime richieste di divieto della plastica”. La Society of the Plastics Industry (SPI) lanciato allora una campagna di pubbliche relazioni a livello nazionale, “sostenendo che i sacchetti erano destinati a essere usa e getta, scaricando essenzialmente la colpa sui genitori dei bambini”. Si apre così l’era della plastica usa e getta. “Anche se i consumatori hanno resistito al passaggio alla plastica monouso, che hanno trovato sconcertante dopo che fin dagli anni Trenta era stato detto loro che la plastica era troppo preziosa per essere gettata via, l’industria della plastica si è espansa con successo in nuovi mercati, soprattutto in quello degli imballaggi monouso, a un ritmo senza precedenti. Nel 1960, gli imballaggi rappresentavano solo il 10% della produzione totale di plastica, ma alla fine del decennio erano il 25%”.

Anni ’60-’70. “Il successo dell’industria nel ‘vendere’ l’usa e getta e nell’introdurre la plastica monouso ha avuto conseguenze prevedibili. Alla fine del decennio e all’inizio degli anni ’70, la plastica fu identificata come una parte fondamentale della crisi dei rifiuti solidi”.  Di fronte alla crescente insofferenza dei consumatori verso la quantità di rifiuti che derivano dalla plastica monouso e alla minaccia di norme statali che la mettano fuori legge, l’industria, si legge nel report CCI, promuove la messa in discarica e l’incenerimento per risolvere il problema. Nel 1971, in occasione del forum annuale del Packaging Institute, Judd H. Alexander dell’American Can Company parla delle preoccupazioni del pubblico riguardo agli imballaggi in plastica, affermando: “Riciclare gli imballaggi in plastica? Un’idea eccellente. Ma ricicliamola in energia”. E il presidente della SPI Ralph Harding, Jr.: “Preferiremmo che la plastica … finisse in un inceneritore municipale, che è una centrale elettrica”.

Anni ’80. Né il conferimento in discarica né l’incenerimento hanno placano le preoccupazioni dell’opinione pubblica o le pressioni normative, e l’industria si è trovata di nuovo a dover affrontare le proposte di messa al bando della plastica monouso a metà degli anni Ottanta. “Questa volta l’industria adotta una soluzione che sapeva essere popolare sia tra i consumatori che tra i politici: il riciclo della plastica. La SPI fondò la Plastics Recycling Foundation (PRF), che riuniva aziende petrolchimiche e imbottigliatori, e iniziò immediatamente una campagna per dimostrare il presunto impegno dell’industria verso il riciclo meccanico”. Ad esempio, “nel 1984, quando il New Jersey stava prendendo in considerazione una legge sul riciclo che avrebbe imposto restrizioni sulla plastica monouso, la SPI utilizzò la PRF per convincere i legislatori che le imprese stavano lavorando per il riciclo meccanico come soluzione ai rifiuti di plastica”. Ma, “le aziende non avevano alcun incentivo a sostenere la creazione di un mercato delle plastiche riciclate e avevano tutto l’interesse a che non avesse successo, poiché avrebbe potuto ridurre la domanda e la redditività delle loro resine vergini”.
Eppure, si legge ancora nel rapporto, “prima del 1980, l’industria della plastica giungeva sempre alla stessa conclusione quando esplorava la possibilità di riciclare la plastica dai rifiuti urbani: il riciclaggio meccanico era tecnicamente ed economicamente impraticabile. Anche nei pochi casi in cui la tecnologia esisteva, gli esperti del settore erano chiari sul fatto che non avrebbe funzionato per la stragrande maggioranza dei prodotti in plastica […] Ciò che ha portato l’industria a cambiare la propria posizione negli anni ’80 non è stato un enorme progresso tecnologico o una risposta agli ostacoli economici al riciclaggio della plastica. Piuttosto, l’industria della plastica ha iniziato a mentire sulla fattibilità del riciclaggio come risultato diretto del contraccolpo subito dall’opinione pubblica”.

Anni ’80 – ’90. Sono gli anni in cui l’industria “sente fortemente la minaccia di un’azione legislativa”. Una proposta di legge del 1988 per vietare gli imballaggi per alimenti in polistirene (PS) e cloruro di polivinile (PVC) nella contea di Suffolk, New York, “è stata spesso dipinta dall’industria come un presagio delle cose a venire” afferma CCI. Solo pochi anni dopo, gli addetti ai lavori sostenevano che nel 1991 erano state presentate oltre 500 proposte relative alla gestione dei rifiuti in plastica a tutti i livelli di governo. Per questo, negli anni ’80 e nei primi anni ’90 proliferano “associazioni di categoria e gruppi di facciata” nati per “difendere l’industria della plastica da una legislazione restrittiva vendendo il riciclaggio come una soluzione praticabile ai rifiuti di plastica”.

In questi anni i maggiori produttori di resine, tra cui Exxon, Mobil, DuPont e Dow, hanno investito decine di milioni di dollari in vari aspetti del riciclaggio della plastica, compresi gli sforzi di pubbliche relazioni per modellare la percezione del riciclaggio da parte dei consumatori. “Le pubblicità del settore, sponsorizzate da singole aziende petrolchimiche o da gruppi di facciata, hanno normalizzato l’idea che la plastica possa essere riciclata tra i consumatori e i politici. Molti di questi annunci confondono in modo fuorviante il successo iniziale e limitato del riciclaggio di PET e HDPE con il riciclaggio della plastica in generale”. Nelle scuole arrivano “materiali educativi sponsorizzati”.

Anni ’90 –’10. A questo punto, afferma il report CCI, “la ricerca e la promozione del riciclo non erano più le priorità di un tempo perché, per quanto riguardava l’industria, il vero problema era stato affrontato. L’opinione pubblica era stata convinta con successo che la plastica poteva essere riciclata e per l’industria l’effettiva fattibilità del riciclo contava molto meno della percezione […] In sostanza, l’industria della plastica aveva vinto e lo sapeva”. Come scrisse un editorialista di Plastics News ai lettori nel marzo 1995, “la guerra del riciclaggio della plastica è finita”.

Anni ’10 –’20. In questi decenni più recenti l’industria della plastica ha dovuto affrontare una nuova pressione pubblica per affrontare il problema dei rifiuti di plastica: “Un’improvvisa presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica delle microplastiche, unita a una crescente visibilità delle plastiche oceaniche e del loro impatto sulla fauna selvatica, ha portato a una reazione viscerale da parte dell’opinione pubblica”. La soluzione che secondo il report viene escogitata questa volta dalle imprese è il riciclo chimico della plastica (o riciclo avanzato). Che CCI boccia perché “non porta alla fabbricazione di nuovi prodotti di plastica. Piuttosto, esponendo i rifiuti di plastica a calore estremo o a sostanze chimiche, questi processi creano un sottoprodotto di petrolio non raffinato”. Il report cita un rapporto del 2020 della Global Alliance for Incinerator Alternatives che ha identificato 37 impianti che utilizzavano tecnologie di riciclo chimico che erano stati proposti o costruiti dall’inizio degli anni 2000. Di questi 37, solo tre sarebbero operativi e da nessuno uscirebbe nuova plastica. Lo stesso anno Greenpeace ha esaminato 51 impianti di “riciclo chimico” e ha scoperto che circa il 25% era impianti Waste to Energy di vario tipo. Solo quattro – tre dei quali di proprietà di aziende petrolchimiche – erano impianti per la produzione di plastica, e nessuno era operativo o mostrava indicazioni di futura redditività. “I numerosi impianti di riciclaggio chimico annunciati pubblicamente dall’industria a partire dal 2017 si sono rivelati per lo più impianti di trasformazione della plastica in combustibile, in ritardo di anni rispetto alla tabella di marcia o abbandonati del tutto”. Perché l’economia e la bilancia energetica dei processi di riciclo chimico “è sfavorevole”. E la fattibilità di questa tecnologia “non è stata dimostrata su scala”.

La conclusioni del Center for Climate Integrity sul riciclo della plastica 

Dopo questa analisi documentale, CCI afferma che “l’industria non solo ha indotto le agenzie pubbliche (municipali e statali) a credere che il riciclaggio della plastica fosse una soluzione praticabile ai rifiuti plastici, ma le ha anche scoraggiate dal perseguire altre strategie di gestione dei rifiuti più sostenibili (ad esempio, riduzione dei rifiuti, riutilizzo, divieti, materiali alternativi) a favore del riciclaggio della plastica”. Proprio come le aziende produttrici di tabacco e di oppioidi, “le aziende produttrici di combustibili fossili e di altri prodotti petrolchimici dovrebbero ora essere ritenute responsabili della loro deliberata campagna di inganno e dei danni che ne derivano […] Sulla base del crescente numero di prove, è probabile che i Comuni e gli Stati intraprendano azioni legali, che potrebbero porre fine all’inganno dell’industria, far pagare alle aziende i danni devastanti che hanno causato alle comunità e aprire la porta a soluzioni reali che attualmente sono fuori portata”.

Riciclo plastica
Il ricilco della plastica è una frode? Le reazioni

Judith Enck, ex amministratore regionale dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense e fondatrice di Beyond Plastics, al Guardian ha definito l’analisi del CCI “molto solida”. Sempre dialogando col Guardian, Brian Frosh, ex procuratore generale dello Stato del Maryland, ha dichiarato che il rapporto include il tipo di prove che normalmente non si aspetterebbe di vedere fino a quando una causa non sia già stata avviata: “Se fossi il procuratore generale, sulla base di ciò che ho letto nel rapporto della CCI, mi sentirei a mio agio nel sollecitare un’indagine e un’azione legale”.

Ma veniamo alle reazioni in Italia.

“L’indagine evidenzia ancora una volta il mito del riciclo” ci dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna inquinamento di Greenpeace. “Da anni ci sentiamo dire come questa sia l’unica soluzione per risolvere i problemi ambientali innescati dall’abuso di plastica. Purtroppo i dati e i numeri del riciclo rivelano un fallimento su scala planetaria. E se è vero che in Europa e in Italia il riciclo va meglio che nel resto del mondo, questo non basta a far fronte all’aumento dei consumi e dei rifiuti. Ci auguriamo che i prossimi round di negoziazione sul trattato sulla plastica comincino finalmente a tracciare una roadmap che possa riportare una produzione mastodontica entro i limiti planetari. Servono regole globali che taglino la produzione del 75% entro il 2050 per contenere il riscaldamento entro 1,5° C e prevenire gli impatti ambientali più disastrosi”.

Giorgio Bagordo, Senior Expert Plastic Programmes del WWF Italia ci dice che “secondo il WWF affermare che il riciclo della plastica è una ‘frode’ non è corretto. La filiera della plastica può essere senz’altro migliorata, e per contrastare l’inquinamento da plastica non si può puntare solo sul suo riciclo, ma svolge senz’altro un ruolo importante”. L’inquinamento da plastica, prosegue, “è un tema globale e complesso e necessita di soluzioni che siano condivise e applicate a livello globale, che affrontino l’intero ciclo di vita”. L’economia circolare, in tutte le sue fasi, è la soluzione su cui puntare, secondo il WWF, “perché basata sulla gestione efficiente delle risorse, la minimizzazione ed eliminazione di rifiuti e inquinamento, la valorizzazione dei prodotti e i materiali mantenuti in uso per il maggior tempo possibile”.

Paolo Arcelli, direttore di Plastic Consult, riflette sul fatto che “innanzitutto il documento è realizzato da operatori che come mission hanno quella di contrastare l’industria petrolchimica americana, di conseguenza il cosiddetto bias è altissimo”. E poi è “riferito pressoché esclusivamente al contesto nordamericano e in particolare agli USA”, niente a che vedere con l’Europa e l’Italia

Nel dettaglio: “Dal punto di vista di un operatore italiano non direttamente coinvolto nella filiera industriale ma che come Plastic Consult studia il tema del riciclo da diverse decadi, tutte le tesi principali del documento sono da rigettare integralmente e assolutamente infondate, in particolare se ci riferiamo al contesto nazionale.
Arcelli addita poi alcuni passaggi specifici. E ricorda ad esempio che mentre secondo il documento negli anni ‘70 i petrolchimici erano impegnati a promuovere incenerimento e discariche e solo dagli anni ’80 hanno scommesso sul riciclo, “già nel 1972 i fondatori di Plastic Consult hanno realizzato uno studio di pre-fattibilità sul riciclo del polietilene proveniente da teli agricoli per un primario produttore petrolchimico”. Quindi “è totalmente falsa, per quanto riguarda Europa e Italia, che i petrolchimici abbiano cavalcato e promosso il riciclo solo a partire dalla metà degli anni ’80”. D’altro canto, prosegue, “ancora dopo il 2010 abbiamo documentazione in archivio che testimonia come i produttori petrolchimici, quanto meno a livello europeo, osteggiassero apertamente i riciclati, che erodevano volumi ai polimeri vergini”.

Quanto all’affermazione che “la maggior parte delle plastiche non possono essere riciclate, non lo sono mai state e non lo saranno mai”, ricorda un altro studio Plastic Consult che indicava “come nel 1983 in Italia per la produzione di shopper si utilizzavano già 15.000 tonnellate di riciclati polietilenici, il 12% della produzione complessiva”. In Europa e in Italia, aggiunge, “continuiamo ad aumentare i volumi di riciclo di plastiche post-consumo da diversi anni (non meno di 25), selezioniamo sempre più gli imballaggi da raccolta differenziata e aumentiamo (compatibilmente con l’andamento dell’economia e dell’industria) il riciclo effettivo, non certo il waste to Energy che è soluzione di ripiego per quanto ad oggi non si riesce a riciclare”.

Anche Maria Cristina Poggesi, direttore IPPR-Istituto per la Promozione delle Plastiche da Riciclo, sottolinea la differenza tra Italia, Europa e resto del mondo: “Non conosco nel dettaglio la realtà USA, posso solo dire che per la mia esperienza (e quella di tutti gli operatori del settore che da anni si occupano di questi temi) in Italia e in Europa le cose sono completamente diverse”. Ricorda che l’organizzazione che ha scritto il documento “la cui mission è espressamente quella di combattere l’industria petrolchimica, non esattamente super partes”. Detto questo, “non possiamo che rimanere sbigottiti nel vedere certi titoli viaggiare sulle più svariate testate smontando con poche parole il lavoro svolto da associazioni come la nostra, che da 20 anni si occupa di promuovere l’utilizzo di plastica riciclata. Non dimentichiamo, infatti, che il riciclo – in Europa, ma soprattutto in Italia – è una realtà consolidata da decenni”. E aggiunge: “Dobbiamo purtroppo constatare che ci sono associazioni che pur di far parlare di sé, negano l’evidenza dei benefici del riciclo. Ma noi alle chiacchiere preferiamo i fatti ed i numeri dei risultati raggiunti”. L’industria italiana della trasformazione della plastica, ci ricorda, nel 2022 ha utilizzato circa 1,327 milioni di tonnellate di polimeri riciclati per produrre nuovi oggetti, con un aumento del 22,1% rispetto al 2020 e del 4,1% rispetto al 2021. “I materiali plastici riciclati rappresentano il 21,5% di tutta la plastica utilizzata in Italia e il packaging è in assoluto il mercato di utilizzo prevalente per i riciclati, con una quota del 35% sul totale”.

Leggi anche: La plastica che beviamo

Contesto: il problema plastica

Secondo un report dell’OCSE (2022), negli ultimi 30 anni, trainato dalla crescita dei mercati emergenti il consumo di plastica è quadruplicato. E la produzione plastica, ricorda sempre l’OCSE, è responsabile del 3,4% delle emissioni globali di gas serra. La maggior parte della plastica in uso oggi, infatti, è plastica vergine – o primaria – ricavata dal petrolio grezzo o dal gas. La produzione globale di plastiche riciclate (o secondarie) è più che quadruplicata, passando da 6,8 milioni di tonnellate nel 2000 a 29,1 nel 2019, ma rappresenta ancora solo il 6% della produzione totale.

Dai beni ai rifiuti: la produzione globale di rifiuti di plastica è più che raddoppiata dal 2000 al 2019, raggiungendo 353 milioni di tonnellate l’anno, “la maggior parte dei quali finisce in discarica, viene incenerita o dispersa nell’ambiente e solo il 9% viene riciclato con successo”. Quasi due terzi dei rifiuti di plastica provengono da plastiche con una durata di vita inferiore ai cinque anni: il 40% da imballaggi, il 12% da beni di consumo e l’11% da abbigliamento e tessili.

Restringendo il campo di osservazione e puntando lo sguardo sul nostro continente, secondo Eurostat, in totale, nel 2021 (ultimi dati disponibili) l’UE ha generato 84 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggio: la plastica ha rappresentato il 19%. Ogni persona residente in Europa ha generato in media 35,9 kg di rifiuti di imballaggio in plastica: solo 14,2 kg sono stati riciclati. Negli ultimi 10 anni (2011-2021), la quantità pro capite di rifiuti di imballaggio in plastica generati è aumentata del 26,7% (+7,6 kg pro capite), quella riciclata del 38,1% (+3,9 kg pro capite).

Riciclo plastica

“Mentre l’aumento della popolazione e dei redditi determina una crescita inarrestabile della quantità di plastica utilizzata e gettata via – afferma ancora l’OCSE – le politiche per frenare la sua dispersione nell’ambiente sono insufficienti”. I divieti e le tasse sulla plastica monouso esistono in oltre 120 Paesi, ma non sono sufficienti a ridurre l’inquinamento complessivo. La maggior parte delle normative “si limita ad articoli come i sacchetti di plastica, che costituiscono una minima parte dei rifiuti di plastica, e sono più efficaci nel ridurre il littering che nel limitare il consumo di plastica”. Mentre “le tasse sulle discariche e sugli inceneritori, che incentivano il riciclaggio, esistono solo in una minoranza di Paesi”.

A Nairobi, nel marzo 2022, le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione che entro quest’anno porterà ad un accordo giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, che comporti un passo importante verso la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra derivanti dalla produzione, dall’uso e dallo smaltimento della plastica.

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