Né qui né altrove: si potrebbe sintetizzare con uno slogan la contrarietà delle principali associazioni ambientaliste al progetto di Eni che a Ravenna, al largo (neanche troppo) delle costa adriatica, intende catturare e stoccare lo carbonio nei giacimenti a gas in via di esaurimento. Da Legambiente ai Fridays for Future, da A Sud a Re-Common, in tanti e tante hanno criticato l’idea di transizione ecologica del cane a sei zampe. Diventa utile, a questo tempo, ripercorrere l’iter e i dettagli del più ambizioso tentativo di Eni di entrare nel mercato dell’idrogeno blu. Nelle ipotesi del management, infatti, il sito di Ravenna potrebbe addirittura essere il più grande sito al mondo per la cattura e lo stoccaggio di carbonio, con una capacità prevista fino a 500 milioni di tonnellate di accumulo.
Come ribadito più volte dagli stessi vertici Eni, si è ancora alla fase dello studio di fattibilità mentre per una prima parziale operatività bisognerebbe comunque attendere il 2025. Data la mole, il progetto dovrebbe essere prima sottoposto a una procedura di valutazione di impatto ambientale e una valutazione ambientale strategica (la Via-Vas), anche se c’è chi, come il coordinamento nazionale No Triv, teme che questo passaggio possa pure essere evitato. Intanto, interrogata sul tema lo scorso maggio dagli azionisti, l’azienda ha risposto con una certa dose di ottimismo.
“Eni ritiene che la CCS possa fornire un importante contributo alla transizione energetica verso un futuro low carbon – si legge nel verbale – L’applicazione della CCS nel breve-medio termine può ridurre le emissioni di CO2 nella produzione di energia elettrica da fonti fossili e promuovere la diffusione di un’economia dell’idrogeno. È considerata inoltre una delle valide opzioni attualmente praticabili per la decarbonizzazione dei settori industriali più energivori (es. cemento, acciaio, fertilizzanti). La CCS è una tecnologia matura nelle diverse componenti della filiera (cattura-trasporto-stoccaggio) ma a causa dei costi ancora elevati e dell’incertezza delle politiche e dei quadri normativi (specie in Europa, nonostante esistano Direttive europee e Leggi specifiche), non ha ancora raggiunto la maturità commerciale su larga scala. Ad oggi sono 19 gli impianti dimostrativi large-scale attualmente operativi a livello globale, concentrati soprattutto in Nord America”.
La seconda metà del 2020 è proseguita, dunque, con azioni di lobbying sul principale azionista della multinazionale energetica, ovvero lo Stato italiano che detiene circa il 30% delle azioni attraverso Cassa Depositi e Prestiti e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. A giugno il premier Conte ha indicato l’hub di Ravenna come “polo di eccellenza” grazie al quale “avremo l’energia blu e l’idrogeno integrati”. Mentre a settembre l’ex ministro Lapo Pistelli, ora manager Eni, ne ha rinnovato le lodi alla Camera – ottenendo soprattutto una manciata di emendamenti a favore nel decreto Semplificazioni.
Il volto oscuro dell’idrogeno blu
In una scheda redatta per EconomiaCircolare.com il professore Vincenzo Balzani elenca tutti i limiti del Css e con esso, implicitamente, quelli dell’idrogeno blu:
– I combustibili fossili sono in via di esaurimento, quindi questa soluzione non può essere strutturale, ma solo temporanea, rendendo estremamente critici gli aspetti economico-finanziari dell’investimento.
– Richiede un grande consumo di suolo per l’impianto di cattura e per i gasdotti di trasporto.
– Richiede l’uso di grandi quantità di prodotti chimici (amine) che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile). Spesso la CO2 prodotta dall’energia che si usa per l’impianto è in quantità maggiore rispetto a quella che l’impianto recupera.
– La cattura di CO2 all’interno degli impianti di produzione di energia elettrica riduce le prestazioni dell’impianto. I costi di produzione dell’energia elettrica sarebbero sostanzialmente raddoppiati.
– Lo stoccaggio nel sottosuolo in pozzi di petrolio o metano esauriti è rischioso, perché non sono noti i suoi effetti sismici. Tale rischio è ancora maggiore in una zona fragile come la costa di Ravenna, dove sono in corso significativi fenomeni di subsidenza.
– Non è nota la capacità dei luoghi di stoccaggio di trattenere la CO2 per lunghi tempi; una graduale e silente fuoriuscita in atmosfera vanificherebbe il progetto. Non c’è esperienza per impianti a larga scala. Bisognerebbe installare sistemi di monitoraggio per svelare perdite di CO2, inquinamento dell’acqua, dell’aria e attività sismica.
– Il rilascio imprevisto di massicci quantitativi di CO2 in seguito ad eventi geologici o altre modificazioni delle strutture di contenimento non solo renderebbe vano il tentativo di ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, ma produrrebbe effetti gravissimi per la popolazione (soffocamento).
– Oggi non esistono progetti industriali maturi relativi al Ccs; si è ancora alla fase di ricerca. In Norvegia, che è il maggiore produttore europeo di idrocarburi, un report indipendente commissionato dal Governo ha analizzato la possibile realizzazione di un impianto di stoccaggio di CO2 nei giacimenti esauriti del Mare del Nord. Tale progetto è stato valutato un potenziale disastro finanziario e il Governo sta valutando di sospendere il progetto stesso.
– I costi di un impianto CCS sono certamente molto alti, ma nessuno li ha mai valutati, specialmente per impianti a grande scala come quelli necessari per sequestrare una quantità di CO2 significativa per contenere i cambiamenti climatici.
– L’unico uso delle CO2 prodotta può essere quello di utilizzarla per aumentare la pressione all’interno di pozzi di petrolio e metano quasi esausti, in modo da raccogliere la parte troppo costosa da estrarre direttamente. Vale a dire, per aumentare la produzione di combustibili fossili.
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