“La digitalizzazione è un fattore abilitante per la transizione verso l’economia circolare”. Maurizio Masi, docente di Chimica fisica al Politecnico di Milano, ne è certo. E in effetti già oggi l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale, l’Internet of Things, Big Data e Blockchain sono al centro di molti processi produttivi, per migliorare l’uso delle risorse naturali, ottimizzando la progettazione, la produzione, l’utilizzo e le fasi riparazione e riciclo degli oggetti. “Tutto deve essere connesso, nell’ottica della famosa Industria 4.0, che prevede la continua connessione tra sistemi fisici e digitali” ha detto ancora il professor Masi durante l’incontro dal titolo ‘Il contributo delle piattaforme digitali allo sviluppo dell’economia circolare’, organizzato dal ministero dello Sviluppo economico e dalla Luiss Business business school nell’ambito del ciclo ‘Italia 2030’, lo scorso 13 novembre.
Da Industria 4.0, piano governativo varato 4 anni fa a sostegno della “quarta rivoluzione industriale”, si passa oggi a Transizione 4.0, l’evoluzione del piano precedente con il quale il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli promette di sburocratizzare gli incentivi preesistenti e favorire così ulteriormente la diffusione, anche tra le imprese di piccole dimensioni, di processi produttivi altamente tecnologici, basati su automazione e interconnessione e in grado anche di influenzare la gestione complessiva del ciclo del rifiuti in un’ottica di prevenzione e di circolarità. Un approccio che si coniuga alla perfezione con il recentissimo orientamento espresso a livello comunitario, in virtù del quale i fondi europei non dovranno più sostenere soluzione legate all’incenerimento dei rifiuti e al conferimento in discarica, bensì in via prioritaria le strategie di prevenzione, riutilizzo e riciclo.
Materiali avanzati per l’industria
Ad oggi, come specifica la Commissione europea, l’economia del Vecchio Continente è ancora per lo più di tipo lineare, con solo il 12% di materiali e risorse secondarie reimmessi nel ciclo produttivo. Secondo uno studio dell’European policy center, think tank basato a Bruxelles dedicato alla ricerca sugli affari europei, sarà proprio la digitalizzazione ad aiutarci a sfruttare tutto il potenziale della transizione circolare, considerata dall’Unione europea come uno dei fattori strategici per il raggiungimento di un continente a zero emissioni entro il 2050.
D’altra parte, è innegabile che quello del digitale sia uno scenario di mercato in forte crescita ed è il meno influenzato dall’attuale crisi sanitaria. “Nel mondo tutti i settori riconducibili al comparto digitale stanno crescendo a due cifre – spiega Masi – mentre in Italia la crescita è più modesta, circa del 2,3%. Parliamo comunque di un settore che ha un valore assoluto di 68 miliardi di euro”. Il settore digitale ha dunque un enorme impatto sull’economia e sui nostri comparti industriali. “Questa grande richiesta di innovazione – spiega ancora il docente del Polimi – deve essere per forza coniugata con il concetto di sostenibilità e quindi dobbiamo trasformare il ciclo di vita e di produzione dei materiali nell’ottica dell’economia circolare”. Cosa significa questo?
Le tecnologie digitali non sono un mondo totalmente immateriale. Digitalizzare i processi produttivi significa dover gestire sensori, server, data storage e quindi strumenti che necessitano di materiali diversi – dai semiconduttori ai polimeri – e consumano una grande quantità di energia. “Bisogna dunque creare sinergia tra le reti dati e l’infrastruttura energetica” ricorda Masi, ribadendo che oramai tutti i settori, dall’automotive alla medicina, necessitano di materiali ad alte prestazioni sempre più performanti, che non possono più sostenere un’economia di tipo lineare. La domanda di materiali segue infatti i mega trend che attualmente, e ancor più nel prossimo futuro, guideranno i bisogni della popolazione del Pianeta, come l’incremento demografico e l’inurbamento, i cambiamenti climatici, l’introduzione di nuove soluzioni di mobilità sostenibile o la richiesta di salute e benessere.
Troppi rifiuti elettronici
Favorire l’adozione di soluzioni digitali permette di introdurre comportamenti virtuosi per trasformare le nostre imprese in imprese circolari. Garantisce poi di efficientare l’uso delle risorse disponibili, come accaduto ad esempio con l’introduzione della sharing mobility che, nella Milano pre-covid, ha consentito di ridurre il numero di automobili in città di circa diecimila vetture al giorno.
Purtroppo però, una delle caratteristiche dei prodotti elettronici sono i cicli di vita decisamente brevi. Ormai non ci facciamo neanche più caso: siamo abituati a cambiare cellulare o televisore, praticamente ogni due anni (o anche meno). Questo significa però che creiamo ogni anno una quantità enorme di materiali di scarto che non riusciamo a smaltire. Del resto, se produciamo così tanti rifiuti elettronici è semplicemente perché ormai l’elettronica è entrata ovunque. Siamo circondati da futuri rifiuti elettronici: smartphone, tablet, televisori, computer, ma anche orologi, condizionatori, piccoli e grandi elettrodomestici. La lista è infinita e su questo punto è molto importante il lavoro che si sta facendo al Parlamento Europeo sul diritto alla riparazione.
La digitalizzazione ci deve poi consentire di creare una rete di raccolta e riciclo più integrata e strutturata di quella attuale, per coordinare i processi produttivi con tutti gli altri attori dell’ecosistema digitale, per recuperare i rifiuti digitali e riutilizzare le materie prime e i materiali utilizzati per la loro produzione.
L’industria ha un insaziabile appetito di materiali avanzati sempre più performanti. La conciliazione della sempre crescente domanda di prodotti con la sostenibilità ambientale è ottenibile solo mediante la trasformazione dei cicli di produzione e consumo secondo un modello di economia circolare.
Come detto infatti, tutti i dispositivi elettronici che gettiamo diventano spazzatura da smaltire e nel 2019, in tutto il mondo, è stato raggiunto il record di 53,6 milioni di tonnellate. Una tale mole di rifiuti elettronici, come afferma il report Global E-waste Monitor 2020 (qui in Pdf), avrà un impatto negativo sull’ambiente e sulla salute della popolazione a livello globale.
Ma anche sull’economia: negli ultimi dodici mesi, il mancato recupero di materiali come mercurio, rame, ferro, platino e oro per un peso complessivo di 50 tonnellate ha comportato perdite per un valore di quasi 56 milioni di euro.
L’Italia è avanti, ma lontana dagli obiettivi Ue
Negli ultimi cinque anni la quantità di spazzatura elettronica prodotta è salita del 21%, e solo il 17,4% di tutti i rifiuti seguono un percorso di recupero e riciclo dei materiali che può essere definito virtuoso. Vuoi per lacune normative, per l’organizzazione delle filiere o per la mancanza di politiche che favoriscano il recupero.
Questo significa che gli oltre due terzi rimanenti vengono smaltiti in modo non sicuro dal punto di vista ambientale. Un dato allarmante e destinato a crescere. Secondo lo studio, se non si troverà una soluzione per lo smaltimento, la spazzatura elettronica nel 2030 potrebbe raggiungere i 74 milioni di tonnellate, ossia quasi il doppio. “In Europa solo circa il 9% dei manufatti che raggiungono il fine vita è intercettato e avviato al riciclo”, racconta Danilo Bonato, direttore generale di Erion, sistema italiano per la gestione e lo smaltimento dei Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) e la valorizzazione delle materie prime che li compongono. “E sostanzialmente nei settori tradizionali: metalli vetri e plastiche. Solo recentemente – continua Bonato – si è iniziato a pensare al recupero dei materiali della filiera digitale ed energetica”.
Eppure l’Italia è, fortunatamente, in controtendenza. “Il nostro Paese è a buon punto nella valorizzazione della materia dei prodotti tech, ma ancora lontana dall’obiettivo europeo di raccolta, fermandosi intorno al 40%”, spiega lo stesso Bonato. Il tasso minimo di raccolta che ogni stato membro dovrebbe raggiungere annualmente, secondo l’Ue, è infatti pari al 65% del peso delle apparecchiature immesse sul mercato nei tre anni precedenti o, in alternativa, all’85% dei Raee prodotti.
Ripensare i modelli di business
“Siamo deboli sull’infrastruttura impiantistica, soprattutto per quanto riguarda l’estrazione dei materiali. Occorre dunque definire una catena del valore che consenta di raccogliere, riciclare e valorizzare queste materie prime seconde”, afferma Bonato. Ad oggi i componenti finiscono all’estero per essere riciclati. Una perdita economica per il nostro Paese, anche in termini di posti di lavoro. Ecco perché è necessario rafforzare la filiera della circolarità nel comparto dell’elettronica.
Le soluzioni per lenire l’impatto dell’elettronica sull’ambiente possono essere diverse, come ad esempio introdurre modelli di leasing e non più di acquisto o rendere più pulita l’elettronica stessa, utilizzando meno elementi chimici inquinanti e limitandone così l’impatto ambientale.
Ma lo scenario più promettente per ridurre il problema dei rifiuti elettronici è quello che richiede di ripensare completamente i prodotti, rendendo la parte elettronica facilmente disassemblabile da quella non elettronica. Il cosiddetto “remanufacturing” che in Italia deve diventare, secondo Bonato, un’industria di primo piano. Questo ci consentirebbe di recuperare apparecchiature, regalandogli una nuova vita, con grande risparmio di materie ed energia rispetto a una nuova produzione.
Remanufactoring significa proprio concepire prodotti che nascono per essere riciclati in tutto e in parte, mutando così radicalmente i modelli di business aziendali, il funzionamento stesso dell’azienda e le sue fonti di profitto. Cambia così anche il concetto di acquisto anche per i consumatori, che si troverebbero a fruire di un servizio integrato, dove l’apparecchio è solo una parte del valore che continua per un ciclo molto più lungo.
L’obiettivo finale per il nostro Paese, dunque, deve essere quello di realizzare un’infrastruttura impiantistica per l’economia circolare che ci consenta, attraverso la progettazione, di ricostituire e rigenerare le risorse. Mirando cioè a mantenere i prodotti a loro massimo livello e utilizzo, riducendo al minimo gli sprechi e facendo in modo che le risorse utilizzate siano mantenute il più a lungo possibile all’interno dell’economia.
Il dilemma politico
La nostra industria e, di conseguenza, l’intero Paese può tornare a essere competitiva rispetto agli altri Ppaesi cavalcando la rivoluzione digitale e insieme quella dell’economia circolare. Due facce della stessa medaglia. Ma la digitalizzazione non porterà automaticamente a una maggiore sostenibilità. C’è bisogno di azioni mirate e di incentivi, ed è qui che entra in ballo la politica. Esperienze virtuose ci sono e le abbiamo viste chiaramente anche durante il webinair di Italia 2030. Pensiamo ad esempio al Circular economy Lab, nato dalla partnership tra Intesa San Paolo e Fondazione Cariplo, che offre programmi di open innovation in chiave circolare e percorsi di formazione per le aziende. O all’esperienza di un’azienda come Italgas, che ha avviato una completa trasformazione digitale di reti e processi, che ha coinvolto ovviamente anche la forza lavoro, altamente specializzata, per consentire una maggiore efficienze energetica, un’importante riduzione dei costi e dell’impatto ambientale. Dati e soluzioni digitali si possono usare per migliorare diversi segmenti dell’economia circolare, dalla fase di progettazione alla produzione, dal consumo al riutilizzo e al riciclaggio dei rifiuti complessivi. Ma i cambiamenti di modelli di business richiedono l’intervento della politica e il suo supporto anche nella semplificazione della burocrazia, che rallenta e spesso blocca il cambiamento nel nostro Paese.
“Serve un piano strategico”
Come ha ricordato Teresa Sessa R&D Manager di Relight Italia, azienda all’avanguardia nella raccolta, recupero e trattamento dei Raee, la normativa potrebbe rappresentare un importante driver per la transizione verso l’economia circolare ma attualmente ne rappresenta una barriera, per via dell’implementazione poco efficace della normativa End of Waste (che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto e la possibilità di reimmetterli nel ciclo produttivo), della forte incidenza dei lunghi tempi attuativi e della complessità burocratica.
“È necessario – ha spiegato – un piano strategico d’azione che porti a un’innovativa combinazione di iniziative legislative a livello europeo e di azioni conoscitive, finanziarie e di sostegno delle parti interessate”. Cosa fare dunque? Ad esempio, introdurre incentivi e strumenti finanziari per la diffusione di processi tecnologici produttivi efficienti per il recupero di materie prime critiche, come il credito d’imposta. O mettere in campo iniziative nazionali e regionali volte alla tracciabilità dei rifiuti con strumenti digital, evitando sprechi. Una cosa è certa: la digitalizzazione non è il punto di arrivo ma la leva indispensabile per creare un sistema sostenibile e un’economia più competitiva. E su questo la politica nazionale ed europea dovrà investire, favorendo lo sviluppo di un’industria capace di incentivare un uso efficiente delle risorse.
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