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venerdì, Novembre 15, 2024

La biodiversità che rigenera le terre del Barolo: la storia di Enrico Rivetto

Nella terra dei vigneti il viticoltore piemontese ha piantato più di 400 alberi, un’area compost, un orto, un noccioleto, oltre a chilometri di salvia, siepi di rosmarino e alloro. Un elenco che è anche un approccio. “La monocoltura ha generato ricchezza ma ha tolto spazio alle coltivazioni” ci racconta. "I corridoi biologici sono fondamentali"

Alessandro Coltré
Alessandro Coltré
Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell'area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

“Abbiamo messo chilometri di salvia, siepi di rosmarino e alloro. Abbiamo piantato più di 400 alberi ad alto fusto, ci sono frutteti, un’area compost, un orto, un noccioleto e una zona per gli asini”. Per presentare la sua azienda e i suoi vigneti incastonati nelle langhe piemontesi, precisamente sulla cima del Lirano, a Serralunga d’Alba e Sinio, Enrico Rivetto decide di iniziare da questo particolare elenco. Avrebbe potuto esordire parlando delle sue bottiglie di Barolo, Barbera d’Alba e di Nebbiolo, vini che la sua famiglia produce dal 1902 e che Enrico, rappresentante della quarta generazione, esporta in tutto il mondo arrivando a produrre 100mila bottiglie l’anno. Una cantina medio-piccola del cuneese che lavora vitigni pregiati in un territorio simbolo dell’eccellenza vinicola italiana. Ma per Enrico Rivetto quell’elenco non è un ornamento che abbellisce il racconto sui suoi filari, bensì restituisce la filosofia e l’approccio con cui dal 1999 questo viticoltore piemontese ha deciso di lavorare i suoi 35 ettari di terra.

I rischi della monocoltura

“Qui siamo in una zona intensiva, dove praticamente hai solo vigneti. La monocoltura ha sicuramente generato ricchezza economica ma ha ridotto la biodiversità, ha tolto spazio ai boschi e a tanti tipi di coltivazioni”. Le parole di Rivetto spingono a riflettere sui modelli di sviluppo e produzione che in soli quaranta anni hanno modificato e impoverito suolo, paesaggio e interi ecosistemi. Il giornalista Luca Martinelli, profondo conoscitore del mondo del vino ed esperto di tematiche ambientali, in un approfondimento  sui rischi della monocoltura del prosecco in Veneto e in Friuli, uscito l’anno scorso su l’Extraterrestre – inserto ecologista de il manifesto – suggerisce di problematizzare questa tendenza all’uniformità delle produzioni. “Quando attraversiamo un paesaggio integralmente vitato, senza più boschi né aree verdi libere, dobbiamo pensare criticamente alla monocultura, senza lasciarci viziare dalla passione per il vino o dal riconoscimento di Patrimonio mondiale dell’umanità che l’Unesco ha dato il 7 luglio scorso alla zona storica del Prosecco tra Conegliano e Valdobbiadene e prima ancora a Langhe-Roero e Monferrato, in Piemonte” scrive Martinelli.

Nel suo focus il giornalista dà spazio alla voce dell’agronomo ed enologo Adriano Zago, coordinatore di Cambium, associazione che offre formazione ai vignaioli per condurre la produzione verso l’agricoltura biodinamica. Riprendere le considerazioni di Zago può aiutare a capire meglio la storia di Enrico Rivetto: “la monocultura, qualsiasi essa sia, anche se è fatta nel migliore dei modi, è un problema: la solidità di un ecosistema dipende dalla sua complessità, e quando lo si va a semplificare, si rende debole”. Questa debolezza porta con sé criticità ecologiche, rischi idrogeologici per il territorio e una serie di minacce per un equilibrio fragile che regala sostanze organiche indispensabili per la terra.

La monocoltura, specie nel caso del Prosecco, conduce spesso all’utilizzo di diserbanti, pesticidi e fungicidi, che oltre al rischio ambientale e a problemi di salute, “provocano  annullamento della vitalità e della vita del suolo: migliaia di studi e di esperienza empiriche e quotidiane, ci dicono che dove utilizzi diserbo il suolo retrograda, la sostanza organica diminuisce, la varietà di funghi, insetti, invertebrati presenti diminuisce, e quel suolo diventa compatto, incapace di assorbire acqua quando piove troppo, né di trattenerla quando piove poco” spiega Zago nel focus di Martinelli. Consapevole della pericolosità di questi scenari; convito che la salvaguardia del suolo sia parte integrante del suo lavoro, negli ultimi cinque anni Enrico Rivetto ha deciso di ridurre la superficie occupata dai vigneti in favore di altre colture.

Corridoi biologici per rigenerare la terra

Nell’azienda della famiglia Rivetto circa 15 ettari di collina – a 400 metri sul livello del mare – sono occupati dalle vigne, mentre 12 ettari sono di nocciole, un ettaro per i cereali e 6 ettari sono conquistati dal bosco. Pensare e praticare questa distribuzione è per molti aspetti una scelta radicale, certamente in controtendenza con la logica dominante nelle produzioni vinicole del territorio. Basti pensare che nelle zone del Barolo un ettaro di terra può essere valutato fino a 3 milioni di euro. Ma nei pensieri di Enrico Rivetto il fattore economico non può accantonare la cura dell’ecosistema presente tra quei filari preziosi.

“Non sento di aver tolto delle vigne. La vigna è una parte di un sistema complesso che partecipa a un equilibrio. Cerco di stimolare la biodiversità, aiutando il territorio a tornare in sintonia con la natura e con la terra che ci ha dato tanto. Sento di aver riconsegnato qualcosa. Noi li chiamiamo corridoi biologici e sono essenziali per rigenerare il terreno”, spiega Rivetto. Questi percorsi fatti di rosmarino, salvia, lavanda e di altre essenze aromatiche nutrono la terra e rafforzano le viti, rendendole anche meno suscettibili all’attacco di parassiti. Piantare tra i filari il trifoglio, l’avena e l’orzo contribuisce a rivitalizzare il suolo, mentre la presenza degli alberi da frutto porta nel vigneto uccelli e altri animali che aiutano, per esempio, a proteggere le viti dalla cosiddetta tignoletta, insetto che può provocare danni alle foglie e ai grappoli d’uva.

Nell’esperienza del viticoltore piemontese c’è di più. “Abbiamo anche orto e una serra a uso e consumo della mia famiglia e di chi lavora in azienda. C’è anche una zona compost formata da letame che in parte acquistiamo e in parte viene dai nostri asini. Ramaglie, scarti di potature e vinacce vengono aggiunti nel cumolo di compost e tutto torna tra i filari e nel ciclo produttivo”, racconta Enrico Rivetto. La cantina e le strutture dell’azienda agricola hanno impianti fotovoltaici e un sistema di fitodepurazione realizzato con le “cannucce di palude”, piante che vivono nell’acqua e aiutano a filtrare i reflui. “Siamo indipendenti dal sistema fognario, le acque sporche vengono in sostanza decantate in una zona dove ci sono queste piante, le Phragmites australis che filtrano lo sporco e rilasciano acqua pulita nel bosco”. Inoltre, per irrigare le colture l’azienda Rivetto ha avviato un progetto di recupero dell’acqua piovana attraverso il ripristino di vecchi pozzi e all’aggiunta di vasche artificiali.

Biodinamico come spinta per la circolarità

Mantenere virtuoso  questo sistema richiede un’attenzione importante nei trattamenti in vigna e nelle operazioni in cantina. Infatti, la storia di Rivetto può essere considerata come un’esperienza di difesa della biodiversità perché è anche una produzione biologica e biodinamica. Per questa azienda piemontese la scelta della policoltura coincide con l’abbandono di diserbamenti e di trattamenti antiparassitari sistemici. Dunque, niente pesticidi e insetticidi. Oltre a essere certificata come produzione biologica, gli ettari di Rivetto sono l’unica realtà nell’area del Barolo a fare vino biodinamico. Dal 2019 l’azienda ha ottenuto il marchio demeter, ente certificatore dell’agricoltura biodinamica, un metodo di coltivazione – per alcuni aspetti ancora più rigoroso del biologico – che punta a curare il terreno rispettando i cicli naturali e donando fertilità con ogni lavoro agricolo.

“Con il biodinamico puoi lavorare per far crescere un’azienda complessa ma forte. La certificazione biodinamica ti impone dei paletti: devi avere un certo numero di animali per ogni ettaro che possiedi. Il numero di prodotti naturali che normalmente si usano in una cantina biologica non è elevato, ma con il biodinamico si riduce ancora di più. In generale molte azioni che abbiamo intrapreso rientrano nei concetti della biodinamica, ma la certificazione è stata uno stimolo a migliorare e a praticare alcuni ragionamenti sul terreno”, spiega Rivetto che considera tutto questo come un punto fondamentale per l’economia circolare. “L’approccio biodinamico è circolarità pura, prima della carta riciclata o delle confezioni green bisogna pensare a come ti avvicina alla terra, e tutto deve tornare in circolo. Bisogna integrarsi in questo equilibrio in punta di piedi. Avendo il privilegio di produrre Barolo io mi sento molto fortunato e voglio cercare di restituire questa fortuna rendendo più armonica e viva questa terra. Le certificazioni costano e c’è tanta burocrazia, ma questi pezzi di carta possono aiutare a stimolare i cambiamenti”.

Così tigli, aceri, betulle, querce, insieme alle erbe aromatiche, ai tralci di vite, al letame degli asinelli, alle piante acquatiche cooperano e partecipano con Enrico Rivetto al rinnovamento di questa terra, lavorando alla pari per dedicare al suolo non una singola giornata, ma un’ottima annata.

© Riproduzione riservata

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