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sabato, Luglio 27, 2024

LA ‘RAEEVOLUZIONE DEL RIUTILIZZO’: LA STORIA DI REWARE

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Redazione EconomiaCircolare.com
[di Francesca Cucchiara]
Un hobby notturno si trasforma in una impresa sociale per offrire una semplice ma vincente soluzione al complesso problema dei RAEE

Sinossi

I RAEE sono i rifiuti ‘speciali’: sono quelli che si accumulano più velocemente al mondo, sono altamente tossici, hanno un valore economico, ma riciclarli è costoso ed inquinante. La soluzione al momento è quindi quella più semplice: quando possibile aggiustarli e riutilizzarli. Nei primi anni 2000 un gruppo di ragazzi, ingegneri ed informatici, si mettono insieme e creano un’associazione “Binario Etico”, il cui scopo è rendere la tecnologia disponibile per il sociale. Applicando ai computer dismessi il sistema operativo Linux, i giovani cervelloni riescono a ripristinarli e donarli alle scuole e ai meno abbienti. Quello che era un ‘hobby notturno’ diventa successivamente un lavoro e tempo pieno e l’officina del Binario Etico si trasforma in una cooperativa, attualmente nota con il nome “Reware”. Oggi questa costituisce un punto di riferimento a Roma per tutti coloro che vogliono acquistare computer con un occhio di riguardo sia per l’ambiente che per il portafoglio. Da circa 10 anni la cooperativa è stata in grado di rigenerare quasi 6 tonnellate di apparecchiature informatiche, raddoppiandone la vita utile e dimezzandone l’impatto ambientale. Un’esperienza quella di Reware che parte da una soluzione semplice ad un problema complesso per proporsi come un modello del tutto originale di impresa sociale.

Gli specialissimi RAEE e il loro problema ambientale

Partiamo dal problema e parliamo di RAEE, noti anche come WEE o più semplicemente “e-waste”. Non mail spazzatura, attenzione, il termine inganna, bensì “rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici”. In pratica, la lampada sul comodino, la lavatrice, il frigo, il telefono e ovviamente anche lui: il computer, protagonista di questa storia. Fra tutti i rifiuti, i RAEE meritano una particolare attenzione; sono un po’ ‘più speciali’ di altri e ci sono almeno quattro buone ragioni del perché. La prima è che i RAEE sono il flusso di rifiuti “più veloce” del mondo. Si accumulano così rapidamente che se nel 2010 si contavano globalmente 33 milioni di tonnellate oggi abbiamo quasi raggiunto i 50 milioni1. A fare da ‘drivers’ l’alto tasso di obsolescenza dei prodotti immessi sul mercato, nonché la tendenza, purtroppo diffusa, a ricercare l’ultimo modello accantonando il ‘vecchio’ ancora funzionante. Se nel 97 si cambiava un computer ogni sei anni, oggi lo si fa ogni tre, aumentando esponenzialmente l’accumulo dei rifiuti2. Veniamo poi alla seconda specialità: i RAEE, come ci dice Convenzione di Basilea, devono considerarsi rifiuti ‘pericolosi’ e come tali devono essere trattati. All’interno di un monitor, ‘innocuo’ oggetto d’uso quotidiano, si nascondono metalli pesanti come il piombo il cromo il mercurio e il cadmio i quali, se rilasciati nell’ambiente, causano danni irreversibili alla salute. Secondo uno studio3 condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità i più vulnerabili agli effetti della contaminazione sono bambini, nei quali viene seriamente compromessa la salute mentale. Tuttavia, all’interno dei RAEE non c’è solo roba ‘da buttar via’, ma tanti metalli che possono essere riciclati: come il ferro, il rame e persino l’oro. È proprio in questa ‘miniera urbana’4 che sta la terza specialità dei RAEE: se raccogliessero tutti i materiali di valore contenuti nei rifiuti generati nel 2014 si arriverebbe alla bellezza di 48 miliardi di euro5. Tuttavia, il riciclaggio ha un caro prezzo e anche i il costo di un trattamento ‘ad-hoc’. Economicamente parlando è più conveniente sbarazzarcene. Arriviamo alla quarta e ultima peculiarità: I RAEE sono grandi viaggiatori, si spostano moltissimo, ma soprattutto su rotte che vanno dai paesi del Nord ai paesi del Sud del mondo6. Se dunque qui il riciclaggio non conviene i RAEE si dirigono in Cina, in Nigeria, in Ghana dove questo lo si fa ad un prezzo misero in termini economici ma enorme in termini ambientali.

I RAEE in Italia. Come siamo messi?

Per certi versi possiamo dire che le cose non vanno troppo male: il tasso di recupero dei RAEE in Italia è aumentato dal 2014 di circa 14 punti percentuali ed oggi si stima che la raccolta si aggiri attorno al 40% dell’immesso sul mercato. E tuttavia neanche troppo bene: se confrontiamo le nostre performance con obbiettivi europei siamo piuttosto indietro. Con la nuova Direttiva il tasso minimo della raccolta è 45% mentre a partire dal 2019 salirà al 65%. Potremmo fare di meglio, soprattutto per quanto riguarda le categorie dei “piccoli apparecchi elettronici” come i telefonini e quella di “Tv e monitor” per i quali recuperiamo solo 20%. Una volta recuperati le soluzioni ai RAEE sono due : o il riutilizzo o il riciclaggio. Il primo non comporta alcun costo per l’ambiente, si tratta di riutilizzare qualcosa di funzionante o “riportare in vita” qualcosa che altrimenti sarebbe un rifiuto. Il secondo invece si, poiché il trattamento dei RAEE si fa con materiali e metodi altamente inquinanti. Il riutilizzo quando possibile è sicuramente la migliore soluzione, tuttavia è proprio su questo punto che ci si scontra con una stortura normativa tutta italiana. Mentre l’Europa ha previsto, con la Direttiva 2008/98, che le componenti di un rifiuto elettronico ancora funzionanti possano essere riutilizzare, in Italia ciò non è possibile poiché non ci sono ancora i decreti attuativi che lo permettono. La normativa vigente poi risulta essere piuttosto fumosa su diversi punti: l’art. 180.bis del d. lgs n. 152/06, che promuove iniziative per il riutilizzo, non definisce i parametri per distinguere “riutilizzo” -quando il prodotto non è ancora rifiuto- dalla “preparazione al riutilizzo” -cioè quando questo può essere riparato. Per altro, non vi è neanche una definizione delle qualifiche dell’operatore che può svolgere tale attività e di conseguenza non vi è alcuna modalità di monitoraggio7 .
Il riutilizzo invece, così sottovalutato, può portare diversi benefici e non solo per l’ambiente. Lo dimostra la storia della cooperativa Reware, un’iniziativa nata da un’intuizione semplice e geniale: riportare in vita i computer e metterli a diposizione per il sociale.

La RAEEvoluzione del re-uso: la scommessa di Binario Etico

Una soluzione semplice, ma un’operazione tutt’altro che banale. Per riportare alla vita un computer bisogna essere un po’ ingeneri, un po’ informatici e soprattutto un po’ appassionati, perché il lavoro si fa con molta pazienza. Ne avevano tanta quegli otto ragazzi che negli anni 90 hanno dato il via a Binario Etico; tutti delle belle teste e tutti coinvolti nell’attivismo sociale: chi veniva dai collettivi informatici di “Act Lab” o dalle fila di “ingegneri senza frontiere”. I giovani cervelloni si incontrano nel 2005 e da lì nasce il progetto. Scopo: rendere la tecnologia a disposizione del sociale. Si comincia allora con lo smanettare su vecchi computer nel tempo libero, di notte, finché le carcasse elettroniche racimolate un po’ qua e là non vengono riesumate. Cuore del progetto il sistema operativo Linux, un sistema libero e gratuito e facilmente utilizzabile. Si parte da un totale di 50 pezzi in un anno ma il vero obiettivo ha due zeri di più: non ci si vuole fermare al solo volontariato ma si punta più in alto e si lancia una scommessa: diventare un’impresa sociale nel re-uso dei computer. L’officina di Binario Etico cresce e nel 2013 diventa una cooperativa -oggi conosciuta come Reware. Una crescita difficile, cominciata da pochi volenterosi (solo tre) e con pochi soldi (il fatturato del primo anno era di soli 80.000).

Un giorno arriva una richiesta inaspettata: La BASF, la grande multinazionale della chimica mondiale, che nel 2006 aveva acquistato la Engelhard, eredita la “fabbrica di case rosse”, una delle più inquinate di Italia. Nell’edificio ci sono decine di computer di cui non se ne fanno nulla e li danno alla cooperativa per aggiustarli e donarli alle scuole. “In quel momento ci si è aperto un dilemma etico” dice Nicolas Denis uno dei soci di Reware “assecondare un’operazione da definirsi, conoscendo chi ce l’aveva proposta, di ‘greenwashing’ o accollarsi il peso (morale) di veder 200 computer andare in fumo”. I giovani informatici scelgono la prima opzione e fanno in modo che niente vada in discarica, si mettono all’opera e fatturano 40mila euro. Ironia della sorte, la grande multinazionale permette alla cooperativa di aprire un negozio. Nel 2015 la cooperativa riesce a rigenerare quasi 6 tonnellate di apparecchiature informatiche, circa 1500 computer ai quali si “allunga la vita” di circa quattro anni in più. In pratica, si riesce a dimezzarne l’impatto ambientale.

Oggi in un negozio di circa 100 metri quadrati sommersi da pile di computer Reware porta avanti diverse attività da quella di vendita a quella di formazione e consulenza. I clienti sono più diversi; dalle grandi aziende private, dal Terzo settore, fino ai piccoli privati: gli ambientalisti che si appassionano alla causa, i meno benestanti che possono acquistare computer a poco prezzo, persino i più nerd, che cercano soluzioni tecnologiche su misura. Con il nuovo progetto PC4Change la rete di Reware si estende: il recupero dei computer si agevola di una piattaforma che unisce la Cooperativa, i donatori filantropici (sia aziende che privati) soggetti non profit. In pratica una rete di raccolta computer da destinare a scopi sociali. “Il lavoro non è facile e abbiamo ancor molti ostacoli, specialmente normativi” spiega Nicolas “ma oggi possiamo dire che il recupero sia veramente di scala, solo quest’anno contiamo un fatturato di 10.000 computer. Insomma, alla fine possiamo dirlo, la scommessa l’abbiamo vinta”.

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