Anche l’intelligenza artificiale scende in campo per il riciclo della plastica. Nature ha pubblicato la ricerca di un team multidisciplinare dell’Università del Texas (Austin) che ha messo a punto un enzima in grado di ‘smontare’ le lunghe catene chimiche del PET (quello delle bottiglie ma anche di una grandissima quantità di imballaggi, fibre tessili e altri oggetti) nei mattoncini che le compongono (i monomeri). Si stima che a livello globale il PET rappresenti il 12% di tutti i rifiuti solidi, solo in minima parte riciclato. E anche nei Paesi più industrializzati, per quanto sia largamente riciclato, ogni anno una vasta parte di questi rifiuti finisce in discarica (quando non abbandonata in natura). “Le possibilità sono infinite in tutti i settori per sfruttare questo processo di riciclaggio all’avanguardia”, ha affermato sul sito dell’Università l’ingegnere chimico Hal Alper, uno degli autori dell’innovazione. “Una scoperta di grande importanza”, sottolinea ad EconomiaCircolare.com Mario Pagliaro ricercatore dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturali del Cnr (Cnr-Ismn). La ricerca USA è stata finanziata da ExxonMobil, il colosso petrolchimico statunitense.
Un enzima contro l’inquinamento da plastica
La premessa da fare è quella enunciata, qualche giorno fa, dall’Agenzia europea per l’ambiente (AEA): contro lo tsunami globale della plastica, il riciclo da solo non basta. Né una maggiore e migliore possibilità di riciclo deve diventare l’alibi per non ripensare gli insostenibili modelli di consumo globali. Ma sapere che una volta usato un polimero possa (convenientemente?) essere smontato e ricomposto per produrre nuova plastica vergine (utilissima per tantissimi impieghi) ci aiuta ad essere più ottimisti sulla riduzione dei rifiuti e dell’impiego di gas e petrolio.
All’origine dell’innovazione dei ricercatori texani c’è una scoperta del 2015, ci racconta Pagliaro: un batterio, Ideonella sakaiensis, che produce proteine che gli permettono di fare a pezzi chimicamente i polimeri del PET attraverso l’idrolisi (questo tipo di enzima prede il nome di “idrolasi” e, nel caso del PET, di “PETasi”: enzima che catalizza, cioè aiuta, l’idrolisi del PET). Per ottenere questo risultato occorrono solo acqua, un po’ di calore e l’enzima. Dov’è la novità, allora, rispetto al 2015? L’enzima scoperto agisce solo ad alte temperature. E qui arrivano i ricercatori dell’Università del Texas, che grazie ad un algoritmo di machine learning hanno valutato quali sarebbero state le modifiche (“mutazioni”) da apportare alla molecola proteica per renderla più rapida e attiva anche in condizioni normali (temperatura e pressione ambientali). Nasce così FAST-PETasi (in inglese “Functional, Active, Stable and Tolerant PETase”). “Parliamo di un catalizzatore naturale, un enzima, una proteina prodotta da batteri e ingegnerizzata dai chimici americani con l’aiuto del machine learning in modo da poter sciogliere (idrolizzare) il polietilene tereftalato (PET) nei suoi componenti: acido ftalico e glicole etilenico”, ci spiega Pagliaro.
“Dimostriamo – scrivono i ricercatori su Nature – che il PET post-consumo non trattato di 51 diversi prodotti può essere quasi completamente degradato da FAST-PETasi in una settimana”. L’enzima è stato infatti testato su 51 differenti contenitori di plastica post-consumo, cinque diverse fibre di poliestere, tessuti e bottiglie d’acqua in PET. “In alcuni casi – leggiamo – queste plastiche sono state completamente scomposte in monomeri in sole 24 ore”. L’enzima, aggiungono gli studiosi, “può anche depolimerizzare porzioni non trattate di una bottiglia d’acqua commerciale e un’intera bottiglia d’acqua pretrattata termicamente a 50 ºC. Infine, dimostriamo un processo di riciclaggio del PET a circuito chiuso: utilizzando FAST-PETasi e poi procedendo ad una nuova sintesi di PET dai monomeri recuperati”. Dopo la depolimerizzazione la ripolimerizzazione: il riciclo chimico insomma. Come sostengono i ricercatori su Nature, la chiusura del cerchio del PET. Aggiungendo che le tecniche di biologia sintetica impiegate per riprodurre gli enzimi sono “relativamente economiche e non troppo difficili da scalare fino al livello della produzione industriale”. Dal punto di vista ambientale, riflette Pagliaro, “la produzione di enzimi per via sintetica (tecniche di sintesi chimica) non ha praticamente alcun impatto sull’ambiente. Rispetto alla produzione di PET vergine, poi, il bilancio energetico è assolutamente conveniente, perché il PET come tutti i polimeri è prodotto ad alte pressioni e alte temperature: si tratta di processi petrolchimici di grande dispendio energetico che utilizzano costosi catalizzatori”.
E aggiunge: “Non è un caso che la ricerca sia stata finanziata da un colosso petrolchimico, che ha interesse a recuperare le materie prime da cui ottenere nuovo PET vergine, molto più apprezzato dal punto di vista economico rispetto a quello riciclato”.
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I prossimi passi e gli ambiti di impiego
“Oltre all’ovvio settore della gestione dei rifiuti – spiega ancora Alper – FAST-PETasi offre anche alle aziende di ogni settore l’opportunità di assumere un ruolo guida nel riciclaggio dei loro prodotti”.
Ma siamo ancora a livello di ricerca accademica. “Ora si tratta di vedere se riusciranno a produrre l’idrolasi ad un costo compatibile”, ci dice Pagliaro. Che non ha dubbi: “Ci riusciranno quasi sicuramente: ci sono tanti enzimi sul mercato, e non ci sono problemi a produrli. La cosa difficile è stata scoprirlo, avviarne la produzione ottimizzata dal punto di vista industriale non sarà un problema che richiederà molto tempo per essere risolto”.
Prossimamente il team di ricerca, che ha depositato una domanda di brevetto, lavorerà per raggiungere la scala industriale. Tra i possibili usi, come spiegato dall’Università, “ripulire le discariche e rendere più ecologiche le industrie ad alta produzione di rifiuti sono le più ovvie. Ma un altro potenziale utilizzo chiave è il risanamento ambientale. Il team sta esaminando diversi modi per portare gli enzimi sul campo per ripulire i siti inquinati”.
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