Con i carri armati di Putin mossi nel cuore d’Europa la storia presenta il conto e si rimette in moto alla ricerca di un nuovo equilibro, un nuovo assetto di forze a livello mondiale, che non potrà comunque essere quello antecedente il 24 febbraio 2022.
Con la guerra è evaporata come neve al sole il sogno della globalizzazione targata anni Novanta, ossia l’illusione certificata dagli eleganti modelli di economia internazionale – su tutti quello di Heckscher-Ohlin, propagandato da ogni pulpito, accademico e politico – fondati sull’assunto (che qui siamo costretti a sintetizzare al massimo, chiediamo venia agli addetti ai lavori, nda) che ciascun paese si specializzasse a produrre ciò che gli risultava più conveniente – attraverso la combinazione dei due fattori produttivi, capitale e lavoro – e che tutto ciò generasse il meraviglioso flusso degli scambi mondiali a beneficio di tutti.
La guerra si è peraltro sommata a un aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime originato da diversi e concomitanti fattori geopolitici (tra cui l’aumento della domanda globale con un’offerta stabile se non in calo, instabilità politica di troppi fronti caldi, speculazioni da ripartenza post-pandemia), provocando una impennata dei costi per le imprese e i cittadini che stava già condizionando pesantemente gli equilibri economici, quindi l’efficienza generale di sistema, e questo ben prima dell’invasione dell’Ucraina.
Principalmente a causa dell’aumento esponenziale del costo dell’energia molti comparti industriali/manifatturieri stanno chiudendo i battenti, mentre sono state riaccese alcune centrali a carbone, nella quasi indifferenza collettiva.
A ciò vanno aggiunti lo shock della pandemia da Covid 19 (ci siamo ancora dentro) e la gravissima crisi climatica e in genere ambientale che ci sta portando a un punto di non ritorno (come certificato dall’IPCC, la comunità scientifica sotto egida ONU), avendo già, abbondantemente, superato i fatidici due gradi di aumento della temperatura globale.
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La tempesta perfetta
Tra guerra, pandemia e crisi climatica siamo alla tempesta perfetta che richiede un cambio di passo immediato.
Appare crollata per sempre l’illusione di poter dipendere dall’estero, in termini di materie prime ed energie, senza pagare un prezzo dannatamente alto. Soprattutto in Italia, la guerra in Ucraina sta facendo emergere in maniera plastica la contraddizione drammatica di essere un grande paese manifatturiero del G7 con scarsa disponibilità di materie prime, di gas e in genere di fonti energetiche tradizionali. Un gigante dai piedi d’argilla, ecco come appare il nostro paese in questo momento storico.
Soprattutto sul fronte energetico, con lo stop delle forniture russe il nostro Paese è a rischio default energetico, almeno senza interventi strutturali e immediati. Non solo alla luce delle carenze di fonti di approvvigionamento interno ma anche per il raggiungimento dei target europei posti per la decarbonizzazione dell’economia, ancora sostanzialmente impantanata nei meccanismi lineari. Considerato, infatti, che la produzione e l’utilizzo di energia rappresentano oltre il 75% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE (fonte Commissione UE), la decarbonizzazione del sistema energetico dell’UE è una scelta obbligata.
È evidente quanto la questione energetica sia ormai un tema strategico ed è altrettanto evidente che una delle strade sia quella dei rifiuti, considerato che il potenziale energetico a essi legato è ancora ampiamente sottoutilizzato, viste le percentuali di rifiuti che ancora mandiamo in discarica. Secondo i dati del Laboratorio REF Ricerche, principalmente a causa dei deficit impiantistici, ad oggi circa 457mila tonnellate di rifiuti urbani vengono smaltite in discariche e collocate fuori dal perimetro delle Regioni dove i rifiuti sono prodotti, a fronte di un totale conferito in discarica di 5,8 milioni di tonnellate.
Peraltro, l’Italia ha scelto di anticipare di due anni l’obbligo UE (Direttiva UE 2018/851) di avvio della raccolta differenziata dei rifiuti organici provenienti dal circuito urbano, facendolo decorrere dal 31 dicembre 2021, che ci costringerà a gestire flussi aggiuntivi di frazioni organiche.
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La scommessa del recupero energetico dalla frazione organica dei rifiuti
La digestione anaerobica degli scarti organici è preferibile a quella aerobica (produzione di compost) per almeno 4 motivi:
1) dal punto di vista ambientale la digestione anaerobica – processo biologico di degradazione della sostanza organica, in assenza di ossigeno, che si instaura “spontaneamente” grazie allo sviluppo della flora microbica anaerobica indotto dalle condizioni rigorosamente anaerobiche garantite nei digestori – avviene in ambiente chiuso (all’opposto della digestione aerobica) e non rilascia in ambiente gas climalteranti (tra cui il temibile metano);
2) attiva mercati economici particolarmente efficienti e redditizi, capace com’è di differenziare gli output finali, producendo sia biogas (che con ulteriore passaggio può diventare biocarburante) che almeno due sottoprodotti, il digestato (come sancito dal decreto legge n. 21 del 21 marzo 2022 – Misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina) e l’anidride carbonica (CO2) da destinare prevalentemente al mercato alimentare;
3) evita alla radice il rischio che nei campi agricoli ci finiscano sostanze inquinanti non tracciate e/o individuabili nei processi di raccolta e trattamento;
4) costringe a una filiera maggiormente tracciata e monitorata – data la posta in gioco –, quindi meno a rischio di percorsi illeciti.
Tale processo di produzione di biogas e biocarburanti dalla frazione organica dei rifiuti urbani e in generale dagli scarti delle attività agroalimentari, zootecniche e ciclo idrico (fanghi di depurazione) consente, quindi, di mettere in piedi esempi concreti di osmosi industriale, trasformando in valore ciò che potrebbe essere considerato un costo per altri (aziende zootecniche, allevamenti e gestori del servizio rifiuti urbani).
Biogas e biometano sono in grado di ridurre le emissioni di gas climalteranti del ciclo di vita di almeno il 70% dopo la combustione rispetto al gas naturale o a un equivalente combustibile fossile. Secondo i principali attori della filiera, il biometano è una fonte energetica nazionale che può contribuire fino a circa il 15% della domanda di gas al 2030 e sostenere la produzione di gas su territorio nazionale.
Fino a oggi a questa tipologia di biogas/biocarburanti prodotti in casa si è preferita l’importazione di gas (di origine fossile) proveniente dall’estero, Russia e Algeria su tutti.
Come fanno notare tutti i dati ufficiali disponibili (Consorzio biogas, Ispra, Mite, etc.), biogas e biometano hanno coperto nel 2020 poco meno del 5% dei consumi di combustibili gassosi europei e hanno ampie prospettive di crescita sospinte dalla transizione ecologica.
Si tenga presente che in Italia si producono ogni anno circa 13,5 milioni di tonnellate/anno di residui colturali e scarti agroalimentari (fonte CIC, 2021), scarti che potrebbero essere integrati nella digestione per fini energetici. Un settore, quello agro-zootecnico attualmente ancora privo di una regia nazionale e da tempo alla ricerca di un nuovo centro di gravità ove far confluire parte dei propri scarti al fine di trasformarli in una risorsa, anche energetica, condivisa con i rispettivi territori. Un potenziale ancora privo di sinergie, che invece dovrebbero attivarsi necessariamente nell’interesse di tutti.
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Cosa prevede il nuovo decreto biometano
Non a caso il nuovo decreto Biometano, firmato dal Mite, sostituirà il decreto ministeriale 2 marzo 2018 e ha proprio l’obiettivo di coordinare i nuovi sistemi di incentivazione del biometano con i contributi del PNRR per la realizzazione di nuovi impianti e la riconversione degli impianti agricoli di biogas con i contributi per la realizzazione di interventi di agricoltura circolare. Ciò rappresenta un potenziale miglioramento rispetto al previgente sistema specialmente per il contesto agricolo e per gli impianti di taglia fino a 250 Smc/h e prevede incentivi per la durata di 15 anni con tariffe omnicomprensive o tariffe premio variabili per taglia e matrice.
In particolare, il DM prevede l’incentivazione di due tipologie di biometano:
- per i trasporti (uso esclusivo di matrici avanzate di cui all’allegato VIII del DLgs di recepimento RED2 e riduzione del 65% delle emissioni di CO2);
- per altri usi (riduzione dell’80% delle emissioni di CO2)
Infine, energia dai rifiuti non significa solo fiamme e termovalorizzatori. Una alternativa valida a nuovi forni (tema oggi particolarmente in voga, soprattutto in Umbria e a Roma, per citare i casi più noti) potrebbe essere quella della valorizzazione delle frazioni secche da raccolta differenziata, non riciclabili, per produrre CSS-C (Combustibile solido secondario – Combustibile). Quest’ultimo da quasi un decennio è classificato come un combustibile, quindi a tutti gli effetti end of waste (Dm n. 22 del 14 febbraio 2013) – non più un rifiuto – da usare nei cementifici (costringendoli a ridurre le emissioni in atmosfera) e nelle centrali termoelettriche, in ambedue casi in sostituzione di fonti fossili (in particolare carbone e pet coke, il peggio in circolazione). Per una lunga serie di motivi il CSS-C non trova ancora mercato e viene prodotto e impiegato solo in maniere residuale.
Sottrarre alle discariche questi flussi di scarti dall’alto con potere calorifero dovrebbe diventare un obbligo, una vera priorità, non solo per raggiungere il target UE di non superare il 10% per questa forma di smaltimento entro il 2035.
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Le ragioni della mancata valorizzazione energetica
Oltre alle pressioni delle lobby fossili e all’assenza di una visione politica di lungo respiro, tra le cause che finora hanno causato il perpetuarsi dei deficit impiantistici nel ciclo dei rifiuti – prevalentemente per il loro recupero (sia materia che energia) – e in modo particolare la loro disomogenea collocazione geografica spicca il ruolo degli enti pubblici locali. Una delle conseguenze più paralizzanti è relativa alle tempistiche autorizzative per gli impianti.
Secondo il “Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica” della Corte dei conti, i tempi necessari per la realizzazione delle infrastrutture afferenti il ciclo dei rifiuti urbani è pari, in media, a 4,3 anni. In molti contesti la pessima gestione della raccolta differenziata, compresa la frazione organica, ha impedito sul nascere ogni iniziativa di valorizzazione energetica, facendo la fortuna di proprietari di discariche (con il divieto scattato a gennaio non dovrebbe più essere così), broker e trasportatori.
A ciò si aggiunga l’eccessiva conflittualità sociale, per cause che qui non si possono approfondire, che in generale rendono eccessivamente difficile l’agibilità politica ed economica di ogni iniziativa impiantistica. Con punte parossistiche, per colmo di paradosso, per la costruzione proprio dei digestori anaerobici, che attivano un protagonismo antagonista di comitati nati ad hoc che ha pochi eguali in altri casi. Secondo una ricognizione operata dall’Osservatorio Nimby Forum, le infrastrutture per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti sono destinatarie di circa 1/3 delle iniziative di opposizione dei territori.
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