La papamobile è alimentata a idrogeno ma se il Pontefice cercasse una stazione di rifornimento dovrebbe arrivare a Bolzano. Con questo paradosso, l’insegnante e attivista ambientale Angelo Gagliani, punto di riferimento della scuola Emergenza Climatica, illustra le attuali carenze della filiera del combustibile e vettore energetico che, come racconta EconomiaCircolare.com, è al centro delle attenzioni dell’Italia e dell’Europa.
Su quella che è stata definita la risorsa energetica del futuro si concentrano le speranze e appetiti economici di tanti. Anche il nostro Paese cerca di stare al passo con le economie più avanzate del Vecchio continente e a dicembre il ministero dello Sviluppo economico ha lanciato la consultazione pubblica sulle linee guida per la Strategia nazionale sull’idrogeno. Un documento al quale Emergenza Climatica, il movimento No Tap, il Forum Ambientalista e la rete Legalità per il Clima hanno presentato, in rappresentazione e sottoscrizione anche della campagna ‘Per il clima, fuori dal fossile’, le proprie osservazioni. In 32 serrate pagine la strategia del governo viene smontata pezzo per pezzo, con lo scopo di rafforzare davvero il potenziale dell’idrogeno.
È il modello di sviluppo che va cambiato
“La strategia nazionale sull’idrogeno appare scritta da Snam e da Eni – afferma il professor Gagliani – Prevede 10 miliardi di euro di investimenti, di cui la metà privati, ma ha obiettivi davvero risibili: al 2018 la produzione attuale di idrogeno grigio per usi industriali è di 500mila tonnellate l’anno, al 2030 si punta ad arrivare a 700mila tonnellate di idrogeno compensato (tramite il cosiddetto Css con lo stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica prodotta, ndr). Lo scopo in realtà è di ripulire l’idrogeno, passando dall’attuale grigio (dove l’anidride carbonica viene dispersa nell’aria) al blu. La differenza sta nel modo in cui viene prodotto l’idrogeno: qui invece, nel passaggio dal grigio al blu, ciò che cambia è che nel primo caso l’anidride carbonica va dispersa, mentre nella seconda andrebbe stoccata. Alla fine però quel che resta del metano è sempre CO2. Perché il problema, a nostro modo di vedere, non è quale energia viene usata ma quale materia viene utilizzata per produrre idrogeno. E con l’idrogeno blu si fa ancora riferimento alle fonti fossili, in questo caso al gas, mentre col verde si ricorre all’acqua”.
Per spiegare meglio quello che intende, Gagliani sceglie una formula efficace: “con l’idrogeno le aziende fossili vogliono passare dal greenwashing al bluewashing”. Il doloroso anno che ci siamo lasciati alle spalle ci ha insegnato che il mondo si può fermare, quando va in crisi. E dopo la pandemia che ha contrassegnato il 2020, i prossimi anni saranno certamente segnati dalla crisi climatica che è già in atto. Ecco perché diventa fondamentale individuare soluzioni sostenibili e circolari al modello di sviluppo in cui viviamo. Non possono bastare palliativi e transizioni lunghe decenni, servono soluzioni immediate. Le critiche alla strategia nazionale sull’idrogeno partono proprio da qui.
Dati vecchi e parziali
“Siamo in un momento di gravissima e inedita emergenza – si legge – di fronte alla quale abbiamo il dovere, tutti, del coraggio e dell’onestà intellettuale”. Ecco perché, “pur apprezzando lo sforzo del governo”, la bocciatura è netta. “Tutta la strategia nazionale è basata su vecchi dati – fa notare ancora Gagliani – Innanzitutto fa riferimento al Piano Nazionale Energia e Clima, che nella definizione di mix energetico neanche prevedeva l’idrogeno. Le linee guida sono state poi state pubblicate a dicembre. Appena una settimana dopo il Consiglio europeo ha portato l’obiettivo della riduzione di emissioni di anidride carbonica al 55%, mentre il documento del Mise si basa ancora sulla vecchia definizione del 40%. Anche la strategia sull’idrogeno si basa, poi, su un’idea di transizione energetica che finora è stata focalizzata sul gas. Ma, tanto per fare un esempio, sempre a dicembre è stato stabilito che i soldi del Just Transition Fund non andranno al gas. Ecco il motivo per cui le aziende italiane come Eni, Enel e Snam si sono lanciate sull’idrogeno”.
E in effetti, come abbiamo raccontato anche noi di EconomiaCircolare.com, la grande corsa all’idrogeno delle aziende italiane è appena agli inizi e già promette una competizione serrata. Le aziende si dividono sui colori dell’idrogeno: verde per Enel, blu per Eni e Snam e tutte le altre. Una differenza cromatica che nasconde però un diverso modello di produzione. “In realtà l’idrogeno blu esiste da decenni, in questo senso le aziende fossili non hanno inventato nulla – afferma ancora Gagliani – L’idea dunque è di ricavare idrogeno dal metano. Ma se dal CH4, la formula chimica del metano, togli H2, cioè la formula chimica dell’idrogeno, resta Co2, e dunque anidride carbonica. La strategia nazionale afferma che quella Co2 in più che viene prodotta verrà smaltita con l’impianto per la cattura e lo stoccaggio di carbonio di Ravenna, di proprietà dell’Eni, su cui insiste anche il governo. Si tratta di un impianto che costerebbe da solo circa 12 miliardi di euro, con una quota superiore al miliardo che è stata già definita nella bozza del Recovery Plan, e che dovrebbe raccogliere la Co2 degli impianti del Nord. Tutta la strategia dunque si basa non solo su un impianto molto dispendioso, che ancora non esiste, ma che già è stato bocciato dalla Corte dei Conti europea e che la rivista Nature ha definito antieconomici”.
Mancano controlli intermedi
Come si legge ancora nelle fitte osservazioni avanzate dalla campagna Per il clima, fuori dal fossile, “gli obiettivi sono fissati al 2030 come medio termine e al 2050 come lungo termine, ma la Strategia Europea e quella tedesca prevedono uno step intermedio a breve termine con obiettivi già al 2024, che obbliga tutte le parti interessate a intraprendere misure di mitigazione climatica nell’immediato, come richiede anche l’ultima raccomandazione dell’IPCC (il gruppo intergovernativo per il cambiamento climatico, all’interno dell’Onu, ndr) per contenere l’emergenza climatica”. Come a dire: è difficile che chi ha creato il problema riesca poi a risolverlo, così come da tempo affermano gli attivisti di Fridays for Future, a meno di rimettere davvero in discussione la propria natura e i propri business. Che finora, invece, sono stati foraggiati dai governi.
Riconvertire le centrali anti-economiche
“Fino a questo momento le aziende non vengono pagate soltanto per l’energia che producono ma anche per la sicurezza che offrono al mercato nel caso in cui questa venga a mancare -spiega ancora Gagliani – Ecco perchè impianti come il rigassificatore di Livorno o le centrali Enel di Cerano e Civitavecchia, ma l’esempio potrebbe estendersi a molti altri siti, non funzionano a pieno regime perché sono sovvenzionati dallo Stato attraverso il capacity market”. Il sistema, creato dal Ministero dello Sviluppo Economico, a detta di molti non crea condizioni eque di mercato per le fonti rinnovabili e andrebbe rivisto coerentemente con gli Accordi di Parigi e i recenti e ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2 che si è data l’Europa.
“Con l’idrogeno ci si potrebbe liberare da queste centrali antieconomiche – osserva il docente – Invece si tenta di usare l’idrogeno come scusa per mantenere la vasta rete di gasdotti che attraversa il Continente. Con vere e proprie assurdità, penso per esempio al processo di metanizzazione della Sardegna quando dal 2030 non dovremmo più usare i gas. È chiaro che per un uso reale dell’idrogeno serve creare prima il contesto. La domanda non si crea se non offri prima un’adeguata l’offerta. In questo senso vanno le nostre osservazioni. E ci preoccupa che un’ampia parte della strategia sull’idrogeno sia riportata col copia e incolla nella bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”.
La scarsa valorizzazione delle comunità energetiche
Tra i punti più deboli dell’attuale strategia nazionale sull’idrogeno, che dovrebbe diventare definitiva a febbraio, c’è certamente la sottovalutazione delle comunità energetiche. A settembre proprio il Mise ha firmato il decreto attuativo che definisce la tariffa con la quale si incentiva la promozione dell’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche da fonti rinnovabili, al fine di favorire la transizione energetica ed ecologica del sistema elettrico del nostro Paese, con benefici ambientali, economici e sociali per i cittadini. Allo stesso tempo, però, il governo sembra tralasciare il collegamento con l’idrogeno verde, cioè quello la cui produzione è alimentato dalle rinnovabili e che prevede la scissione dell’acqua.
“Non sono previste, se non marginalmente, incentivi alla costituzione di hydrogen valleys e comunità energetiche gestiti dagli enti locali e dai cittadini – si legge nelle osservazioni – La produzione dell’idrogeno verde avverrà nelle hydrogen valleys. In questo contesto è completamente ignorata la creazione, lo sviluppo e la diffusione territoriale delle reti di comunità energetiche. Lo stoccaggio di idrogeno alimentata da fotovoltaico ed eolico è parte essenziale di questo sistema energetico di autoproduzione e consumo decentrato e costituisce fonte di energia a disposizione per ovviare alla discontinuità di sole e vento e per essere utilizzata in quegli impieghi e in quei luoghi che oggi fanno ricorso a energia fossile. Nello scenario ipotizzato è ignorato il modello delle comunità energetiche che, se adeguatamente programmato, incentivato e sostenuto, sarebbe invece il fattore importante per l’ambientalizzazione e la lotta al cambiamento climatico nei territori e nello stesso tempo espressione di governo partecipato e diffuso della transizione energetica e di gestione dell’energia verde e delle nuove forme di occupazione. Di conseguenza viene ignorato il ruolo degli enti locali, comuni, città metropolitane e regioni come soggetti portatori delle istanze e degli interessi delle comunità territoriali”.
Costruire una filiera si può
Anche sulla filiera, infine, la strategia appare poco ambiziosa. È il caso ad esempio degli elettrolizzatori, apparecchiature che diventeranno fondamentali con la diffusione dell’idrogeno, e però poco citate dal documento del ministero. “Penso per esempio a un impianto che verrà fatto a Brindisi – dice Gagliani -, con gli elettrolizzatori che arriveranno dalla Siemens e dalla Porsche, con Snam che ha stretto in questo senso accordi commerciali. Invece gli elettrolizzatori, che poi una specie di lavatrice chimica, potrebbero benissimo essere prodotti in Italia. Dalla Whirpool di Napoli o da altre industrie meccaniche che sono in forte sofferenza. Riconvertire l’industria e riconvertire i lavoratori è possibile, ma bisogna volerlo”. Nel documento del governo le stime occupazionali sono piuttosto ottimistiche: si indicano 200mila posti di lavoro temporanei, creati nella fase di costruzione, e fino a 10mila posti di lavoro fissi sul medio periodo. Manca però tutta la parte sulla formazione. “Devono essere previsti – suggeriscono le osservazioni degli attivisti – corsi di formazione a livello di scuole o università, la riqualificazione professionale di tecnici e operai per la produzione degli elettrolizzatori, della installazione e manutenzione degli impianti, del controllo degli impianti”.
Ancora dubbi sull’impianto CSS di Ravenna
“Se dovesse passare il progetto di Eni sul mare Adriatico sarebbe un disastro per l’intera Italia”. Il professore Gagliani non usa mezzi termini quando si tratta di discutere dell’impianto Css che Eni intende realizzare al largo di Ravenna, sfruttando i giacimenti esausti di gas per conservare l’anidride carbonica in eccesso. In questo senso Gagliani è in buona compagnia. Fino a questo momento del mega impianto progettato dal cane a sei zampe ci sono soltanto vaghi riferimenti – non c’è un progetto specifico da consultare – e in questo senso la strategia nazionale sull’idrogeno, limitandosi ad accennarlo e dunque dandolo implicitamente per fatto.
Quel che preoccupa la rete è “la logistica dell’idrogeno compensato: come verrà trasportata la CO2 all’unico CCS in progetto a Ravenna, via autotrasporto, treno, nave? E le emissioni risultanti da tali trasporti? O saranno forse i 4000 camion a lungo raggio a celle combustibili previsti dalla Strategia a effettuare tale trasporto? Sembra una strategia assurda quella prospettata, che impiega energia elettrica prodotta da combustibili fossili (attualmente il 70%, secondo il PNIEC 2019) per alimentare elettrolizzatori che scindono il metano (combustibile fossile) in idrogeno e CO2 (gas climalterante), CO2 che verrebbe poi trasportata (producendo ulteriore CO2) e compensata nell’impianto CCS di Ravenna, non eliminandola, ma nascondendola sotto al mare… E la decarbonizzazione tanto agognata?”
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