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venerdì, Novembre 15, 2024

La guerra, la spasmodica ricerca del gas e il ritorno in grande stile del carbone

L’invasione dell'Ucraina da parte della Russia ha già tra le sue conseguenze l’aumento ulteriore del prezzo del gas. Il governo Draghi ha finora stanziato 15 miliardi per fronteggiare l’aumento delle bollette. Secondo il think thank Ecco è necessario tassare gli extraprofitti delle società fossili e puntare sulle rinnovabili

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Le conseguenze più deleterie di ogni conflitto armato sono quelle a lungo termine. Ma c’è un dato che, nella guerra che la Russia ha mosso verso l’Ucraina, è già evidente da alcuni mesi e, ancor più, a partire da ieri: il costo costo, in tutti i sensi, del gas. Soltanto il 23 febbraio, poche ore prime dell’avvio delle operazioni militari da parte del presidente russo Vladimir Putin, il ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani riferiva al Parlamento italiano le strategie del governo per fronteggiare la crisi energetica.

In questi mesi, ha affermato il ministro, “l’aumento dei costi dell’energia è stato vertiginoso. Per quanto riguarda il mercato del gas naturale, il prezzo al PSV (Punto di Scambio Virtuale del gas naturale in Italia) è passato dai circa 20 euro per megawattora (€/MWh) di gennaio 2021 fino agli 87 €/MWh di gennaio 2022, con un aumento di oltre 4 volte (e con punte giornaliere che hanno raggiunto il valore record di 180 €/MWh nei mesi scorsi)”. Oggi, con la guerra che è diventata realtà,  il prezzo del gas è schizzato già a 145  euro per megawattora, per poi assestarsi intorno ai 113 €/MWh. E promette di crescere ancora. Con l’Italia che, ricordiamo, nel suo mix energetico ha ancora il 42% di gas naturale (importato per oltre il 90%) e il 36% di petrolio. Ecco perché, già prima dell’assalto russo all’Ucraina, c’era molta attesa sulla relazione di Cingolani.

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La strategia dell’Italia punta ancora sul gas

A proposito di numeri, ce n’è uno che è il necessario punto di partenza per ogni riflessione: attualmente il nostro Paese importa il 45% del gas che usa per i consumi interni dalla Russia. Il nostro mix energetico, dicevamo, è schiacciato moltissimo su questa fonte fossile e ci rende particolarmente esposti nella prosecuzione del conflitto Russia-Ucraina. Non è un caso se Italia e Germania sono gli unici due paesi dell’Unione europea che si sono opposti all’idea di inserire anche i (mancati) rifornimenti di gas tra le sanzioni da imporre a Putin, il quale tra l’altro continua da tempo a usare gli stessi come spauracchio.

Non sorprende dunque che il ministro Cingolani abbia esordito nella propria relazione ricordando che “il Governo e il Parlamento sono intervenuti negli ultimi trimestri per attutire l’impatto dei rincari per 29 milioni di famiglie e 6 milioni di imprese, con un mix di misure per un valore superiore a 15 miliardi di euro in tre trimestri”. L’ultimo provvedimento in tal senso, annunciato lo scorso venerdì 18 febbraio e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è il cosiddetto decreto legge Energia, che intende superare la fase emergenziale degli stanziamenti una-tantum e provvedere a “un percorso di riforme e iniziative più strutturali per far fronte all’evoluzione dello scenario energetico”.

Se da un lato si punta a un’accelerazione delle fonti rinnovabili, ha ricordato il ministro, dall’altro si introduce “un nuovo paradigma nello sviluppo delle risorse di gas nazionali, che punta a rilanciare la produzione nazionale sui giacimenti esistenti, così da ridurre la dipendenza dall’estero”. In sostanza l’idea del MITe, a parità di consumi e di emissioni, è di usare maggiormente il gas locale. Nella speranza, tutta da dimostrare, di diminuirne i costi.

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“Diversificare le fonti di approviggionamento del gas”

Secondo gli ultimi dati, riportati anche nel PiTESAI, l’Italia nel 2021 ha consumato circa 76,1 miliardi di metri cubi di gas: è un dato che rimane pressoché costante da circa 20 anni, a fronte di una produzione nazionale che nel 2000 era di 20 miliardi annui e nel 2021 è scesa fino a 3,3 miliardi. Una maggiore produzione locale, a dire del MiTe, diminuirebbe le emissioni, dato che si eviterebbero i lunghi trasporti del gas.
In particolare con il recente decreto Energia si prevede:

  • un incremento della produzione nazionale di 2,2 miliardi di metri cubi, su aree quali la Sicilia e le Marche, consentendo di arrivare ad una produzione nazionale fino a circa 5 miliardi di metri cubi di gas nei prossimi tre anni
  • l’introduzione di meccanismi di ritiro della produzione nazionale da parte del gruppo GSE (Gestore Servizi Energetici, nda) a prezzi equi, da assegnare in primis ad aziende energivore e piccole medie imprese
  • consentire l’importazione aggiuntiva di volumi di gas naturale attraverso i gasdotti non interconnessi alla rete europea dei gasdotti (quindi importazioni dall’Algeria, dalla Libia e attraverso il TAP) e nei terminali di rigassificazione di gas naturale liquefatto (GNL) importato dall’estero.

La sintesi è chiara: più gas italiano a parità di emissioni per supportare le imprese, mentre restano esclusi i singoli cittadini. “Il consumo globale di gas è rimasto costante in questi anni – ha osservato il ministro – mentre abbiamo ridotto moltissimo la produzione nazionale, senza reali benefici a livello ambientale e con, in parallelo, un disinvestimento industriale. Lo scopo dell’aumento della produzione nazionale di gas è di ridurre le importazioni, anche se di poco. Inoltre col decreto Energia stiamo provando a diversificare le fonti di approvvigionamento del gas importato”.

Che però, va ribadito, si appoggiano ad altri Stati con situazioni interne molto turbolente – in primis la Libia, dove il gasdotto GreenStream che parte da Mellitah e arriva a Gela, in Sicilia, non ha mai viaggiato al massimo delle proprie capacità sin dal suo avvio nel 2004. Infine il ministro ha accennato anche un’ipotesi che fa tremare la popolazione: tra le misure che il governo è pronto a mettere in campo, in seguito all’aggravarsi del conflitto in Ucraina, ci sono anche “misure di flessibilità sui consumi di gas (per esempio interrompibilità nel settore industriale) e sui consumi di gas del settore termoelettrico (dove pure esistono misure di riduzione del carico in modo controllato) nonché “misure di contenimento dei consumi negli altri settori”. Come a dire che il vero inverno deve ancora arrivare.

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Le critiche di Ecco alla strategia dell’Italia basata sul gas

Va specificato che la strategia italiana sul gas è stata delineata prima dello scoppio della guerra in Ucraina (e probabilmente l’aveva immaginata tra gli scenari possibili) e che in un certo senso è stata preparata dalle precedenti misure, con relativi decreti, che hanno ammortizzato i costi in aumento delle bollette di luce e gas.  Si può dunque procedere già a una loro analisi? È quello che fa il report del think thank italiano Ecco, che dall’anno scorso affronta in maniera scientifica i temi relativi alla crisi climatica. Nel dossier di 16 pagine, intitolato “Sostegni alle bollette e Robin Hood tax”, Ecco boccia le mosse del governo perché “ mancano di selettività rispetto all’effettivo stato di difficoltà dei consumatori finali e all’effettiva capacità delle aziende di passare tali costi a valli”.

Secondo il think thank, dunque, i 15 miliardi di euro finora messi in campo dal governo “non sono subordinati ad alcuna azione di risparmio o efficientamento energetico, e quindi si configurano verosimilmente come sussidi ambientalmente dannosi secondo la classificazione dello stesso MiTE. Il finanziamento delle misure, oltre alla fiscalità generale, si basa sull’utilizzo dei proventi ETS (la carbon tax europea) e sull’introduzione di una tassa (con modalità discriminatorie di dubbia costituzionalità) ai danni di una parte considerevole delle aziende che producono elettricità da fonti rinnovabili, anche quando le stesse non hanno mai ricevuto alcun sussidio pubblico”.

Nel report Ecco sottolinea inoltre che “non c’è alcuna ragione operativa o informativa che esima il Governo dal chiamare a un contributo anche gli operatori dell’energia fossile che stanno anch’essi ricevendo margini più alti a causa dei prezzi attuali”.  Diventa poi interessante notare che “l’incremento dei profitti riguarda in particolare le centrali a ciclo combinato a gas (anche quelle incluse nel meccanismo del capacity market), quelle a carbone (che hanno incrementato la produzione e stanno ottenendo margini netti addirittura 50 volte più alti – a dicembre 2021 rispetto a dicembre 2019) e la filiera dell’importazione e della vendita dei combustibili fossili, gas in primis”.

Insomma: la crisi energetica è diventata un’occasione di enormi profitti da parte delle aziende fossili. Soltanto Eni, ad esempio, ha visto crescere nell’ultimo trimestre del 2021 gli utile del 53% (pari a 3,8 miliardi di euro) e, secondo Ecco, dovrebbero contribuire anche esse all’aumento delle bollette attraverso contributi di solidarietà (gli stessi di cui aveva parlato lo stesso premier Mario Draghi lo scorso dicembre).

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Il ritorno del carbone

Il dato più impressionante è però quello relativo al carbone: consultando i dati forniti da Terna, gli autori del report Michele Governatori e Francesca Andreolli hanno scoperto che non solo “la quantità di energia prodotta nelle centrali a carbone italiane a partire dall’inizio della crisi dei prezzi è risalita interrompendo quella che si configurava come una chiusura di fatto di molte di queste centrali (con eccezioni tra cui Sardegna e Civitavecchia)”, ma anche che “il margine netto per le centrali a carbone italiane è aumentato di più di 50 volte (sic) tra dicembre 2021 e dicembre 2019, portandosi al valore stellare di 167,5 €/MWh”. Soltanto il mese scorso “le principali centrali termoelettriche a carbone in Italia hanno prodotto circa 1,5 TWh (dati ENTSO-E) sviluppando un ordine di grandezza di margine delle centinaia di milioni di euro. Margini – aggiunge Ecco – che derivano da un’attività a dir poco incompatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione dell’energia, e che anche per questo è improponibile sottrarre a un contributo pari o maggiore a quello che viene chiesto dal Sostegni alle rinnovabili”.

A chi conviene, dunque, se il nostro Paese sceglie di puntare ancora sul gas? Alla popolazione o a chi fa profitto con gli aumenti? “Il decreto – scrive ancora Ecco – conferma il ricorso ai proventi ETS (il mercato dei crediti di carbonio, nda) per finanziare misure volte a tamponare gli aumenti del gas, entrando in contraddizione con la finalità dell’ETS stesso e riducendo ulteriormente le risorse che servono per emanciparsi dai consumi fossili. Le fonti rinnovabili di energia, associate alla elettrificazione dei consumi e con il complemento di capacità di accumuli e di demand response, sono l’investimento più logico per l’emancipazione dalle fluttuazioni dei prezzi dei combustibili. Se invece ogni volta che si genera una crisi fossile si alterano in maniera arbitraria i principi fondamentali dei mercati, in particolare intervenendo sui ricavi delle rinnovabili si finisce per fornire segnali contraddittori agli investitori e ritardare la transizione”.

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