“Bisogna illuminare Taranto, raccontare la bellezza di questa città e il suo futuro, senza dimenticare l’ingiustizia ambientale di cui soffre la città”. La giornalista investigativa e regista milanese Rosy Battaglia documenta da anni i drammi ambientali che affliggono il nostro Paese, forse la spia più evidente dell’insostenibilità del modello di sviluppo in cui viviamo. L’approdo nella città pugliese, troppo spesso associata unicamente all’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, vale a dire il polo siderurgico più grande d’Europa, per lei in un certo senso era inevitabile.
La strada scelta da Battaglia è quella a lei più congeniale: un documentario-inchiesta intitolato “Taranto chiama”. Si tratta di una produzione indipendente, per cui è aperta e in corso dal 19 settembre una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso, a cui tutti possono partecipare come co-produttori. Rosy Battaglia, dopo i due documentari “La rivincita di Casale Monferrato” e “Io non faccio finta di niente” (sulle lotte civiche di Brescia), si sta già dedicando al viaggio-inchiesta che da Trieste arriverà a conclusione nel 2023, a Taranto.
Nelle cronache giornalistiche troppo spesso la città pugliese, che ha una storia millenaria che risale alla Magna Grecia, viene associata soltanto all’ingombrante presenza dell’ex Ilva. Di recente, poi, il connubio è tornato prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica per via delle motivazioni della sentenza di primo grado che la Corte d’Assise di Taranto ha depositato in merito al processo “Ambiente Svenduto”: in quelle quasi 4mila pagine sono sintetizzate le vicende complesse e contorte che hanno riguardato il disastro ambientale degli impianti e la complicità degli apparati dello Stato, a tutti i livelli. A gennaio, poi, l’Onu aveva definito la città pugliese “zona di sacrificio”, accertando che Taranto è uno dei territori più inquinati al mondo.
Il lavoro di Rosy Battaglia si inserisce dunque in un quadro denso di contraddizioni e delusioni e la speranza è che riesca a diradare le nebbie e ridare fiducia a una popolazione sfibrata. I fondi raccolti nel crowdfunding andranno a sostenere la produzione vera e propria, con il completamento di interviste e riprese, la promozione e la distribuzione del documentario che verrà presentato il prossimo anno.
Il progetto vede tra i sostenitori Fnsi e Teamdev, con il patrocinio dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e il contributo straordinario del Premio Marcellino de Baggis con Articolo 21, Peacelink, Genitori Tarantini, Comitato Cittadini e lavoratori Liberi e Pensanti, Comitato Donne e Futuro per Taranto Libera, Afeva, Basta Veleni, ISDE Italia – Medici per l’ambiente, Centro Studi Sereno Regis, Medicina democratica, Osservatorio per la comunicazione e l’informazione nella PA in Italia e in Europa dell’Università degli Studi di Salerno, Fondazione Finanza Etica. I media partner sono invece La Nuova Ecologia e Greenme. Al raggiungimento del 90% dell’obiettivo, il progetto riceverà il 10% di contributo dal Fondo del Microcredito e Crowdfunding di Etica Sgr e Banca Etica.
Per saperne di più abbiamo intervistato l’autrice del documentario, Rosy Battaglia.
Come si può raccontare quella che probabilmente è la città più complessa in Italia dal punto di vista ambientale? Cosa si può dire che non è stato detto o come si possono far comprendere le enormi complessità senza semplificare?
Non si può non partire da una conoscenza, magari non completa ma comunque ampia, di tutto ciò che è stato prodotto e realizzato su Taranto tra inchieste e reportage. Una conoscenza che già diventa una visione. Lo sforzo che voglio realizzare con questo documentario, al quale seguirà molto probabilmente un libro perché è difficile riassumere in un lavoro visivo tutto il lavoro di ricerca, è quello di dare voce e luce alle persone, alle loro storie. A partire dalla scelta che la città pugliese vive sulla propria pelle, cioè il cambiamento di un modello di sviluppo finora imposto e che però la popolazione, almeno in parte, non sente più proprio. I semi ci sono. Sto rileggendo in questi giorni gli scritti di Alessandro Leogrande, il quale sosteneva che Taranto riassume la complessità dell’Italia. Riflessioni che si innervano su ciò che avevano sostenuto Antonio Cederna e Walter Tobagi. A Taranto, a mio avviso, sta avvenendo ciò che aveva immaginato Leogrande, cioè che piccoli gruppi di persone stanno provando a modificare lo scenario esistente. Ed è quello che andrò a raccontare.
Quali sono state le reazioni finora riscontrate?
Stanno succedendo tante cose, nel senso che su Taranto, come già sapevo in realtà, c’è un brutto cono d’ombra e di omertà. Le cronache parlano della città sempre in modo strumentale e mai in maniera positiva. Andando poi a Taranto ho riscontrato che alcune persone scelgono di affrontare il problema eliminandolo, mettendo ad esempio davanti l’Ilva una fila di alberi, provando a ignorare in questo modo una delle aziende più inquinanti d’Europa. Che tra l’altro, come dimostra il miliardo di euro stanziato dal governo Draghi ad agosto, continua invece ad avere le attenzioni dello Stato. Tra lo scenario di guerra e la necessità dell’acciaio, serve mantenere l’attenzione alta. Il mio è stato definito un cinema reattivo, nel senso che fa vedere le reazioni delle persone ai problemi. Io ad esempio vivo vicino a Malpensa, uno degli aeroporti più grandi d’Italia, che è attivo pur senza una valutazione di impatto sanitario, così come richiesto dai comitati locali. Insomma, quel che succede a Taranto succede nel resto d’Italia, per questo credo che sia fondamentale continuare a parlarne.
Non c’è il rischio di ritrovare una certa stanchezza, soprattutto in chi lotta da anni senza ottenere finora grandi risultati?
Vorrei dire prima che molte delle associazioni locali che lottano da anni a tutela dell’ambiente sostengono questo lavoro, così come dimostrato dalla conferenza stampa di lancio della raccolta fondi. Da parte della città ho notato un atteggiamento quasi di indifferenza verso l’ex Ilva, la popolazione vive quasi come se non ci fosse. Il sentimento prevalente in chi lotta, invece, mi sembra che sia quello della rabbia e allo stesso tempo di attesa, come se dovesse succedere qualcosa.
A che punto è il crowdfunding?
La raccolta fondi sta andando bene, nonostante il momento storico in cui l’abbiamo lanciato, me ne rendo conto, non è semplicissimo. La comunità dei cittadini reattivi, sparsi in tutta Italia, ci sta sostenendo e il tentativo nei prossimi mesi è di allargare la diffusione del progetto. Quella del giornalismo indipendente resta una necessità, prima ancora che un’esigenza. E chi crede nella sostenibilità dovrebbe sostenere progetti del genere. Anche perché da freelance siamo già abituati e abituate a stringere la cinghia nel nostro lavoro, ma quel che in parte il crowdfunding andrebbe a sostenere è la distribuzione. Il senso di questo documentario è quello di girare nei territori, per fare rete e creare connessioni.
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