Nel suo discorso di insediamento, il premier Mario Draghi ha fatto intendere che l’ambiente sarà al centro dell’agenda politica dell’esecutivo. Gran parte dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa con i fondi del Next Generation Eu serviranno per affrontare sfide come il cambiamento climatico e la transizione ecologica, in tutti i settori della società.
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Una carbon tax che non penalizzi chi produce senza inquinare
In questo contesto di grande cambiamento, che passa per degli inevitabili provvedimenti di carattere nazionale ma anche – e soprattutto – da una stretta regolamentazione che coinvolga tutti i Paesi dell’Ue, si è tornati di nuovo a parlare dell’introduzione di una tassa su chi produce emissioni inquinanti.
Dopo anni di rinvii dunque, potrebbe essere il momento di ripensare alla cosiddetta “carbon tax”, una tassa su prodotti e servizi che comportano emissioni di CO2. In un contesto globale interconnesso, però, questa tassa deve essere accompagnata a un altra tassa sulle importazioni in modo da evitare il rischio di delocalizzazione e dumping ambientale delle imprese, per cui vanno a inquinare altrove per evitare la tassa introdotta in casa propria e al tempo stesso per scongiurare che i prodotti del Paese che introduce la carbon tax diventino meno competitivi di quelli importati dall’estero, dove la tassa sulle emissioni non esiste.
Questa seconda tassa, definita “border carbon tax” introduce delle imposte sui prodotti importati che abbiano standard ambientali inferiori a quelli stabiliti per chi produce all’interno, compensando gli effetti negativi di una eventuale concorrenza basata sulla minore sostenibilità. Un sistema che potrebbe viaggiare in parallelo con una serie di misure che incentivino la transizione ecologica. Magari iniziando a eliminare gli anacronistici sussidi ai combustibili fossili, gli oltre 19 miliardi annui dei cosiddetti Sad, sussidi ambientalmente dannosi, e investire sullo sviluppo di infrastrutture e nuove tecnologie.
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Come proteggere la nostra economia
La leva fiscale usata per scoraggiare l’uso di petrolio, carbone e gas a favore delle fonti rinnovabili rappresenta un punto fondamentale della teoria economica del Premio Nobel per l’Economia 2018 William Nordhaus, Sterling Professor of Economics all’Università di Yale. Nordhaus sostiene che stabilire un prezzo per le emissioni di gas serra sia un passo imprescindibile per spingere imprese e consumatori a cercare nuove strade di produzione energetica sempre più lontane dal carbone e tentare di tenere sotto controllo i cambiamenti climatici.
Secondo Nordhaus, “aumentare il prezzo delle emissioni di CO2 è oggi l’unico sistema per fermare un processo di crescita pari al 2% annuo che non si è fermato, come molti ipotizzavano, neppure durante il periodo del lockdown causato dal Covid-19 e da un parziale blocco della produzione industriale”.
Per incentivare un calo tangibile delle emissioni, bisognerebbe fissare un prezzo per le emissioni piuttosto alto e nello stesso tempo stabilire elevate tariffe sanzionatorie per i trasgressori. “Purtroppo dopo trent’anni di discussioni sulle politiche ambientali – ha spiegato il premio Nobel – siamo ancora in un vicolo cieco. Gli accordi di Tokyo, Copenaghen e Parigi sono solo volontari e non obbligatori o vincolanti, ma soprattutto non ci sono sanzioni per chi viola i protocolli”.
Ad oggi, secondo l’Ocse, la carbon tax delle 42 maggiori economie si attesta su una media di 8 dollari per tonnellata di CO2. Le Nazioni Unite ritengono che sia necessario arrivare, entro il 2030, a una cifra compresa fra i 135 e i 5.500 dollari per tonnellata. Altrimenti, sarà impossibile contenere l’aumento delle temperature medie globali entro 1,5 gradi centigradi rispetto all’era pre-industriale.
Una tale misura potrebbe dunque rappresentare davvero una via per ridurre il nostro impatto ambientale ma, allo stesso tempo, potrebbe colpire le nostre piccole e medie industrie e le fasce economicamente più deboli. Non una scelta facile, ma necessaria. Cosa fare dunque?
L’esempio dagli Usa
Sicuramente bisogna immaginare un meccanismo che possa scoraggiare le emissioni di carbonio e tutelare, al contempo, la crescita economica, introducendo anche sistemi di compensazione per chi subisce i costi generati della carbon tax nazionale.
Per far accettare a cittadini e imprese questo ulteriore balzello, bisognerà garantire infatti una corretta redistribuzione del gettito fiscale derivante dalla tassazione del carbonio. Come sostiene in un articolo sul New York Times il professore Robert H. Frank della Cornell University, si potrebbe immaginare un sistema di rimborsi ai cittadini in modo da compensare le fasce più povere e sollecitare quelle più ricche ad adottare uno stile di vita più green.
L’amministrazione Biden, ad esempio, sta studiando un modo per emanare una tassa sul carbonio ed evitare aumenti fiscali sulla maggior parte dei contribuenti. Il gettito fiscale generato potrebbe essere utilizzato, ad esempio, per rendere permanenti le disposizioni fiscali sul reddito individuale del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), che dovrebbero scadere alla fine del 2025
La scadenza di queste disposizioni porterà a un aumento delle imposte sul reddito individuali per la maggior parte dei contribuenti. Questo significa che, utilizzando le entrate fiscali derivanti dalla tassa sul carbonio, sarebbe possibile evitare aumenti fiscali sulla maggior parte dei contribuenti e ci sarebbe anche un impatto positivo sulla crescita economica.
Al momento si tratta soltanto di un’ipotesi ma di certo una tassa sul carbonio, a causa della sua ampia base imponibile, potrebbe generare entrate utili a ridurre altri tipi di tasse, finanziare investimenti pubblici o – come sostiene il professor Frank – erogare rimborsi per consumatori e imprese.
Del resto, nonostante il ceo di Tesla Elon Musk abbia recentemente raccontato di aver proposto all’amministrazione Biden di istituire una carbon tax senza però essere ascoltato, l’economia e il cambiamento climatico sembrano essere due sfide che l’amministrazione Biden ha già identificato come prioritarie. A detta di Musk, l’idea sarebbe stata “rispedita al mittente” in quanto “politicamente troppo difficile”. È altrettanto difficile però immaginare che questo stesso discorso si potesse mettere in piedi ai tempi della presidenza Trump.
Tutti gli Stati sono oggi consapevoli dell’urgenza e della minaccia del surriscaldamento globale e della necessità di passare più rapidamente possibile alle energie rinnovabili. La nuova presidenza americana è chiamata a recepire l’imponente appello degli accademici d’oltreoceano: non a caso Bruegel, uno fra i più importanti think thank europei e mondiali con sede a Bruxelles, ha iniziato a parlare della possibilità di un’intesa tra Usa e Ue per l’avvio di una “border carbon tax” comune alle due aree (che rappresentano da sole circa il 40% del mercato globale) alla quale altri Paesi potrebbero affiancarsi.
Intanto però, in tutto il mondo, già diversi paesi si sono portati avanti, introducendo una tassa sul carbonio a livello nazionale.
Cosa sta accadendo nel resto del mondo?
Per avere un quadro d’insieme della carbon tax a livello globale basta visitare lo speciale “Carbon Pricing Dashboard”, aggiornato in tempo reale dalla Banca Mondiale.
Attualmente sono 64 le iniziative di “pagamento del carbonio”: 46 di queste iniziative sono entrate a far parte di leggi nazionali, mentre 35 sono state adottate da realtà più piccole. Nel 2020 tutte queste iniziative dovrebbero coprire 12 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti, vale a dire il 22,3% di tutte le emissioni di gas serra.
L’ultima, in ordine di tempo, è stata la Germania. In estate Berlino ha annunciato che dal 2021 i tedeschi pagheranno 25 euro per ogni tonnellata di CO2 emessa. La carbon tax salirà negli anni successivi, portandosi a 55 euro per ogni tonnellata di CO2 emessa. Con gli introiti derivanti dalla carbon tax, il governo tedesco intende ridurre la sovrattassa inserita sulle bollette elettriche, che finanzia lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Anche il Giappone sta prendendo in considerazione una tassa sul carbonio da imporre sulle importazioni da paesi con standard ambientali insufficienti. Ma, andando indietro nel tempo, sono i paesi del Nord Europa a fare da precursori in questo campo. La prima carbon tax venne adottata in Finlandia nel 1990. L’anno dopo scattò in Svezia e Norvegia, nel 1992 in Danimarca.
Dopo trent’anni, Finlandia, Svezia e Danimarca guidano la classifica dei Paesi che hanno ridotto maggiormente le emissioni di gas serra in rapporto al prodotto interno lordo, con percentuali che oscillano tra il 45 e il 55%. Questo significa che la carbon tax funziona.
L’Unione europea non ha adottato la carbon tax, perché la fiscalità è materia su cui legiferano i parlamenti nazionali, optando per gli Emissions Trading Scheme (Ets). L’obiettivo degli Ets è il medesimo: disincentivare l’uso di combustibili fossili e riorientare il sistema produttivo verso le fonti rinnovabili.
Per farlo viene fissato il prezzo del carbonio – che oggi vale 25 euro per tonnellata di CO2 – e ogni azienda che emette anidride carbonica può vantare un certo numero di crediti. Si può emettere tanta CO2 quanti sono i crediti di cui si è in possesso, altrimenti è necessario comprare altri crediti sul mercato.
L’adozione dell’Ets non esclude però che singoli governi decidano di adottare anche la carbon tax, che non riguarda soltanto le grandi industrie, ma anche i singoli cittadini. Come accaduto appunto in Svezia o in Germania.
Una carbon tax europea
Entro il 22 aprile 2021, Giornata Mondiale della Terra, “Clima Comune”, la rete di sindaci a favore di StopGlobalWarming.eu, l’Iniziativa dei cittadini europei promossa dall’attivista Marco Cappato, si è impegnata a raccogliere un milione di firme per obbligare la Commissione Ue a discutere la proposta di una Carbon Tax europea.
L’idea è stata validata da 27 premi Nobel e migliaia di scienziati e, al momento, è stata sottoscritta da oltre 60 primi cittadini italiani – dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi a Giuseppe Sala, da Luigi De Magistris al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, fino a Leoluca Orlando, Antonio Decaro, Federico Pizzarotti e tanti altri – anche di alcune città europee, tra cui Monaco, Francoforte, Dublino, Eindhoven e Dortmund.
Come si legge nella raccolta firma StopGlobalWarming.eu: “le maggiori entrate derivanti dalla fissazione del prezzo delle emissioni di CO2 verranno dirottate verso le politiche europee che sostengono il risparmio energetico e l’uso di fonti rinnovabili e impiegate per ridurre l’imposizione fiscale sui redditi più bassi”.
Del resto, l’Ue ha già indicato nella “border carbon tax” una delle principali fonti di risorse proprie che dal 2023 dovrebbero consentire di raccogliere fondi per finanziare il piano Next Generation Eu.
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Il vicepresidente della Commissione europea con delega al Clima, Frans Timmermans, è stato molto chiaro: “È una questione di sopravvivenza della nostra industria. Quindi, se altri non si muoveranno nella stessa direzione, dovremo proteggere l’Unione Europea dalla distorsione della concorrenza e dal rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio”.
L’asse Europa-Stati Uniti
La politica climatica Ue dunque, non si ferma. La prossima conferenza internazionale sul cambiamento climatico, la COP26 di Glasgow, a novembre, sarà il termine ultimo per quasi 200 Paesi per aggiornare i loro impegni nella riduzione delle emissioni. Se l’incontro non darà i risultati sperati, Timmermans ha già spiegato che l’Ue procederà con misure unilaterali.
Quali saranno i prossimi passi? L’Unione Europea sta già elaborando una legge mirata a penalizzare le importazioni di alcune merci da Paesi con regole di inquinamento deboli, aiutando così a tutelare la competitività dei produttori locali che rispettano standard più severi. La carbon border tax, come accennato, può agire in una duplice direzione: da una parte può riequilibrare la concorrenza, evitando che si inneschi una gara al ribasso sugli standard ambientali e sociali. Imporre un cambio di passo all’intero sistema produttivo garantirebbe di evitare un ricorso alla delocalizzazione in Paesi “meno virtuosi”.
Dall’altra, si promuove un cambiamento nella politica climatica, garantendo un innalzamento globale degli standard di sostenibilità ambientale. Standard sociali e ambientali condivisi potrebbero assicurare a tutte le aziende una competizione equa. In occasione della COP26 Unione europea e Stati Uniti potrebbero arrivare addirittura a presentare una proposta di border carbon tax comune, in grado di orientare il commercio internazionale verso la transizione ecologica.
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O almeno questo è quanto auspicato dai leader dei Verdi tedeschi, il secondo partito più popolare nei sondaggi elettorali, sulla scia di quanto già previsto da Bruegel. I leader del partito sostengono che Europa e Stati Uniti dovrebbero stringere una sorta di “alleanza transatlantica per la neutralità climatica”. Potrebbe essere il modo migliore per rinvigorire la lotta globale contro il cambiamento climatico.
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