“La rivoluzione verde potrebbe essere un bagno di sangue”. Sin dal suo insediamento il ministro Roberto Cingolani si è contraddistinto per un certo tono apocalittico. Nell’intervista a La Stampa di ieri, ripresa da molti giornali, l’uomo che guida il dicastero della Transizione ecologica conferma le difficoltà e allo stesso tempo la visione che caratterizza il suo operato. “Per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo” ha poi aggiunto. E su questo non possiamo che essere d’accordo. Il problema, come al solito, è chi deve pagare in maniera prioritaria questo prezzo.
Una questione messa perfettamente in risalto dalle polemiche e dalle difficoltà sorte attorno alla direttiva Sup (Single Use Plastic), che entra in vigore il 3 luglio. Si tratta nello specifico della direttiva comunitaria 2019/904 “sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”. A meno di 24 ore di distanza dall’applicazione della norma, che il nostro Paese ha recepito non senza polemiche lo scorso aprile con la legge di delegazione europea (ci torneremo), è ancora tanta la confusione sotto il cielo. Non è ancora chiaro non solo in che modo l’Italia si adeguerà, ma anche se c’è ancora uno scontro in atto con Bruxelles, se questo potrebbe portare a una procedura di infrazione, o se ci sono già i margini per ricucire.
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A che punto è il contenzioso?
Il 29 giugno Ansa scriveva, con una certa dose di ottimismo, che “è in fase di soluzione il contenzioso fra l’Italia e la Commissione europea sulla direttiva e sulle linee guida per la sua applicazione, approvate a fine maggio”. Sempre per Ansa i problemi, sollevati dal governo italiano su spinta di Confindustria, sono due. “In primo luogo, avere inserito fra gli oggetti monouso da bandire anche quelli in plastica compostabile, che spariscono rapidamente nell’ambiente. In secondo luogo, avere ampliato con le linee guida di maggio il campo dei prodotti vietati, includendo anche gli imballaggi in carta plastificata, con un contenuto di polimero inferiore al 10%. Plastica compostabile e carta plastificata sono due settori nei quali l’industria italiana è molto forte”.
Che i prodotti compostabili spariscano rapidamente nell’ambiente è un’affermazione, a voler usare un eufemismo, tanto fuori luogo quanto scientificamente smentita. Per trasformare le bioplastiche in compost, val lapena ricordarlo, c’è bisogno di un adeguato trattamento in impianti dedicati. Già il 4 giugno, a Il Fatto Quotidiano, Cingolani d’altra parte parlava di “Europa bella” che “ha capito il nostro punto di vista”. Anche se questo punto di vista, in realtà, non è proprio così chiaro.
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Le posizioni in campo
Da una parte c’è l’Europa che nella direttiva dispone “la messa al bando di piatti, stoviglie, cannucce, bastoncini cotonati, aste per palloncini, mescolatori per bevande, contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso”, oltre a una “riduzione del consumo di tazze per bevande e alcuni contenitori in plastica monouso per alimenti”. Soprattutto, nella concezione europea di plastica ci sono anche il biodegrabile e il compostibile, perché nella definizione di plastica riportata all’art. 3 comma 1 della direttiva si escludono solamente i “polimeri naturali che non sono stati modificati chimicamente”. Mentre le plastiche bio italiane sono ottenute, come ha spiegato bene l’esperto Paolo Azzurro in un report commissionato da Greenpeace, “attraverso polimeri naturali modificati chimicamente realizzati a partire dalla trasformazione degli zuccheri presenti nel mais, barbabietola, canna da zucchero e altri materiali naturali e sono pertanto inclusi nel perimetro di applicazione della direttiva”.
Dall’altra parte c’è l’Italia, che continua a perorare la causa delle bioplastiche – soprattutto attraverso l’azione delle associazioni di categoria – “dove non vi sono alternative riutilizzabili”, così come recita il testo del cosiddetto emendamento Ferrazzi (dal nome del senatore primo firmatario) e che però è una definizione alquanto vaga. Inoltre il nostro Stato chiede di allargare i risultati quantificabili entro il 2026 rispetto al 2022. Infine, stando a quanto annuncia il Corriere della Sera, “è in corso di definizione, su iniziativa della Commissione e in consultazione con gli Stati membri, un criterio di calcolo per gli obiettivi di riduzione che sia basato sulla quantità reale di plastica contenuta nei prodotti monouso misti, basato sul peso. Questo sarebbe più proporzionale rispetto al reale impatto ambientale di prodotti misti, con poca o pochissima plastica. In pratica, per un bicchiere da caffè di carta plastificata sarà calcolato solo il peso relativo alla plastica e non alla carta”. Una soluzione, frutto probabilmente delle trattative in corso, che converrebbe alle industrie italiane ma un po’ meno all’ambiente.
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Legambiente vs Greenpeace
Se non si fosse compresa la complessità della vicenda, pure il mondo ambientalista si è “spaccato” sulla direttiva Sup. Due delle più note associazioni, Legambiente e Greenpeace, che da tempo marciano insieme su molte questioni, si sono invece divise in merito alla plastica. Negli ultimi giorni è circolata una bozza del decreto legislativo del ministero della Transizione ecologica per recepire la direttiva Sup che tenta di salvare la filiera delle bioplastiche. Un tentativo che, per il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, “va nella giusta direzione e riconosce all’Italia la leadership internazionale su bioeconomia, produzione di plastiche compostabili, raccolta differenziata dell’umido domestico e filiera industriale del compostaggio. Riteniamo invece fortemente sbagliata l’impostazione sulle bioplastiche compostabili delle linee guida emanate nei giorni scorsi dalla Commissione europea, che invece farebbe bene a seguire il modello italiano che ha permesso di ridurre i sacchetti per l’asporto merci di quasi il 60% dopo il bando entrato in vigore circa 10 anni fa”.
Di tutt’altro avviso invece Greenpeace, che nelle parole di Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento, critica proprio il “forte sbilanciamento verso la sostituzione del monouso in plastica con alternative in materiale compostabile. La maggior parte delle norme finora adottate in Italia ha promosso e incentivato la sostituzione dei prodotti monouso realizzati in plastica tradizionale con prodotti monouso realizzati in bioplastica compostabile, anche laddove sarebbe stato possibile adottare misure in grado di superare il ricorso all’usa e getta”. Per Ungherese “limitare i danni delle plastiche sull’ambiente non vuol dire sostituire i materiali, spostando così gli impatti su altri comparti ambientali e lasciando inalterato il modello dell’usa e getta. Bisogna ridurre il ricorso al monouso, costruendo le condizioni economiche, fiscali e regolamentari per la diffusione e il consolidamento di modelli di business e di consumo basati sull’utilizzo di prodotti durevoli, riutilizzabili, sostenendo la vendita di prodotti sfusi”.
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Ma non eravamo già tutti plastic free?
Al pari delle fonti fossili, dalle quali tra l’altro proviene per la maggior parte, la plastica sta subendo un processo di “demonizzazione”. Qui però non si tratta di mettere pagelle e di individuare buoni e cattivi, quanto piuttosto di capire dove è più urgente intervenire. Aspetto non secondario, serve individuare anche le modalità più corrette. Sulla plastica, ad esempio, negli ultimi anni molte amministrazioni locali – incentivate soprattutto dall’azione dell’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa – hanno partecipato alla virtuosa gara del modello “plastic free”. In poco tempo l’espressione è diventata di uso comune, e sono sempre più numerosi i Comuni che si dichiarano tali. La regina di queste iniziative era ed è la borraccia, che va nell’auspicata direzione del riutilizzo all’insegna della diffusione delle buone pratiche per i singoli cittadini. Il modello plastic free però, allo stesso tempo, molto spesso promuove una sostituzione dei materiali con cui realizzare il monouso più che elaborare una exit strategy dal modello usa e getta. Il caso più lampante è quello degli stabilimenti balneari, che già dal 2019 in teoria devono rinunciare alla somministrazione di bicchieri in plastica. Nella pratica poi le bottiglie fornite al bancone continuano a essere in plastica, i bicchieri in bioplastica e se si prende un cocktail continuerà a esserci la cannuccia, magari rigorosamente bio. Quanto davvero ci si libera dall’usa e getta?
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Quello che non si dice
Qui a EconomiaCircolare.com lo ripetiamo fino allo sfinimento: il miglior rifiuto è quello che non si produce. È sostanzialmente l’assunto che permea tutta la direttiva Sup. Non si tratta, per riassumere, né di sostituire un materiale con un altro un po’ meno inquinante né tantomeno cercare ulteriori migliorie tecnologiche o affidarsi esclusivamente al riciclo. Quest’ultimo infatti è uno dei punti fondamentali dell’economia circolare ma nelle gerarchia delle R viene sotto la riduzione e il riutilizzo. E sono proprio questi due concetti quelli maggiormente auspicati dalla direttiva.
Sarà pure impopolare (ed è per questo che la classe politica non lo afferma), ma una delle strade da intraprendere è quella della riduzione dei consumi. Più cresciamo numericamente più non possiamo permetterci l’economia lineare. La plastica monouso, in questo senso, è solo uno dei fronti più evidenti di un modello di sviluppo insostenibile. Meno è meglio, si diceva una volta. Vale ancor di più adesso, con la crisi climatica che sta mostrando in questa bollente estate di essere una realtà con cui dobbiamo già adesso fare i conti.
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Due chiarimenti finali
Se dal 4 luglio negli scaffali dei supermercati e dei negozi troverete ancora manufatti in plastica monouso, non vi allarmate. La direttiva prevede infatti che si possano continuano a vendere i prodotti immessi sul mercato e realizzati prima del 3 luglio, e che quindi sono stati accumulati nei magazzini di produttori, grossisti, distributori e negozianti.
La vera domanda, invece, a questo punto è: davvero rischiamo l’avvio di una procedura d’infrazione (sarebbe l’ennesima) da parte dell’Unione europea? Se una proroga del decreto legislativo da parte del Mite sembra ormai inevitabile, ciò potrebbe consentire anche di dilatare i tempi della trattativa. E, dunque, anche la possibilità di un’infrazione. A meno che una delle due parti in causa – Italia e Commissione – si impunti sulle posizioni finora assunte. Un conflitto che i nostri mari, sempre più colmi di rifiuti, soprattutto in plastica, ci chiedono di risolvere al più presto.
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