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Che la crescita verde sia una chimera sembra essere ormai convinzione comune, specie tra quegli scienziati che caldeggiano invece la possibilità di una a-crescita o decrescita. Su EconomiaCircolare.com abbiamo ospitato spesso interviste e riflessioni sul tema, confezionando un’intera rubrica dedicata, ma restano ancora dei punti da indagare. Quanto, ad esempio, la presunta crescita verde di un Paese ad alto reddito sia compatibile con gli obiettivi climatici di Parigi.
Nell’ultimo decennio, alcuni Paesi hanno ridotto le loro emissioni di CO2 mentre è aumentato il prodotto interno lordo (PIL): si tratta del cosiddetto ‘disaccoppiamento assoluto’, quando quindi la pressione sull’ambiente decresce all’aumentare delle attività economiche; il fenomeno è conosciuto anche come decoupling, per indicare più genericamente lo sganciamento tra il tasso di crescita economica positivo e gli indicatori di calcolo della pressione ambientale in diminuzione.
In uno studio pubblicato su The Lancet lo scorso settembre gli autori Jefim Vogel e Jason Hickel si pongono l’obiettivo di valutare se questi risultati siano coerenti con gli obiettivi previsti dall’Accordo di Parigi e se quindi una crescita di questo tipo possa davvero considerarsi “verde”, adesso o in un prossimo futuro.
Una questione di velocità
Uno dei problemi alla base della crescita verde è che anche in uno scenario in cui la tecnologia consente, ad esempio, un efficientamento energetico, un aumento della produzione e dei consumi comporta sempre una maggiore domanda di energia, e di conseguenza più emissioni di quanto avverrebbe in assenza di tale aumento.
I politici, fanno notare nello studio, hanno solitamente utilizzato i Paesi che hanno raggiunto il disaccoppiamento assoluto come dimostrazione di una possibile crescita verde. Anche diversi media sostengono questa tesi. In un articolo del Financial Times del 2022 si afferma che “la crescita verde è già qui” e “potrebbe portarci a zero da sola”, sostenendo che il crollo dei costi dell’energia a basse emissioni di carbonio ha già permesso a molti Paesi di disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni.
È possibile che le emissioni possano diminuire in concomitanza con la crescita del PIL – anche se spesso questi calcoli sono la conseguenza di un trasferimento di impatti dovuto al commercio internazionale: da nazioni ricche a nazioni povere – ma, secondo lo studio, non basta ridurre le emissioni di qualsiasi entità: i Paesi devono ridurle fino allo zero netto, e abbastanza velocemente da limitare il riscaldamento globale a 1,5°C o almeno ben al di sotto dei 2°C in modo equo, come richiesto dall’Accordo di Parigi.
In pratica non conta solo se si raggiunge un disaccoppiamento sufficiente ma quanto rapidamente: il tempo nella lotta alla crisi climatica è un fattore non trascurabile e, anche in questo caso, a fare la differenza è la velocità con cui i cambiamenti possono avvenire. Secondo lo studio i Paesi ad alto reddito, con le loro elevate emissioni pro-capite di CO2, dovrebbero ridurre le emissioni a un ritmo estremamente veloce per riuscire a rispettare gli obiettivi climatici e gli impegni di equità dell’Accordo di Parigi. La crescita economica rende invece una riduzione così rapida delle emissioni difficile da raggiungere.
“Una riduzione insufficiente delle emissioni – affermano – provocherà un riscaldamento globale pericoloso e probabilmente catastrofico e aggraverà l’ingiustizia climatica. Uno scenario del genere non può quindi essere considerato verde”.
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Un’attesa di 220 anni
Dopo aver identificato 11 Paesi ad alto reddito che hanno raggiunto il disaccoppiamento assoluto tra il 2013 e il 2019, gli scienziati hanno valutato le riduzioni delle emissioni di CO2 basate sul consumo e i tassi di disaccoppiamento di questi Paesi rispetto alle percentuali conformi a Parigi. Ed è emerso che le riduzioni delle emissioni ottenute attraverso il disaccoppiamento assoluto sono di gran lunga inferiori a quelle richieste dagli obiettivi di Parigi.
Solo Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito, 11 dei 36 Paesi ad alto reddito valutati hanno raggiunto, tra il 2013 e il 2019, il disaccoppiamento assoluto delle emissioni di CO2 basate sui consumi rispetto al PIL. Tuttavia, nessuno di questi Paesi ha raggiunto riduzioni delle emissioni sufficientemente rapide per avere il 50% di possibilità di rimanere al di sotto di 1,5°C con principi minimi di equità. Inoltre, il divario tra le tendenze attuali e le riduzioni delle emissioni richieste è estremamente rilevante.
Ai tassi raggiunti, questi Paesi impiegherebbero in media più di 220 anni per ridurre le rispettive emissioni del 95%, emettendo nel frattempo 27 volte le loro rimanenti quote di CO2 previste dal carbon budget, cioè la quantità cumulativa di anidride carbonica (CO2) che può ancora essere immessa in atmosfera se si intende mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Per raggiungere queste quote e continuare a crescere economicamente, i tassi di disaccoppiamento dovrebbero in media aumentare di dieci volte entro il 2025.
Anche la Svezia, il Paese con le più basse emissioni pro-capite e, di conseguenza, i tassi di mitigazione più bassi dei Paesi campione presi in esame, avrebbe bisogno quasi di quadruplicare il suo tasso di disaccoppiamento entro il 2025 e accelerare di oltre un fattore cinque entro il 2030 (dalla media del 2013-19 del 3-4% all’anno).
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È davvero ‘verde’ questa crescita?
In definitiva, per gli autori “I tassi di disaccoppiamento raggiunti nei Paesi ad alto reddito tra il 2013 e il 2019 sono inadeguati per rispettare gli impegni climatici dell’Accordo di Parigi e non possono essere legittimamente considerati verdi. I Paesi ad alto reddito non hanno raggiunto una crescita verde e molto difficilmente saranno in grado di raggiungerla in futuro”.
Gli autori non si fermano però alle criticità sollevate dai dati ottenuti e si spingono a considerare un approccio di post-crescita, suggerendo che non basterà ridurre il PIL per un’efficace programma di mitigazione: “Per ottenere riduzioni delle emissioni conformi a Parigi, i Paesi ad alto reddito dovranno perseguire strategie di riduzione della domanda post-crescita, riorientando l’economia verso la sufficienza, l’equità e il benessere umano, accelerando al contempo i cambiamenti tecnologici e i miglioramenti dell’efficienza”.
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